36. Limbo
Nella testa di molti, Jordan avrebbe dovuto continuare a esistere in quel quadro perfetto che aveva realizzato contro Utah per il resto della sua vita: rimanere lì, con il tempo quasi scaduto, il braccio destro teso e il polso piegato, sospesi come un punto interrogativo ad accompagnare il tiro, la palla in volo verso il canestro, il mare di facce sullo sfondo bloccate nella suspense. Air Jordan: indomito e invitto, fino alla fine.
Non poteva esserci coronamento migliore: una carriera iniziata con un canestro all’ultimo secondo diventato famoso in tutto il mondo e poi, dopo vent’anni da sogno, la chiusura del cerchio con un momento altrettanto epico. Altri campioni dello sport erano famosi per i loro istanti magici, ma nessuno ne aveva mai vissuti così tanti, nessuno li aveva trasformati in routine.
La sua carriera si sarebbe conclusa con quel gran finale in Utah?
Tutti, compreso Jerry Reinsdorf, cercarono in un modo o nell’altro di lasciarlo in pace. «Non metterti mai a fare un’altra cosa» continuavano a ripetergli, nei mesi successivi. «Hai raggiunto la perfezione. Cosa potresti fare di meglio?»
Ma non era possibile.
Appena un paio di giorni dopo aver chiuso eroicamente le finali Nba a Salt Lake City, e aver condotto i Chicago Bulls a vincere ancora una volta tre titoli consecutivi, era già lì che smaniava per andare sui campi da golf.
Jordan aveva passato ore a giocare sulla versione da videogioco del suo campo preferito, il Barton Creek, progettato da Tom Fazio vicino a Austin, in Texas, con i suoi stupendi fairway incastonati tra le colline, le cascate rigogliose e le grotte calcaree: ora che un’altra lunga stagione Nba era finita, aveva programmato di passare dal campo virtuale a quello reale.
Ed è lì che entrò in scena Keith Lundquist. Jordan si stava recando a Austin, di lunedì, per giocare un paio di round pomeridiani a Barton Creek. Qualche giorno prima aveva chiamato per sapere se Lundquist, un texano professionista di golf, potesse raggiungerlo per giocare al club Great Hills, quel lunedì, come rifinitura.
Il Great Hills era chiuso il lunedì, il che era ottimo per sistemare Jordan e il suo gruppo. Così Lundquist disse a Jordan che gli avrebbe fatto trovare tutto pronto. Aveva immaginato che la star, trentacinquenne, avrebbe gradito un’andatura tranquilla per rilassarsi dopo le fatiche della Nba.
Quel lunedì, invece, il telefono di Lundquist squillò a un’ora assurda del mattino: era Jordan che lo informava che il suo jet privato stava atterrando e subito dopo si sarebbe diretto al campo. Lundquist si svegliò sbattendo gli occhi e guardò di nuovo l’ora; poi saltò giù dal letto e si precipitò a incontrare Jordan nel locale interno al club.
Quando Lundquist arrivò al Great Hills trovò MJ in attesa, al campo pratica, che sparava furiosamente palline nell’oscurità. Lundquist era un professionista di lungo corso, ma non aveva mai visto nessuno fare niente del genere.
Quando si strinsero la mano, Lundquist sentì il proprio arto sparire nel gigantesco guanto imbottito di Jordan. Era vero, capì: MJ era proprio una leggenda.
Non appena la luce squarciò il cielo, Jordan e i suoi quattro amici, tra cui l’ex ricevitore della Nfl Roy Green, partirono. His Airness voleva giocare più buche possibili prima di un evento di beneficenza a cui avrebbe dovuto partecipare a mezzogiorno.
Lundquist accompagnò Jordan in campo: «Gli dissi dove colpire la palla, quali fossero le distanze e le pendenze dei green» ricorda Lundquist. «Non giocò particolarmente bene le prime nove buche. Eravamo a pochi giorni dalle finali Nba; lui fumava sigari e si divertiva. I quattro si diedero da fare, ma niente di pesante. Lui colpiva la palla fin troppo bene, molto meglio di quanto pensassi. Sapeva colpire, non ci sono dubbi al riguardo».
Quando raggiunse le difficili ultime nove buche del Great Hills, Jordan aveva chiaramente iniziato a tirare fuori il gioco, come ha raccontato Lundquist: «Mostrava un gran tocco sul green. Le sue mani erano enormi e aveva delle impugnature allungate sulle sue mazze. La coordinazione occhio-mano era eccellente. E, ovviamente, le capacità atletiche erano di un’altra categoria».
A quel punto i membri del club avevano scoperto che Michael Jordan stava giocando nel campo chiuso. Una folla spontanea di sessanta o settanta persone si radunò in quattro e quattr’otto. Era quello che lo attendeva ovunque giocasse. L’avvocato di Orlando Mark NeJame ricorda una volta di aver guardato fuori dalla finestra di casa sua, che affacciava su un campo da golf, e di aver visto un cart accelerare lungo il fairway: «Un minuto più tardi vidi almeno quindici cart che lo inseguivano lungo il campo: nel primo cart c’era MJ, negli altri quindici membri del club in preda alla frenesia per cercare di vederlo, anche di sfuggita».
