37. I Wizards
All’inizio Jordan sembrava diretto a Milwaukee, per diventare socio dei Bucks, ma il proprietario Herb Kohl fece marcia indietro all’ultimo momento. Venne invece fuori che il nuovo dominio di Jordan sarebbe stato Washington Dc, dove si legò a Ted Leonsis, il magnate di America Online, diventato uno dei proprietari dei Washington Wizards, già noti come i famigerati Washington Bullets. Jordan aveva provato anche a Charlotte, con gli Hornets, ma il proprietario George Shinn stava mandando su tutte le furie i tifosi di quello Stato fanatico per il basket che disertavano il club in massa. Gli Hornets avrebbero fatto le valigie e sarebbero volati a New Orleans, lasciandosi dietro una città profondamente tradita dall’esperienza nella Nba.
Il giornalista del «Chicago Sun-Times» Jay Mariotti sosteneva che Phil Jackson, nel frattempo sbarcato a Los Angeles per condurre i Lakers subito al titolo, nel 2000, volesse richiamare Jordan. Il compenso sarebbe stato minimo ma era l’opportunità di far parte di quei Lakers in procinto di vincere nuovi trofei. Jordan avrebbe però rifiutato l’offerta, forse perché Washington gli offriva una quota azionaria della squadra e la prospettiva, con il tempo, di diventarne il maggior azionista.
A Washington, al contrario che a Los Angeles, bisognava pensarci, prima di rispondere se vi fosse o meno una squadra della Nba. I Wizards/Bullets negli ultimi vent’anni avevano sempre galleggiato nella mediocrità . Il fatto che Jordan si legasse alla squadra di Abe Pollin, a un club in grande difficoltà, fu una sorpresa per molti. Durante la serrata Nba di qualche mese prima, Jordan e il proprietario dei Washington si erano affrontati in uno spiacevole scambio di accuse, a cui avevano assistito diversi giocatori; tra questi c’era anche Reggie Miller, che avrebbe in seguito dato merito a Jordan di aver aiutato i giocatori a mutare il corso della trattativa con i proprietari della lega, e a ottenere un accordo più favorevole.
«Nella stagione 1998-99 avevamo organizzato un incontro a New York ed era previsto che venissero tutti i giocatori» ricorda Miller. «Michael Jordan si era appena ritirato. Una volta lì c’era anche MJ, pronto a confrontarsi con alcuni proprietari e con il commissario della lega: arrivò quasi a gridare contro il grande, compianto Abe Pollin. Michael Jordan ce l’aveva con il commissario Stern e con Pollin: gli diceva che se continuavano a staccare pessimi assegni per pessimi giocatori, forse era il caso che cedessero le loro squadre».
Pollin si era lamentato delle difficoltà di gestire un club.
«Allora vendi la tua squadra» gli aveva risposto aggressivamente Jordan.
«Né tu, Michael, né nessun altro può dirmi quando vendere la mia squadra» lo rintuzzò Pollin.
Sembrava improbabile che i due potessero lavorare insieme: Jordan però era un elemento troppo prezioso per una squadra come Washington. Era facile immaginare che His Airness avrebbe ridato un po’ di lustro all’idea di basket nella capitale degli Stati Uniti. «Il fermento era incredibile» racconta David Aldridge, ripensando all’annuncio che Jordan sarebbe diventato socio di minoranza e dirigente dei Wizards. «Me lo ricordo come se fosse ieri. Il titolo era in prima pagina, nella parte alta del “Washington Post”. Quello era il giornale che aveva fatto cadere Richard Nixon. Il titolo era: JORDAN VA A WASHINGTON. Era una cosa grossa, enorme».
Nell’autunno del 1999, quando Leonsis iniziò le manovre per far approdare Jordan alla proprietà e alla dirigenza dei Wizards, il rancore sembrava evaporato. Nelle dichiarazioni pubbliche Pollin era entusiasta all’idea che il più grande giocatore di tutti i tempi si unisse alla sua squadra. La partnership tra Pollin e Jordan era la fusione tra la vecchia e la nuova Nba. Pollin, che possedeva un’impresa di costruzioni, aveva da poco superato i quarant’anni quando aveva comprato i vecchi Baltimore Bullets nel 1964. Uno dei suoi primi impiegati era stato un giovane e corpulento osservatore di nome Jerry Krause; i due sarebbero rimasti amici e confidenti per decenni. Pollin avrebbe fraternizzato anche con un giovane avvocato che lavorava per la Nba, di nome David Stern, che nel 1984 sarebbe diventato il commissario della lega.
Pollin era molto legato alla vecchia guardia della Nba, soprattutto al proprietario dei Detroit Pistons Bill Davidson, come ricorda Aldridge: «Penso che avesse una grande affinità con i vecchi proprietari della lega, che forse lo apprezzavano perché sapevano cosa significava riuscire a pagare gli stipendi, al tempo in cui non eri sicuro di come avresti potuto farcela. Lui, di certo, si sentiva un mentore per Stern. So che aveva un buon rapporto con Jerry Krause e che parlavano molto, di tante cose».