Jordan era una persona piacevole ed era ovviamente molto abituato a essere inseguito, sostiene Lundquist: «Durante la partita ci tenne ad avvicinarsi a me per chiacchierare. Lui usava quelle Wilsons e io gli dissi: “Puoi trovare mazze migliori”».
Jordan era d’accordo: «Ma loro mi pagano il conto» disse, riferendosi al suo contratto di sponsorizzazione con il produttore.
Richard Esquinas una volta aveva notato che Jordan giocava a golf nello stesso modo in cui giocava a basket, forzando sempre il ritmo e cercando di trarne vantaggio. E sembrava proprio quello che stava facendo quel giorno, in Texas. Divorando una buca dopo l’altra, i quattro galopparono per il campo a una velocita tale da stancare chiunque, pensò Lundquist, che poi accompagnò Jordan all’evento di beneficenza sotto la canicola. Lì, Jordan si dedicò con generosa vivacità alla ressa di bambini e adulti che lo aspettava. Nel pomeriggio si concesse un’altra scorpacciata di buche, sui meravigliosi campi di Fazio, a Barton Creek. Finì giusto in tempo per raggiungere San Marcos, dove partecipò a un incontro di basket di beneficenza, la sera.
«Giocò dal primo all’ultimo minuto» racconta Lundquist. «Sarà rimasto in campo almeno due ore. Mai visto niente del genere».
Subito dopo Jordan fece rotta verso uno dei migliori ristoranti di Austin, dove si trattenne fino alla mattina presto, prima divorando una bistecca, poi fumando sigari e sorseggiando vini costosi, finché non giunse l’ora di correre in aeroporto e decollare via con il jet, mentre albeggiava di nuovo nei cieli del Texas.
Partito Jordan, Lundquist si mise a riflettere su quella forma di appetito alieno che aveva appena incontrato.
Forse la pensione avrebbe fatto bene a Jordan. Aveva il conto in banca, il jet privato e un’energia e una curiosità incredibili per percorrere in lungo e in largo il mondo conosciuto alla ricerca del campo da golf perfetto. Di sicuro sembrava una dimensione ideale per osservatori esterni come Lundquist. Però mancava un aspetto: Sarebbe stato sufficiente per lui?
PIANTATO IN ASSO
Jordan ha ammesso di essersi sentito piantato in asso da Jackson, quando il coach aveva deciso di mollare i Bulls. Uomo di parola qual era, Jordan aveva giurato di ritirarsi se Jackson non fosse stato in panchina. Era difficile misurare l’impatto della separazione da Jackson, ha spiegato uno stretto collaboratore di entrambi: «Quando manipoli qualcuno, ottieni quello che vuoi. Ma quando quella persona ti scopre, e scopre di essere stata manipolata, sopraggiunge l’isolamento. Quel fatto nuovo comprometterà la relazione, non importa quanto forte sembrasse prima. È la conseguenza della manipolazione».
Jordan in seguito, dopo l’ultimo titolo, avrebbe fatto chiarezza su Jackson, sul licenziamento di Johnny Bach e su molte altre cose, ma in quel momento aveva la sensazione che Jackson lo avesse abbandonato. Jordan era riuscito a screditare e annullare l’editto di Krause contro Jackson, eppure il coach li aveva lasciati tutti lì con un palmo di naso.
Krause si mosse in fretta per mandare Scottie Pippen a Houston. Grazie a quell’operazione, Pippen avrebbe finalmente ottenuto quanto meritava in termini economici, ma la frattura con Jackson e la spaccatura della squadra alimentarono il suo senso di isolamento. Se in precedenza si era fidato di poche persone, ora Jordan non si fidava quasi di nessuno. Un suo stretto collaboratore, che aveva fatto parte del cerchio magico costruito da Jackson all’interno della squadra, si imbatté in Jordan qualche tempo dopo, nel corso di quell’anno, ed ebbe l’immediata percezione che ogni calore fosse sparito. «Parlammo,» racconta il collaboratore «ma una parte di me sentiva che lui non si fidava più, almeno non quanto prima. Sembrava fossimo amici, ma non lo eravamo più».
Se la fiducia che i Bulls rappresentavano era svanita, allora tutta quell’esperienza era stata solo un’illusione?
Con Pippen ceduto e Jackson andato, la conclusione scontata era che Jordan si sarebbe ritirato. Ma la decisione fu rimandata da una disputa contrattuale tra i proprietari delle squadre Nba e i giocatori. Per Jordan era un ottimo momento per sparire, visto che i proprietari avevano bloccato tutti i giocatori nell’estate del 1998, mentre discutevano il nuovo accordo sulla contrattazione collettiva, reso necessario proprio dal suo contratto spropositato. I proprietari non volevano pagare stipendi «alla Jordan» a giocatori di classe inferiore. La situazione gli lasciò più tempo per trastullarsi, mentre meditava sul proprio futuro.
Durante uno di questi weekend frivoli, si tranciò accidentalmente un tendine della mano con un tagliasigari. L’incidente lo costrinse a un’operazione chirurgica e mise ancora più in dubbio il suo rientro in campo.
Intanto, anche i rapporti con la madre e i fratelli erano come sospesi. Sis continuava a combattere con le proprie emozioni nei confronti del padre: poco dopo l’omicidio aveva iniziato a scrivere il suo libro, per abbandonare il progetto nel 1995. Rimase molto critica verso il fratello minore ricco e famoso, puntando il dito soprattutto contro le scommesse esorbitanti, mentre lei e altri membri della famiglia erano in difficoltà economiche. Non è che non li aiutasse – per esempio aveva comprato un autoarticolato che permise a suo zio Gene Jordan di lavorare come camionista, passati i settant’anni. Sis aveva stimato che suo fratello le avesse dato un totale di centomila dollari, nell’arco degli anni. Non si aspettava che si facesse carico di lei o dei suoi bambini, però era amareggiata al pari di altri dalle grosse somme che buttava con le scommesse. Le sue critiche a quanto pare avevano un prezzo. Sisi notò infatti che ogni membro della famiglia aveva ricevuto dal partner di suo fratello, la Nissan, una macchina nuova di zecca, eccetto lei. A Sis invece erano arrivate le chiavi di un’auto usata. E lei considerò questo sgarbo la prova di come il fratello usasse le sue ricchezze per tenerli sotto controllo.
Nel 1997 Sis e Michael non si parlavano più. Lui aveva regalato a tutti i suoi familiari più prossimi dei costosi gioielli per commemorare ogni titolo Nba, ma nel 1998 Sis non ricevette nessun gioiello. Nel 1999, dopo il ritiro, Michael reagì con rabbia alla notizia che la sorella aveva ripreso a lavorare al libro. Secondo Sis, Michael sosteneva che il libro fosse solo un tentativo di macchiare la sua reputazione con una serie di affermazioni esagerate. La donna ribatteva di non essere uno dei tanti yes-man della sua vita, che gli dicevano solo le cose che lui voleva sentirsi dire; lei lo aveva conosciuto e amato ben prima che diventasse famoso e, a differenza degli altri parenti che muovevano le stesse critiche in privato, non aveva paura a parlarne in pubblico.
Quell’anno il golfista Payne Stewart morì in un incidente aereo, poco dopo aver vinto gli US Open. La tragedia ricordò a Sis quanto tempo il fratello passasse in volo da un capo all’altro del pianeta sul suo jet privato. Così lo chiamò e gli lasciò un messaggio per sapere se stesse bene, dicendogli di essere preoccupata per lui. Michael le mandò un messaggio, tramite la madre, per farle sapere che era tutto a posto. Non parlò direttamente con lei perché, insinuò Sis in seguito, «Michael tende a scappare dalle cose che non vuole affrontare, e la ricchezza gli offre molti modi per farlo».
Anche se Jordan era rimasto in contatto con sua madre, amici e conoscenti si accorgevano che non erano vicini come un tempo. Nell’autunno del 1996, i due avevano fatto una commovente apparizione insieme, alla University of North Carolina, per annunciare la donazione di un milione di dollari per la creazione del Jordan Institute for Families, all’interno della scuola di servizio sociale. Se la gente si domandava dove avesse preso Jordan la sua energia e la sua grinta leggendaria, non doveva far altro che guardare Deloris Jordan, che avrebbe continuato a settant’anni suonati a scrivere e a girare il mondo per parlare di problemi familiari. Anche buona parte del suo carisma veniva dalla madre, ha osservato Jim Stack: «È una donna meravigliosa, molto cordiale: questa è la sua personalità». Il Jordan Institute combaciava perfettamente con la sua fantastica energia positiva e con il suo messaggio, e forse era il modo con cui Deloris esorcizzava le avversità che lei stessa aveva dovuto combattere come giovane madre.
In seguito a Chapel Hill circolò la voce che la scuola avesse incontrato difficoltà a ottenere la donazione. Si trattava della leggendaria tirchieria di Michael o era un segno del sempre più grande divario tra il campione e sua madre, diventata uno dei suoi critici più severi? O entrambe le cose? Con il tempo la donazione arrivò e l’istituto avrebbe offerto una serie di programmi per la scuola di servizio sociale, diventando un elemento centrale dell’eredità condivisa della famiglia Jordan.
Con l’estate del 1999 giunse il sesto anniversario della morte di James. Tra i familiari più stretti, Michael era stato quello più legato al padre, suo abituale accompagnatore e consigliere, oltre che il suo più ardente ammiratore. James era sempre stato dalla sua parte, sempre pronto a spingerlo verso gli aspetti positivi, incoraggiandolo in modo costante di fronte alle mostruose pressioni che Jordan incontrava, nella crescente complessità che lo avvolgeva. Sembrava chiaro che per il resto della sua vita, Jordan sarebbe stato preso tra i due angeli della propria natura: in un orecchio la madre che lo esortava a una vita altruista ai piedi della Croce, nell’altro il padre che gli diceva di godersi il divertimento ovunque lo trovasse, perché se l’era certamente meritato.