L’alta considerazione di Krause, però, non era condivisa dalle persone che lavoravano per Pollin, ha ricordato Aldridge con una risata in un’intervista del 2012: «C’è tanta gente dei vecchi Bullets convinta che Jerry abbia sempre gonfiato il suo vero ruolo nella scelta di Earl Monroe, e su altre cose del genere. Se nei Bullets chiedevi alle persone di Jerry, alzavano gli occhi al cielo e dicevano: “Ah sì, quello che ha scoperto Earl Monroe”».
Krause però rimaneva una parte importante della rete di proprietari e direttori generali con cui Pollin parlava, all’interno della lega. Era noto che Pollin e Krause si scambiassero opinioni sulle rispettive squadre, nelle loro chiacchierate. E in seguito fu chiaro che il proprietario dei Washington aveva una certa idea di Jordan ben prima che il campione si unisse ai Wizards.
La buona notizia, sia per Pollin sia per Jordan, era che condividevano lo stesso tratto caratteriale: erano fedeli ai loro vecchi amici. E considerando che nel 2000 Pollin era proprietario della squadra da più di trentacinque anni, di amici del genere ne aveva tanti, e molti erano ancora nel libro paga dei Wizards. Nonostante il club fosse diventato ormai una delle più patetiche realtà della lega, il primo decennio di Pollin come proprietario, quando i Bullets giocavano ancora a Baltimora, era culminato con il raggiungimento delle finali Nba, con Monroe alla guida della squadra – che era stata però travolta dai Knicks. Nonostante quel traguardo, a Baltimora le vendite di biglietti erano rimaste deprimenti. La cosa aveva spinto Pollin ad attuare il suo piano originale e spostare la squadra a Washington. Nel 1973 costruì il Capital Centre, nel sobborgo del Maryland che divenne la casa dei Bullets e dei Capitals, una squadra di hockey professionistico da lui fondata.
Gli anni Settanta fecero registrare i maggiori successi dei Bullets. Con K.C. Jones come allenatore, dominarono la regular season del 1975 ma furono di nuovo spazzati via nelle finali, questa volta per mano di Golden State, subendo un cappotto del tutto inatteso. Pollin si rivolse allora alla vecchia nemesi di Krause, l’allenatore Dick Motta, e nel 1978 i Bullets tornarono nelle finali con il giovane centro Wes Unseld e la stella Elvin Hayes. In quell’occasione vinsero l’unico titolo nella storia della franchigia, sconfiggendo i Seattle SuperSonics in gara sette. Nel 1979 le due squadre tornarono alle finali Nba: Seattle conquistò il titolo e gli anni di gloria per Washington finirono lì.
Il proprietario aveva perso sia un figlio piccolo che una figlia teenager per problemi di cuore. Questo forse aiuta a spiegare il forte legame che strinse con Unseld, il centro dei suoi anni d’oro, che sarebbe diventato un’istituzione dei Bullets come allenatore e dirigente, e con Susan O’Malley, la figlia di un socio d’affari e alleato politico, storica presidente del club, oltre che responsabile del marketing e delle pubbliche relazioni.
Aldridge osserva come i valori di Pollin si potessero sintetizzare rispondendo a una semplice domanda: «Come tratti le persone con cui lavori?». Pollin trattava benissimo i suoi, anche se la sua lealtà, nel tempo, era arrivata a diventare «un danno per la società», come sostiene Aldridge: «Iniziai a seguire i Bullets nel 1988; se vent’anni dopo tornavi a vedere una partita, forse il 60-70 percento dei dipendenti era ancora lì. Allora ti chiedevi: “Cosa sta succedendo?”. Di sicuro quella gente non veniva ricompensata per i successi ottenuti, visto che i Bullets erano una pessima franchigia. Forse giusto i Clippers erano peggio, ma questo non vuol dire molto».
Un altro proprietario, forse, avrebbe deciso di cambiare le figure principali per dare una scossa alla squadra, ma non Pollin, spiega Aldridge: «Vedevi quella situazione e ti chiedevi: “Perché continua a tenersi tutta questa gente?”. Abe era un tipo incredibilmente leale, non avrebbe mai licenziato Wes Unseld, nonostante i suoi risultati non fossero eccellenti. Voglio dire: parliamo di sette-otto anni da allenatore e poi da direttore generale».
Nella migliore delle stagioni, la squadra finì con una classifica 40-42, ricorda Aldridge ridendo: «Quello fu il punto più alto dei miei anni al seguito dei Bullets. Fu terribile. Per un lungo periodo furono la cosa peggiore possibile. Erano tanti i motivi? Certo, e alcuni non erano colpa di nessuno, ma il fondo è il fondo. La Nba è un’attività legata ai risultati, giusto? Però sapevi che Abe era incredibilmente leale a Susan O’Malley, da tanto tempo. Come era leale verso Wes, da tanto tempo. Perfino gli addetti alle pubbliche relazioni non cambiavano mai, a meno che non se andassero loro. Non ricordo di averlo mai visto licenziare nessuno. Abe era fedele. E si aspettava fedeltà, in cambio; e forse, ancora più importante, si aspettava una certa dose di rispetto».