Madre e figlio si erano scontrati spesso dopo la morte di James, racconta Sis, al punto che Michael era arrivato a cambiare le serrature degli uffici della fondazione per impedirle l’accesso, almeno per un po’. A sentire Sis, Michael aveva perfino provato a limitare l’utilizzo del proprio nome nelle attività della madre. Eppure continuava a versare un assegno mensile alla donna, in aggiunta ad altri supporti economici. Ma anche quando riuscirono a superare i conflitti, la relazione tra loro appariva irrimediabilmente danneggiata.
Suo padre se ne era andato ma sembrava che, per molti versi, l’influenza del vecchio Jordan aleggiasse ancora più intensamente di quando era vivo. Per alcuni, prova ne era lo stile di vita che Jordan iniziò a ricercare lontano dai riflettori. Altri però lo consideravano come una meritata liberazione dopo una vita passata in gabbia, nelle camere d’albergo.
Ad ogni modo, Sis affermava di aver previsto tutto. Come altri in famiglia, aveva sostenuto quella messa in scena in cui lui era ancora il fratello minore affettuoso, premuroso e gentile che lei conosceva. «Con la crescita esagerata della sua immagine, era diventato prigioniero della sua dimensione pubblica, ed era logorato dallo stress del successo» avrebbe scritto. «Alla fine la pressione di dover essere “sempre in vetrina” e all’altezza delle aspettative del pubblico, avevano inibito la sua capacità di rilassarsi, anche in famiglia». Era diventato una «multinazionale parlante e deambulante» avrebbe affermato Sis.
In tutta onestà, dicevano invece i suoi difensori, quella «esistenza aziendale» era la base del suo successo a lungo termine. La progressiva affermazione come personaggio commerciale era ciò che lo differenziava dalla folla di ex sportivi ridotti a strizzare qualche dollaro dalla loro antica gloria.
Nel 1999 Jordan affrontava la sfida di provare a costruire un secondo atto. Uno studio in merito aveva mostrato come il novanta percento degli ex giocatori della Nba fosse sul lastrico nel giro di pochi anni dopo il ritiro. Molti di loro venivano spolpati da agenti e investitori. Altri cadevano vittime di un sistema educativo che gli aveva insegnato poco o niente su come gestire il denaro. La maggior parte finiva per pagare il costoso stile di vita a cui si era abituata e che era impossibile da sostenere, una volta appese le scarpe al chiodo.
Al contrario, la partnership con la Nike, unita alle altre sponsorizzazioni e agli altri investimenti, versavano nelle casse di Jordan nuovi milioni ogni anno. Le sue ricchezze erano stimate di solito in cinquecento milioni di dollari ed era spesso indicato come il primo atleta a essere diventato miliardario. Aveva raggiunto un successo duraturo, nonostante le stravaganze di una vita passata nel basket professionistico, proprio come suo nonno Peoples aveva prosperato nonostante le assurde condizioni della mezzadria. Le imprese di Jordan sono vivide nella memoria dei suoi contemporanei. Per anni gli intervistatori gli hanno chiesto delle sue prestazioni più memorabili, e la sua risposta era spesso: «Aspetto che la mia avventura sia finita, prima di tirare le somme».
La risposta era comprensibile, anche se il modo in cui manifestava in pubblico le sue emozioni aveva fatto capire da tempo quanto gioisse per le proprie conquiste. La passione era la sua firma. Aveva festeggiato le vittorie con esplosioni emotive memorabili, catturando l’attenzione del pubblico.
Come altri che avevano contribuito a creare l’icona culturale MJ, Sonny Vaccaro si meravigliava delle dimensioni della popolarità di Jordan. «Prima di Michael nessuno era mai stato commercializzato come noi abbiamo fatto con lui» racconta Vaccaro. «E nessuno aveva mai messo così tanta enfasi su un singolo atleta per vendere un prodotto».
Nel 1999 Jordan era solo sulla vetta di una cultura che iniziava a mitizzare gli eroi dello sport. Ma quanto era profonda la sua penetrazione a livello globale? Il «Financial Review» espresse grande sorpresa, nel dicembre del 1999, nell’apprendere che già nel 1992, in un’indagine condotta su alcuni bambini cinesi, i piccoli studenti avevano nominato Jordan come una delle due figure principali del Ventesimo secolo – l’altra era Zhou Enlai, lo storico premier cinese. Questo accadeva cinque anni buoni prima delle riprese di Space Jam e ben prima che la leggenda di Jordan ricevesse la spinta decisiva, con il primo «ritiro», il fervore collettivo suscitato dal suo ritorno sulle scene e la vittoria degli ultimi tre titoli Nba con una trama da libro di favole.
«La presenza di Jordan in quella lista è bizzarra,» osservò il «Financial Review» «tranne per il fatto che gli atleti neri e i traguardi sportivi sono tra le immagini che descrivono meglio il Ventesimo secolo».
«Quanto è grande Michael Jordan?» si era chiesto «Newsweek» nel 1993. «Sappiamo tutti che per milioni di bambini americani è un Dio in Terra, il più “mediatico” tra i personaggi sportivi della storia, una multinazionale costituita da un solo uomo in grado di spostare beni e servizi nello stesso modo in cui poche parole del presidente della Federal Reserve possono smuovere i mercati finanziari».
Il suo ritorno, nel 1995, aveva innalzato ancora di più il suo profilo. Quattro anni più tardi, ottocento giornalisti si stiparono nella sala stampa dello United Center di Chicago per seguire l’annuncio del suo secondo addio, del tutto consapevoli che un’èra stava finendo. «Michael è uno dei campioni più importanti, ovviamente. Ma al di là di questo, è una delle più rilevanti personalità culturali nella storia degli Stati Uniti» disse al tempo Todd Boyd, professore della University of South California, specializzato in cultura e sport. «Penso che questo non sia in discussione. Quando parli di un atleta che ha chiaramente dominato il suo sport, ma che ha anche trasceso quello sport, in termini di successo come brand, come capacità di commercializzare prodotti – che è esattamente ciò che Michael Jordan ha rappresentato, dopo un po’ –, capisci che si tratta forse della più grande transizione che chiunque sia mai stato in grado di compiere, da un campo di basket fino ai più alti livelli della cultura popolare americana».
All’apice della sua celebrità, il pubblico si stupiva spesso quando emergevano gli indizi di qualche comportamento irregolare da parte di Jordan. Ma la sorpresa più grande, come ha suggerito Sonny Vaccaro, era che ci fossero solo degli indizi. Come ha potuto non farsi corrompere da quel mondo, si chiede Vaccaro: «È un’impresa umanamente impossibile. Chi ci riuscirebbe? Basta ricordare le pubblicità insieme a Mars Blackmon/Spike Lee, all’inizio degli anni Novanta: erano di una popolarità straordinaria. Poi ha fatto un film e altre pubblicità con Bugs Bunny e i Looney Tunes. Ha vinto tutti quei campionati, ed è diventato il più grande uomo di sport del mondo».
Perciò la sorella maggiore aveva ragione nel dire che tutta quella esperienza lo aveva cambiato? Vaccaro ha precisato: «È stato un altro Michael dopo che l’abbiamo messo sul mercato… è diventato un altro Michael, che ha preso vita propria, in giovanissima età. Io non so come si torni indietro da una cosa simile».
I suoi ammiratori osservavano che al contrario di altre vittime del successo, come Elvis o Michael Jackson, Jordan era riuscito a rimanere con i piedi per terra, nonostante le migliaia di opzioni distruttive a disposizione dei solitari e sperduti possessori di una fama di quelle proporzioni. E questo sarebbe rimasto vero anche durante i temporali che lo aspettavano nel secondo atto della sua vita, quello da dirigente e proprietario di una squadra di basket. Se prima, in campo, le prestazioni maestose nascondevano le sue imperfezioni, la vita da dirigente non gli avrebbe più offerto tali ripari. Anzi, Jordan imparò presto che avrebbe soltanto mostrato e amplificato tutte le parti negative.
LA LEALTÀ DI REINSDORF
La serrata Nba finalmente finì, a dicembre, e l’obiettivo era iniziare a giocare a gennaio del 1999. La decisione permise a Jordan, il 13 gennaio, di annunciare il proprio ritiro di fronte a una schiera di cronisti arrivati allo United Center da tutto il mondo. Si rifiutò tuttavia di definire la sua scelta più sicura del 99,99 percento. Mai dire mai, disse.
«Mentalmente sono sfinito: non sento di avere nessuna sfida davanti a me. Fisicamente invece mi sento alla grande» aggiunse Jordan, spiegando le sue motivazioni. «Questo è il momento perfetto per lasciare il basket».
Alcuni notarono che non suonava del tutto convincente. «Penso che la lega andrà avanti, anche se abbiamo avuto i nostri problemi, negli ultimi sei mesi» disse, riferendosi alle difficoltà legate al nuovo accordo per la contrattazione collettiva, che aveva compromesso quasi metà della stagione 1998-1999. «Penso che si tratti di fare i conti con la realtà: è un business, ma è ancora divertente. È ancora un gioco. E il gioco continuerà».
Ma avrebbe dovuto farlo senza di lui.
«Mi gusterò semplicemente la vita e farò le cose che non ho mai fatto finora» rispose. In breve, spiegò che si sarebbe goduto la sua ritrovata libertà con la moglie e i tre figli piccoli, il suo amore per il golf e i numerosi impegni commerciali.
«Prevedo che Michael farà molto più car-pooling» rispose Juanita Jordan alla folla di cronisti che le chiedevano cosa pensasse del futuro di Jordan.
«Sfortunatamente,» continuò Jordan «mia madre, la mia famiglia, i miei fratelli e le mie sorelle non possono essere qui. Ma quando vedete me, vedete loro. Mio padre, mia madre e certamente i miei fratelli. Sono qui, attraverso me; e loro, insieme a me, vi ringraziano per il vostro interesse e per il rispetto e la gratitudine che mi avete mostrato negli anni in cui sono stato qui. Rimarrò a Chicago per il resto della mia vita. Mia moglie non mi permetterebbe di andare da nessun’altra parte. Rimarrò a Chicago e farò il tifo per le squadre di Chicago».