Pollin aveva fatto molto per guadagnarsi il rispetto della comunità di Washington. Aveva donato somme importanti per il sostentamento della popolazione indigente. La costruzione dello MCI Center, al centro di Washington, nel 1997 aveva dato un impulso forte e necessario per rianimare la capitale degli Stati Uniti. Eppure, per quanto riguarda il basket, lui e i membri delle sue squadre si erano rivelati perlopiù degli zucconi. O almeno così erano considerati nella Nba, alla fine del millennio. Pollin era convinto che il coinvolgimento di Jordan avrebbe aiutato a migliorare la loro immagine.
Non c’era dubbio che a trentasette anni Jordan fosse uno dei maggiori «decani» del basket, ma nel momento in cui iniziò la sua avventura con i Wizards, nel 2000, gli mancava ancora esperienza manageriale. Era stato un cestista di inesauribile energia, il cui unico modo per valutare i potenziali giocatori era di sfidarli di persona in campo. Nonostante avesse la capacità di guidare una squadra e una conoscenza ineguagliata del gioco, non aveva mai messo insieme una rosa né allenato a nessun livello.
Abe Pollin, però, era alla disperata ricerca di un modo qualsiasi per far risalire la sua squadra e creare un minimo di curiosità intorno al progetto, e questo dava a Jordan un potere contrattuale molto forte. Pollin accolse una serie di richieste, ma il fatto che Jordan avesse forzato la mano per ottenerne l’assenso creò subito qualche attrito tra i due, prima ancora di decollare. Il primo punto era la questione tempo: Jordan voleva un coinvolgimento part-time per lasciare spazio ai suoi altri affari, come le pubblicità televisive. Inoltre l’organizzazione doveva contemplare parecchio tempo libero per le partite a golf e altri interessi. Da un punto di vista contrattuale, chiese di non essere obbligato ad assistere a più di sei-sette partite a stagione dei Wizards. Inoltre non voleva avere un ruolo rilevante nel marketing e nella promozione della squadra: una richiesta difficile da accettare per lo staff di Washington, già in sofferenza, considerato il potere d’attrazione di Jordan.
«Era una storia di portata mondiale,» spiega David Aldridge «e parlo solo dell’impatto di Jordan che arriva a Washington, in qualsiasi ruolo: dirigente o giocatore. Era una cosa abnorme. Riceveva una standing ovation anche se solo mostravano un’inquadratura di lui seduto nel palco della proprietà. Era come se tutti pensassero: “Wow!”. E lui era quasi oppresso, come se non volesse, e allora andava a nascondersi nel suo ufficio, dove nessuno poteva vederlo».
La situazione irritò fin da subito lo staff della società, in particolare i preferiti di Pollin. Per aiutarlo a svolgere i suoi doveri, Jordan chiamò il vecchio, fidato Rod Higgins, che aveva vissuto un’esperienza da allenatore e dirigente con i Golden State, e Fred Whitfield, che aveva lavorato con la Nike e con David Falk. Ingaggiò anche Curtis Polk, che aveva collaborato per anni sempre con Falk. I Wizards erano gravati da una serie di contratti gonfiati con giocatori avanti con l’età: gli uomini di Jordan si misero al lavoro per liberare la franchigia da quelle zavorre devastanti. Era un approccio da manuale per rimettere in piedi una società, ma ogni risultato raggiunto era destinato a perdersi nell’acrimonia che sarebbe arrivata da lì a poco.
Jordan assunse inoltre il suo vecchio amico Johnny Bach, che viaggiava verso gli ottanta, per affiancare il coach che doveva ancora scegliere. Provò anche a lusingare John Paxson, nel tentativo di sottrarlo allo staff di Reinsdorf a Chicago, ma Paxson declinò l’invito. Poi tentò di assumere Mike Jarvis come allenatore: «Jarvis voleva troppi soldi» spiega Aldridge. Leonard Hamilton alla fine accettò di diventare il coach, e il dado fu tratto. All’inizio erano tutti sorrisi, ma era chiaro che Jordan e Pollin si tenessero d’occhio a vicenda. Chi seguiva Jordan si domandava a cosa avrebbe portato la sua natura esigente, e la sua conseguente aggressività, nella capitale degli Stati Uniti. A un mucchio di contrasti, era la risposta.
Jordan aveva passato anni sotto la guida di Phil Jackson, che aveva un talento nel creare tensioni all’interno di una società, adottando il modello «noi contro voi» tra squadra e dirigenza. Jackson l’aveva usato con grandi risultati nei Bulls, finché non era diventato tossico, e lo avrebbe riproposto anche nei Lakers. A Chicago i rancori erano tra Jackson e una fetta della società. Durante i playoff del 1994, a New York, Jackson venne molto apprezzato dalla stampa per aver rallegrato lo spirito di squadra cancellando un allenamento: caricò tutti su un pullman e li portò in gita sul traghetto per Staten Island. Ciò che nessuno seppe, però, è che a un isolato appena dall’albergo, Jackson disse all’autista di fermarsi e ordinò all’unica donna sul pullman, una storica addetta alle pubbliche relazioni, di scendere. La donna si sentì umiliata dal gesto e poco dopo lasciò il posto. Quella fu solo una delle tante iniziative che portarono alcuni membri dello staff a detestare Jackson.
«Phil era molto bravo in questo,» afferma Krause «ma non era l’unico coach a creare quell’atmosfera “squadra contro società”. Molti coach della Nba lo fanno, a diversi livelli. Phil però era bravo».
Forse Jordan non aveva programmato di ricreare tale atmosfera a Washington, come direttore operativo, ma quella era la realtà che aveva conosciuto a Chicago. Abbastanza presto, Pollin e il suo staff iniziarono a percepire una certa divisione, e si risentirono.
«Pollin firmava gli assegni» spiega David Aldridge «e bisognava avere un certo rispetto nei suoi confronti. Magari la gente pensava che avesse ormai passato gli anni migliori, che non sapeva più di cosa stesse parlando, e roba simile; ma lui era ancora il proprietario. Vi dico io cosa è successo: c’era un’atmosfera quando arrivò Michael con i suoi uomini, come: “Ok, adesso fatevi da parte, sono arrivati quelli che sanno cosa fare; voi mettetevi in un angoletto, fate i bravi e magari ogni tanto vi tiriamo un osso”. Mi ricordo che non ci è voluto molto prima di iniziare a sentire voci che venivano dalla società, del tipo: “Ehi, Abe vorrebbe andare a pranzo con Michael”. Magari non ci pranzava insieme da due mesi. Così ascoltavi certe cose e pensavi: “Wow! Dovrebbe fare attenzione a dettagli del genere”. Credo che gli uomini di Michael abbiano messo gli altri da parte».
Susan O’Malley aveva lavorato per i Bullets facendo tutta la gavetta e arrivando fino al ruolo di vicepresidente della squadra. Era sempre stata aggressiva in termini di marketing, prima con i Bullets, poi con i Wizards. Ma visti i risultati della squadra, per vendere biglietti lei e il suo staff si erano adeguati a una strategia puntata non tanto sull’idea di veder giocare i Wizards, quanto gli avversari da copertina e le squadre di cartello che arrivavano in città.
«Era questo che facevano» racconta Aldridge a proposito della divisione marketing dei Wizards. «Puntavano sugli avversari: “Venite a vedere come gioca l’altra squadra, perché la nostra non è granché…”. E quando Michael si oppose a questa prassi provocò un po’ di agitazione».
Jordan adottò la linea dura, quella dello storico presidente dei Boston Celtics, Red Auerbach: a far vendere i biglietti doveva essere la forza della squadra e la qualità del suo gioco.
«Susan voleva sfruttare Michael in modi che a lui non piacevano» osserva Aldridge. «Lui stesso diceva: “Non voglio essere il fenomeno da baraccone, non ho intenzione di stare lì a stringere mani”. E questo era un problema».
Dopo anni passati sotto i riflettori, Jordan si era organizzato per limitare l’interazione con i giornalisti. Questo però significava anche che con la stampa di Washington non avrebbe avuto una posizione di dominio assoluto paragonabile a quella di cui aveva goduto a Chicago.
Lui voleva minore esposizione, non maggiore, nel suo nuovo ruolo, e i continui rifiuti alle richieste di O’Malley iniziarono a logorare il loro rapporto. Bastarono poche immagini in tv che lo ritraevano mentre usciva dal parcheggio di un palazzetto, su un’auto con targa dell’Illinois, per sottolineare il drastico cambiamento nell’approccio di Jordan: tutti lo avevano conosciuto come un instancabile lavoratore, ora sembrava quasi un assenteista.
Aldridge e i suoi colleghi del giornalismo sportivo cercarono di capire cosa stesse succedendo: «Io, Tony Kornheiser e Michael Wilbon ne discutevamo tutto il tempo. Kornheiser diceva: “Lui deve stare in prima fila; deve essere l’uomo della gente, farsi vedere”. Io invece ero più d’accordo con la tesi di Wilbon: “Ci sono studi televisivi anche a Chicago; non importa dove passa il suo tempo, a patto che faccia il proprio lavoro”».
Cose di questo tipo, nello sport, diventano importanti solo quando si perde, e le squadre di Leonard Hamilton non solo perdevano ma deflagravano in litigi pubblici, direttamente in panchina. Hamilton avrebbe dimostrato in molte occasioni di essere un eccellente allenatore da Ncaa ma nemmeno Johnny Bach riusciva a proteggerlo dagli attacchi dei giocatori professionisti. Il nadir venne toccato durante una partita in cui Hamilton chiamò la sicurezza del palazzetto per far allontanare uno dei suoi giocatori dalla panchina, Tyrone Nesby, con cui aveva avuto un acceso diverbio.
«Michael aveva la sua idea di ricostruzione,» ricorda Johnny Bach «ma non riuscì mai a mettere in moto il progetto perché aveva un coach universitario, che non aveva mai allenato i professionisti. Le cose non funzionavano bene».
Un giorno, in primavera, Jordan realizzò che il modo migliore per far andare le cose nella giusta direzione e aiutare la società sarebbe stato di tornare in campo, e di insegnare a quei giovani cosa significasse il rispetto per il gioco, cosa volesse dire giocare duro: era così che aveva risollevato i Bulls dalle loro miserie. Giocando. Sì, certo, all’epoca era più giovane ma adesso era molto più smaliziato. Sì, certo, da quando era diventato dirigente era ingrassato e le sue ginocchia erano a pezzi. Ma avrebbe potuto iniziare a lavorare con il suo vecchio amico Tim Grover, che adesso era il proprietario di un esclusivo impianto per allenamenti, a Chicago, in cui lo stesso Jordan aveva investito. Grover avrebbe potuto rimetterlo in forma.