Un inviato domandò a Jordan se potesse considerare di usare i suoi tanti talenti per salvare il pianeta. Jordan confessò di non essere un salvatore: non era riuscito nemmeno a salvare la squadra campione, che aveva cercato disperatamente di tenere insieme. In ogni caso, nella sua conferenza stampa di addio Jordan fece pochi riferimenti a quella disputa, limitandosi a sottolineare come la dirigenza dei Bulls avesse buttato via il loro lavoro.
«Hanno standard alti, qui» disse, con l’ombra di un sorriso.
«Voglio ringraziare i due gentiluomini qui presenti, il signor Stern e il signor Reinsdorf, per avermi dato l’opportunità di giocare a basket e di venire a Chicago, incontrare la mia splendida moglie e costruire una famiglia,» disse «ma anche la mia famiglia in North Carolina e molti miei amici che sono venuti a darmi supporto oggi, e che mi hanno sempre sostenuto da quando ho messo piede su un campo da basket, e anche quando non giocavo a basket. Voglio ringraziare entrambi questi gentiluomini e tutti i tifosi di Chicago per avermi voluto qui e per avermi adottato come uno di loro… se tutto va bene saremo ricordati come la città dei campioni e spero che la cosa continui anche quando Michael Jordan non avrà la divisa. Io tiferò per i Chicago Bulls».
Michael e Juanita, in conferenza, avevano parlato di come lui sarebbe scivolato verso un’esistenza tranquilla e sarebbe finalmente stato un papà normale. Jordan amava sinceramente i suoi bambini, per cui la cosa sembrava anche possibile – finché non ci provò davvero. I campi da golf di tutto il mondo lo stavano aspettando; il suo jet Jump 23 era pronto, e lo solleticava ad andare in qualsiasi maledetta località avesse desiderato visitare – magari solo per giocare a carte tutta la notte, sbuffando fumo dai sigari e scherzando con qualche compare. Continuò a tirare la palla in buca, organizzando grandi abbuffate orgiastiche di golf e scommesse, ora solo leggermente più misurate, dopo i guai dei primi anni Novanta. Sarebbe in seguito stato accusato di aver trascinato l’amico Tiger Woods in questa orbita stramba ed esclusiva, al punto che quando Woods andò incontro ai suoi problemi con la dipendenza dal sesso, uno degli agenti del golfista sostenne che fosse stata la compagnia di Jordan, e la sua continua ricerca di baccanali, ad aver condotto Woods alla rovina.
Anche se Jordan aveva lasciato il basket, il suo agonismo non si era placato. Aspirava con ardore all’azione, era sempre alla ricerca dell’ultima moda, giocando round nel cuore della notte, con in palio quello che serviva a fargli sentire il brivido della competizione. Era drogato di adrenalina o era la necessità di fuggire da quella vita sotto i riflettori, dove era pagato profumatamente per essere perfetto? Forse entrambe le cose, e qualcos’altro ancora: per esempio il fatto che, per l’impossibilità di mostrarsi in pubblico, le sfide a golf erano sempre con i suoi amici. Dopo vent’anni conosceva poco altro che il medesimo ciclo: divertirsi con il proprio entourage, partecipare a una serie di riunioni per sostenere il proprio business, girare spot pubblicitari. Il tutto condito da un numero di atterraggi a Chicago sufficiente a tenere in piedi la sua vita familiare.
O almeno così credeva.
Qualunque fosse l’origine, i giorni delle sue feste improvvisate a Austin erano diventati settimane, poi mesi, poi si erano trasformati in uno stile di vita. Come osservò Lacy Banks, Jordan aveva assunto un’aria regale, uno status felicemente conferitogli da un pubblico adorante. Il suo insistere sulle grandi aspettative legate a una vita del genere non era sparito con il ritiro. Attraverso la passione smodata per il golf e il divertimento incontrollato, arrivò presto a capire che voleva un ruolo per sé all’interno del basket, per rendere concreti i valori che aveva stabilito in modo così netto da giocatore. Avrebbe insegnato alla prossima generazione qualcosa di fondamentale sul basket, spiegò ai giornalisti.
La sua prima idea fu di entrare nei Bulls come socio, con un ruolo dirigenziale. Ad alcuni sembrava un’ipotesi assurda dopo i furiosi litigi delle ultime stagioni. La rabbia di Jordan da sola bastava a far impallidire un duro come Jerry Reinsdorf. Eppure la sua esperienza con la Nike rappresentava un precedente: negli anni Jordan aveva sopportato divergenze d’opinione non trascurabili con Phil Knight, ma la sua presenza e il suo coinvolgimento era stato un elemento di crescita e di ricchezza per la Nike; di conseguenza era stato ampiamente ricompensato con un potere senza precedenti e con la possibilità di influire sulle scelte della società.
Il suo impegno e la sua energia avevano chiaramente contribuito a una crescita analoga per i Bulls. Ma non c’è alcun indizio che Jerry Reinsdorf abbia mai valutato l’ipotesi di una simile ricompensa. Sarebbe sembrato logico coinvolgere quell’eroe dalla popolarità sconfinata all’interno della franchigia, e magari chissà, la cosa avrebbe potuto spianare la strada a un secondo ritorno in campo a Chicago.