Johnny Bach pensava che si trattasse di una pessima idea e da subito tentò di dissuaderlo: «Per il bene della franchigia cercava di accontentare Abe, tornando a giocare. Sapeva perfettamente che non avremmo mai vinto» ricorda Bach.
Fu questa la cosa che colpì David Aldridge: Jordan, che aveva pensato sempre alla vittoria, stava per giocarsi la reputazione in una squadra che non avrebbe mai potuto vincere, almeno non nel modo che il pubblico si aspetta. Eppure era deciso a farlo lo stesso, per rivoluzionare il club. Era come con il baseball: si gettava in un’impresa destinata, fin dall’inizio, a fallire.
«Non volevo che tornasse in campo,» racconta Bach «e gli dissi che non aveva più niente da dimostrare, nella sua vita. Vedevo quanto lottasse per provare a giocare al livello che aveva sempre avuto. Non gli veniva affatto facile. La stanchezza faceva la sua comparsa durante gli allenamenti; doveva lavorare con la bicicletta per raggiungere il tono muscolare che voleva nelle gambe. Combatteva per essere certo di poter giocare. Io credevo che si stesse caricando sulle spalle più di quanto sarebbe riuscito a sopportare. Avevo visto ragazzi che tornavano a giocare, avevo visto guerrieri che tornavano a giocare. Avevo visto DiMaggio lottare da esterno centro e Joe Louis essere sbattuto fuori dal ring. Ci sono poche persone come Rocky Marciano, che vinse tutto e poi se ne andò. Così bisognerebbe fare. Io speravo che Michael avrebbe fatto lo stesso. Cos’altro poteva vincere? Tutte le mie speranze si limitavano al fatto che almeno giocasse bene, lì a Washington. E lo fece. Fece registrare una media di 22 punti a partita, e riempì gli spalti».
Pollin era felicissimo di sapere che Jordan stava pensando di tornare: la cosa avrebbe portato decine di milioni di dollari di entrate e, perdipiù, Jordan avrebbe dovuto cedere la sua quota societaria, dal momento che il regolamento della Nba non permetteva a un giocatore di essere proprietario, anche solo in parte, della società per la quale giocava.
Nei pensieri di Jordan, il piano era di riprendersi le quote di minoranza una volta smesso di giocare definitivamente, e di perfezionare l’accordo per l’acquisizione della maggioranza. Jordan non chiamò Falk per negoziare l’accordo. Non poteva esserci formalmente alcun contratto, nessuna garanzia. Avrebbe dovuto fidarsi di Abe Pollin, del fatto che tenesse le quote e che gliele restituisse una volta chiusa la carriera da giocatore. Jordan, che faticava a fidarsi di chiunque dopo la sua esperienza a Chicago, decise di fidarsi di Abe Pollin: l’uomo che non aveva mai licenziato nessuno, che aveva ancora a bordo tutti i suoi vecchi soci.
I Wizards portarono a termine l’ennesima stagione penosa, quell’anno, e in seguito si aggiudicarono al draft la possibilità di prendere la prima scelta assoluta. Jerry Krause ricorda il volo di ritorno da quella lotteria, sullo stesso aereo con Fred Whitfield e Rod Higgins, seduti poche file più indietro; era quasi certo che ridessero alle sue spalle: «Ricordo di aver pensato: “Combineranno un pasticcio”» racconta Krause.
La Nba non aveva ancora istituito la regola per la quale i giocatori potevano essere scelti solo dopo aver giocato almeno un anno all’università, così il parco giocatori comprendeva molti teenager. I Wizards presero un ragazzo dell’ultimo anno delle superiori, dalla Georgia, di nome Kwame Brown, alto 2,11 e vincitore dell’Mvp al McDonald’s All-American Game. I Bulls, che avevano due buone scelte, presero i mastodontici Eddy Curry e Tyson Chandler. Jerry West, che reclutava per i Memphis Grizzlies, scelse invece lo spagnolo Pau Gasol.
«Era di gran lunga il miglior giocatore della sua scuola» disse a proposito di Kwame Brown Marques Johnson, ex stella di Ucla e commentatore sportivo. «Avevo assistito alla sua prestazione nel trofeo McDonald’s: 17 punti, 7 rimbalzi, 4 o 5 stoppate».
«Conoscevo quei tre ragazzini, compresi Eddy Curry e Tyson Chandler» ricorda Sonny Vaccaro, che continuava a investire molto tempo nella scoperta delle giovani stelle delle superiori. «Michael mi chiese consiglio e io pensavo che Kwame fosse il migliore». Più che altro, lo staff di Jordan immaginava che Brown potesse portare in dote al gioco in post dei Wizards energia, rimbalzi e atletismo.
Jordan aveva anche reclutato Charles Barkley come compagno di allenamento, pensando che avrebbero potuto tornare in campo insieme. Barkley si era mostrato d’accordo, ma con il senno di poi Jordan avrebbe capito che in nessun modo Barkley, un fantastico commentatore televisivo che era ingrassato molto più di Jordan al termine della carriera, avrebbe avuto una chance di tornare in una forma accettabile per calcare un parquet Nba. I due evocavano l’immagine di Mick Jagger e Keith Richards che provavano un loro ritorno, in pantaloncini corti, fumando e scherzando, in fila per il riscaldamento. Ma loro non erano i Rolling Stones.
Nel rimettere insieme la vecchia banda, Jordan immaginò poi di includere un altro pezzo da novanta.
«Tutto a un tratto Doug era lì» racconta Bach «e io non sapevo che sarebbe arrivato».
Doug Collins aveva viaggiato a lungo dopo essere stato licenziato dai Bulls. Aveva fatto un interessante lavoro con i Pistons, ma non abbastanza soddisfacente; poi era riapprodato in tv, riprendendo il suo ruolo di migliore seconda voce delle telecronache. E adesso l’uomo che non era mai riuscito a dire di no a Jordan arrivava a Washington, proprio quando Jordan aveva bisogno di qualcuno che gli dicesse qualche no.
Jordan rifiutò di annunciare il proprio ritorno, nonostante si fosse lanciato nell’impresa di allenarsi con Grover a Chicago, in estate. Nemmeno Collins era sicuro di quello che avrebbe fatto. Ma i tifosi di basket riconoscevano ormai quella situazione: Jordan, ancora una volta, recitava il melodramma; c’erano voci di un suo ritorno, una città che moriva dalla voglia di riscattarsi e avere una nuova identità, e i soliti tipi con le calcolatrici in mano che già immaginavano quanto avrebbero potuto guadagnare se si fosse allacciato di nuovo le sue scarpe da duecento dollari.
L’atmosfera nella palestra di Grover, Hoops the Gym, era elettrica quell’estate, anche se si trattava di un basso voltaggio, niente a che vedere con il 1994 o il 1995, quando Jordan passava dal baseball alla pallacanestro. Non c’erano pulmini-parabola questa volta, ma solo il giornalista del «Sun-Times» Jay Mariotti in attesa fuori dalla palestra, unico inviato a sorvegliare le operazioni. Ogni giorno Jordan gli passava accanto camminando con cautela, con le ginocchia doloranti. Si scambiavano convenevoli ma Mariotti non riuscì mai a strappargli una conferma.
Jordan fece ricorso al suo vecchio repertorio di trucchi per intensificare l’atmosfera durante gli allenamenti: molto trash talk e la promessa di umiliare chi non era pronto a giocare duro. Una serie di amici e di stelle Nba presero parte alle partitelle, apparentemente per dare una mano, sì, ma anche per mettere a confronto il loro gioco con i poteri di Jordan, ormai in decadenza. Jordan cercava invece la conferma che ne avesse ancora, e ciò che vide e sentì in quella palestra gli diede fiducia.
Un giorno Jordan, dopo settimane di duro lavoro per recuperare la forma, si ruppe due costole in uno scontro con Ron Artest. L’infortunio riportò la preparazione indietro di quattro settimane. Un altro essere umano lo avrebbe letto come un invito a fermarsi. Non a caso Barkley aveva già rinunciato a quella fantasia. Ma Jordan aveva deciso di annunciare il suo ritorno a settembre, salvo poi rimandarlo in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre che sconvolse il paese. Attese diversi giorni, per rispetto; poi annunciò il suo ritorno – e la donazione dell’intero stipendio di un milione di dollari alle vittime dell’attentato.
«Ovviamente quando ho smesso ho lasciato qualcosa, sul campo,» disse Jordan ai giornalisti durante l’annuncio «ma forse voi non siete in grado di capire. Quando abbiamo vinto l’ultimo campionato, io non mi sono messo a sedere, pronto a mollare questo sport. È che in quel momento non volevo ricominciare tutto il processo di ricostruzione. Se Phil fosse rimasto e la squadra non fosse stata toccata, io starei ancora giocando».
«Torno a essere un giocatore per lo sport che amo,» aveva detto in un comunicato «sono molto emozionato per i Washington Wizards e sono convinto che abbiamo le basi per costruire una squadra da playoff».
Il primo giorno di ottobre si presentò in conferenza stampa con una felpa nera marchiata Air Jordan con tanto di cappello nero su cui era cucita la scritta rossa jordan, sopra la visiera. Lo stesso giorno la Nba mise in vendita la divisa dei Wizards con il suo nome a centoquaranta dollari.
Nella lunga lista di personalità del basket scettiche nei confronti dell’operazione figurava anche l’ex allenatore di Georgetown, John Thompson: «Sono preoccupato per Michael. Sono felice ma direi che non avrei voluto vederlo tornare. Credo che le aspettative siano irrealizzabili, visto lo standard a cui ci ha abituato. Inoltre, tutta quella roba su lui che stacca dalla linea di tiro libero è finita. Il suo gioco ora sarà con i piedi per terra. Dovremmo iniziare a chiamarlo “Floor Jordan”».
«Se cado, cado» disse Jordan ai giornalisti, con una bottiglietta di Gatorade messa strategicamente al suo fianco, a favore di telecamera. «Ci si rialza e si va avanti. Se c’è una cosa che cerco di insegnare ai miei figli è di avere un sogno e provare a realizzarlo… Se ce la faccio, sarà bellissimo. Se non ce la faccio, è una cosa che posso accettare».