Trovare un posto per Jordan nella dirigenza dei Bulls avrebbe significato alterare o sminuire il ruolo di Krause, se non la sua totale cancellazione, visti i rancori pregressi. Nel 1999 il ricordo era ancora vivido nella mente di Krause e di Reinsdorf. Ci avevano sbattuto il muso più volte, affrontando la stampa di Chicago durante la stagione 1997-98: sembrava che Jordan fosse sempre nel giusto e loro nel torto.
«Avevamo un modo di dire» ha ricordato Krause nel 2012. «Se avessimo messo in fila tutti i giornalisti tra State Street e Madison Street e Michael avesse pisciato su ognuno di loro, se gli avesse pisciato in faccia, loro avrebbero detto: “Oh, il nettare degli dèi!”. Per dire quanto avesse in pugno i mass media, a Chicago. Ne aveva il controllo assoluto».
Una tale amarezza significa che l’idea di ritagliare per Jordan un posto come socio di minoranza dei Bulls non fu mai neanche presa in considerazione, a prescindere da quanto denaro potesse far guadagnare agli azionisti.
«Jerry non me ne parlò mai» ha detto Krause nel 2012, riflettendo sulla risposta di Reinsdorf alla proposta di Jordan. «Non fece mai alcun accenno alla cosa». Krause ricorda bene che il tema fu sollevato da qualcuno, sulla stampa: «Mi veniva da ridere perché conoscevo Michael,» disse Krause «e aveva ben dimostrato quali capacità manageriali possedesse».
Krause conosceva piuttosto bene anche Reinsdorf: «Jerry è un tipo molto caparbio» ha spiegato, aggiungendo che la lealtà rappresentava un fattore fondamentale per Reinsdorf; e la lealtà del presidente era rivolta principalmente agli azionisti dei Bulls. Nonostante le imprese di Jordan avessero arricchito gli azionisti, un incarico come dirigente era tutt’altro paio di maniche, secondo Krause: «Sarebbe stata una pessima scelta rispetto ai doveri fiduciari. Penso che Michael credesse di averne la stoffa. Michael credeva di poter fare qualsiasi cosa. Ma non sapeva niente di questo lavoro, non ne aveva la minima idea».
Krause rimarca poi come l’attrito che si era creato con gli ultimi due contratti rimaneva ancora un fattore importante: «Per i contratti di Michael avevamo dovuto affrontare cose poco divertenti, spiacevoli». Alcuni di quei sentimenti scaturivano dal modo in cui Falk aveva trattato Reinsdorf durante le trattative, sostiene Krause, affrettandosi a precisare che Reinsdorf rispettava Falk in parte proprio perché era così duro negli affari. Tale rispetto non mitigò però il rancore verso Jordan.
Jim Stack, che avrebbe lasciato i Bulls per diventare un dirigente dei Minnesota Timberwolves, dice che la questione della permanenza di Jordan ai Chicago Bulls era complicata dal fatto che per tanti anni lui avesse esercitato pressioni sulla società affinché acquisisse giocatori di North Carolina: «Jerry Reinsdorf aveva avuto un assaggio del modo in cui Michael poteva essere insistente, sia nel caso di Walter Davis che in altre questioni. Non penso che Michael sarebbe stato contento di ricoprire un ruolo di semplice rappresentanza; avrebbe voluto avere un ruolo operativo, decisionale. E questo sarebbe stato difficile. Anche se Jerry Reinsdorf avesse desiderato riportare Michael nei Bulls, non credo che gli avrebbe offerto una posizione che lui avrebbe gradito o accettato».
Stack, che aveva lavorato a stretto contatto sia con Jordan sia con Krause, rabbrividiva al pensiero di quei due nello stesso ufficio: «In nessun modo avrebbero mai potuto lavorare fianco a fianco» disse. Jordan non doveva stupirsi del rifiuto di Reinsdorf, secondo il giornalista David Aldridge, che seguiva la Nba da tempo: «Non ho mai avuto la sensazione che Reinsdorf pensasse a Michael nel ruolo di dirigente. Voglio dire che si capisce quando qualcuno viene preparato per entrare in società, non ci vuole molto a intuirlo. E non ho mai sentito che stessero preparando Michael per una posizione del genere, mai».
Esisteva un punto a favore, forse: continuare a legare il nome di Jordan alla franchigia sarebbe stato nell’interesse degli azionisti, visto che lui incarnava la più grande attrazione della Nba, quella che Jerry West amava chiamare una «licenza per stampare denaro». Il valore di Jordan si misurava non solo con l’incredibile crescita della squadra e del fatturato del club, ma anche con lo sviluppo della stessa città di Chicago, in particolare con la rinascita dei vecchi quartieri degradati vicini al Chicago Stadium, che si erano trasformati in una fiorente comunità piena di locali, ristoranti e tutti gli altri esercizi commerciali che erano sbocciati dopo l’inaugurazione dello United Center, «the building that Michael built». Reinsdorf avrebbe lasciato che la sua rabbia si mettesse di traverso rispetto all’interesse degli azionisti, della squadra e della città?
Riguardo all’idea che Reinsdorf «fosse in debito» con Jordan, a seguito degli incredibili successi raggiunti dai Bulls, Krause si è limitato a dire: «Abbiamo coperto Michael d’oro perché giocasse a basket». L’ultimo contratto di Jordan, trentatré milioni di dollari per un anno, sembra avallare tale affermazione, se non fosse che la classifica dei guadagni totali dei giocatori Nba, pubblicata nel 2012, offre un altro punto di vista: nella lista dei paperoni del canestro di tutti i tempi, Jordan si piazza solo all’ottantasettesimo posto, dietro David Lee. I guadagni di Jordan come cestista raggiunsero la modesta cifra, relativamente parlando, di novanta milioni di dollari. La lista mostra invece che il successo di Jordan ha reso possibile che la successiva generazione di stelle – Kevin Garnett, Kobe Bryant e Shaquille O’Neal – si avvicinasse ai trecento milioni di dollari di stipendi. Jordan sottolineava spesso come il suo successo si fosse basato sulla generazione precedente, che in confronto a lui aveva portato a casa una miseria. Perciò gli sembrava ragionevole guadagnare meno di quelli che lo avrebbero seguito.
Tuttavia, in quella classifica Jordan si trova anche parecchie posizioni dietro ad alcuni suoi contemporanei: Patrick Ewing guida il gruppo dell’èra Jordan con centodiciannove milioni di dollari, seguito da Scottie Pippen con centonove (gran parte dei quali guadagnati dopo aver lasciato i Bulls); vengono poi Hakeem Olajuwon con centosette, e Gary Payton, Reggie Miller e Karl Malone con oltre cento milioni di dollari a testa.
Questa classifica rispecchia alla perfezione l’atteggiamento dei Bulls, che non furono molto larghi di manica con Jordan, né gli riconobbero il merito per tutta la ricchezza che aveva portato agli azionisti del club. Il proprietario dei Lakers Jerry Buss, per esempio, pagò quattordici milioni di dollari a Magic Johnson al suo ritiro, come premio per aver condotto la squadra a cinque titoli Nba e aver aumentato oltre misura la gloria della franchigia.
Va detto però che Buss e Johnson avevano una relazione simile a quella tra padre e figlio, mentre il legame tra Reinsdorf e Jordan, una tempo forte, era stato compromesso dalla faida con Pippen e Jackson, a tal punto che Reinsdorf non aveva esitato a respingere Jordan una volta ritiratosi dal basket giocato.
Il mancati guadagni di Jordan si possono in parte spiegare anche con il suo carattere. Lui affermò sempre di scendere in campo «per amore del gioco». Anche in seguito, quando poi tornò a giocare, lo avrebbe fatto per il compenso minimo. Era molto orgoglioso di guadagnare i suoi capitali – più di un miliardo di dollari, secondo alcune stime – fuori dal campo.
Rifiutandosi di assumere Jordan, Jerry Reinsdorf scelse quasi certamente di negare ai soci maggiori ricchezze. Ma il presidente era come tutti gli altri: ne aveva avuto abbastanza dei litigi e scaricò Jordan quando era sul viale del tramonto: «Alla fine Michael capì che c’era ancora un po’ di benzina rimasta nella tanica,» ha raccontato Jim Stack «ma finì comunque che se ne dovette andare, senza avere scelta. Era dura da digerire per uno come lui».
Krause chiese un ultimo appuntamento con Jordan, verso la fine della sua carriera, circostanza che lo riportò indietro al suo primo incontro con il giocatore, quattordici anni prima, nella primavera del 1985. Poi era arrivato l’infortunio al piede e da quel punto in avanti i due avevano visto moltiplicarsi le loro divergenze: «L’ostilità e tutto il resto iniziarono davvero a farsi sentire, da quel momento,» ricorda Sonny Vaccaro «e la faccenda proseguì fino a diventare davvero sgradevole».
«Il mio lavoro non era leccare il culo a Michael» ha affermato Krause.
Il dg sentiva ancora il bisogno di una sorta di riconciliazione, o comunque di una chiusura, e sperava che quell’incontro potesse rasserenare l’aria; così chiese a Jordan di venire nei suoi uffici al Berto Center. Iniziò confessandogli che in tutti gli anni in cui lo aveva punzecchiato, dicendogli che Earl «The Pearl» Monroe era superiore a lui, non era stato sincero.
«Tu eri meglio di lui, già all’inizio della tua carriera,» spiegò Krause «ma non potevo dirtelo».
«Lo sapevo» rispose Jordan, come se gli fosse stato concesso alla fine lo spazio per dirgli «t’ho beccato!».
«Lui era nella modalità “ok, va bene”» ricorda Krause. «E la chiacchierata fu molto breve. Io e Michael non avremmo mai consumato un pasto insieme. Lui si ricorda di chiunque abbia mai osato pensare che non sarebbe diventato un grande. Memorizza ogni singolo articolo negativo scritto sul suo conto».
E si sarebbe certamente ricordato di Jerry Krause, anche dopo essere approdato da tutt’altra parte.