Come ammise lui stesso, c’era un’intera generazione di giovani e atletici giocatori che non vedeva l’ora di approfittare di lui e della sua età avanzata: «La mia testa è sul ceppo. I giovani lupi mi daranno la caccia, mi accerchieranno. Beh, non mi tirerò indietro. Non scapperò di fronte a nessuno. Se non altro sarà una sfida meravigliosa». Ma soprattutto Jordan voleva evitare quella sensazione di rimpianto che aveva permeato la sua vita dal momento in cui era stato costretto ad abbandonare il suo gioco, a Chicago. «Ho ancora qualcosa che mi prude,» disse «e voglio solo assicurarmi che non mi dia fastidio per il resto dei miei giorni».
Il suo stipendio simbolico fece storcere qualche naso: voleva dire che Jordan stava facendo un regalo da trenta milioni di dollari a una squadra di cui non era più proprietario. Pronti ad accogliere il suo ritorno c’erano anche tanti scrittori, intenzionati a stampare nuovi libri su di lui, in particolare Michael Leahy che seguiva Jordan per il «Washington Post». Ma mentre Bob Greene aveva goduto dell’amicizia e della disponibilità di Jordan mentre scriveva Rebound, il suo libro sull’esperienza nel baseball e sul ritorno a Chicago, Leahy e Jordan entrarono subito in polemica.
Leahy lo dipinse come un uomo troppo egocentrico e drogato di adrenalina per prendersi cura delle sue ginocchia e della sua preparazione fisica. La frattura delle costole aveva sensibilmente ritardato il lavoro di Jordan: durante un camp a Wilmington, a cui partecipò in segno di gratitudine per la sua vecchia città, zoppicava vistosamente. Nel corso delle amichevoli precampionato, alla fine di ottobre, la cronaca del suo ritorno firmata da Leahy lo ritraeva all’interno del casinò Mohegan Sun, in Connecticut, la notte prima di una partita. Jordan era sotto di cinquecentomila dollari e rimase a giocare fino all’alba per riuscire a rivincere la somma perduta, guadagnando in più seicentomila dollari. Non sapeva che Leahy avrebbe fornito il resoconto giocata per giocata di quella notte, a beneficio dei suoi lettori di Washington.
Jordan e il suo staff avevano riempito la rosa dei Wizards principalmente di onesti lavoratori della palla a spicchi. La guardia Richard «Rip» Hamilton era il giovane diamante di una scuderia piuttosto scarna: Rip e Jordan alla fine sarebbero entrati in conflitto, mentre Doug Collins combatteva con la crescente sensazione di deludere Jordan.
Tuttavia, il nuovo sfavillante palazzetto di Pollin, che ora si chiamava Verizon Center, si affollava a ogni partita di abitanti di Washington: gente che da lungo tempo aveva abbandonato i Wizards ora arrivava a frotte per ammirare MJ che provava a ribaltare la situazione.
Nel frattempo, Leahy aveva scoperto che l’intera rosa era rimasta traumatizzata dopo aver scoperto cosa volesse dire davvero giocare al fianco di Jordan. Il primo pensiero su Kwame Brown era che avrebbe potuto rivelarsi un giovane giocatore atletico da usare sotto canestro, come per Chicago era stato Horace Grant. Nel periodo delle amichevoli chiesero a Jordan se con Brown avesse effettivamente scelto un nuovo «dobermann», come quello che Johnny Bach aveva allenato ai tempi di Chicago, ma lui rispose scurendosi in volto: «Ha tanto da imparare».
Brown veniva da una famiglia problematica, ma era ancora un ragazzino, un cuorcontento quando arrivò in ritiro con Jordan. Aveva mani molto piccole per essere un post e nessuna idea di come comportarsi per rendere felice il suo nuovo capo. Ripensando a quei giorni, Brown avrebbe ricordato di come fosse così acerbo da non conoscere nemmeno i termini più basilari della pallacanestro, per esempio cosa significasse «fare un blocco». E Jordan era lì, pronto a offrirgli la sua razione di lanciafiamme. Qualcuno fece arrivare a Leahy la voce che Jordan aveva urlato contro il nuovo ragazzino chiamandolo «checca» di fronte a tutta la squadra: la cosa non suonò bene sulle pagine del «Washington Post» quella settimana e nemmeno, in seguito, nel libro di Leahy When Nothing Else Matters.
Krause intanto lavorava al telefono, raccogliendo informazioni dalle sue fonti all’interno dei Wizards. «Kwame era un giovane fantastico,» ricorda Krause «ma avevo sentito che Michael lo aveva aggredito così duramente da farlo crollare. Quello non era il tipo di ragazzo contro cui gridare. Secondo le persone che conoscevo nel club, è stato Michael a rovinarlo».
L’approccio competitivo di Jordan, per lo storico staff di Pollin, era a dir poco disorientante. Al telefono se ne lamentavano con Krause, che rispondeva raccontando come aveva gestito Jordan. «L’intero staff lo odiava» ricorda Krause. «Conoscevo molti dei suoi membri. Mi dicevano: “Jerry, lui è spazzatura”. Wes Unseld non sopportava le sue sparate. E Unseld era un uomo di Pollin».
Brown avrebbe continuato a giocare per oltre dodici anni nella Nba, come solido giocatore specializzato in post, senza mai diventare una stella. «MJ non ha mai fatto tutto quello che la gente immagina» ha detto Brown in un’intervista del 2011, parlando di quel suo tumultuoso training camp da matricola. «La cosa peggiore erano i veterani e il modo di allenare di Doug». E a proposito di quella prima stagione deludente, ha aggiunto: «Non era tanto un volermi sgridare, quanto un tentativo di farmi da guida: c’erano molte cose che non sapevo. Ricordo che non avevo idea nemmeno della terminologia specifica, uscito dalle superiori. Loro provavano a insegnarmi tutto, cose come i blocchi ciechi, situazioni che ignoravo completamente. Se prendi un ragazzo uscito dal liceo devi avere la pazienza di capire che probabilmente non conosce la terminologia Nba. Devi avere gente che si occupa di far crescere i ragazzi più giovani».
Lo staff di Jordan andò a prendere Ty Lue, svincolato dai Lakers, con l’idea che avrebbe aggiunto velocità e rapidità come playmaker. Lue legò subito con Jordan, ma entrambi sapevano che Lue avrebbe dovuto abbassare un po’ il ritmo per venire incontro a quella vecchia stella dalle ginocchia malandate.
«Aveva tutta la pressione addosso, perché voleva disperatamente vincere» ricorda Lue. «Era tornato, a trentotto anni, mettendo sul piatto la sua storia e la sua leggenda. Mi sembrava grandioso. Tutto ciò che dovevi fare, con MJ, era spingere al massimo. Se ogni volta davi tutto, non avevi nessun problema con lui. Se invece arrivavi rilassato e non avevi intensità, allora erano problemi con chiunque. Quando metti piede su un campo da basket devi dare tutto quello che hai, è solo questo che vuole».
I suoi ex compagni lo osservavano da lontano. Pippen, che ora giocava nei Portland Trail Blazers, guardava sempre le sue partite, i tabellini, e lo chiamava regolarmente: «Credo che adesso capisca, visto che se n’è andato, che quello che aveva a Chicago non esiste più» confidò Pippen una sera, a inizio stagione. «Non c’è più e non ci sarà mai più. Non è in un ambiente fatto di buoni giocatori e buoni allenatori, né di compagni e persone che lo capiscono e sanno come giocare a basket».
Non aveva quasi niente, adesso, secondo Pippen. Il tempo gli aveva permesso di riflettere su cosa avessero vissuto a Chicago. Tex Winter non gli aveva solo fornito la fondamentale struttura dell’attacco triangolo, gli aveva regalato delle cose senza precedenti, spiega Pippen: «Winter è maniacale sui fondamentali e sui dettagli del gioco, non sbanda mai. La maggior parte degli allenatori Nba, onestamente, si tengono alla larga dal lavoro sui fondamentali, sulla rapidità dei piedi, sui passaggi al petto e sul tiro. Non vogliono perdere tempo con queste cose. Tex è l’opposto. Ha sempre detto che il basket è uno sport fatto di abitudini».
Era divertente vedere Winter e Jordan discutere di questo, e accadeva spesso, come racconta Pippen: «Facevano ridere. C’era Tex che adorava condividere le sue conoscenze e Michael che lo riempiva di insulti. Gli diceva: “Non funziona nel basket di oggi. Forse andava bene negli anni Quaranta o Cinquanta, ma non oggi”. Invece sapeva qual era la verità. In realtà, Tex e Michael avevano un bellissimo rapporto».
Jordan comprendeva l’importanza dell’approccio di Winter, continua Pippen; per questo motivo le due stelle della squadra lavoravano così volentieri sui fondamentali di Winter ogni giorno, in allenamento. Di fatto, la voglia di migliorarsi nei fondamentali sarebbe stata la loro vera eredità, ha profetizzato Pippen: «Accettavamo qualsiasi cosa ci potesse far salire al livello successivo. Avevamo un atteggiamento mentale molto positivo verso gli allenamenti, verso gli esercizi che Tex voleva che facessimo per migliorarci. E vedevamo cos’è che potevamo raggiungere se giocavamo al massimo, se ci allenavamo duramente».
Oltre ai fondamentali, fu il continuo confronto con Jordan, in allenamento, a trasformare Pippen in un giocatore eccezionale: «Credo che tutto sia derivato dal dovermi adattare a lui» ha ammesso. «In questo modo ho imparato a prendermi le responsabilità, quando potevo essere decisivo. E questo mi ha aiutato molto, quando poi sono sceso in campo senza Michael».
Similmente, l’esperienza nei Bulls aiutava Jordan a gestire il ridotto atletismo su cui poteva contare ora che non era più tanto giovane, come faceva notare sempre Pippen: «Non può andare al ferro come faceva tre o quattro anni fa. Ma non si può dire che perda poi molto in questo modo, perché è in grado di fare molte altre cose. E ha una capacità di lettura del gioco eccezionale. Non credo che avrà problemi a segnare parecchio. Sa ancora fare canestro. Il problema semmai, adesso, sarà vincere».
Nel vedere Jordan, Pippen si chiedeva immancabilmente cosa sarebbe successo se quei Bulls non si fossero sciolti: «Credo che saremmo stati piuttosto competitivi, se fossimo rimasti uniti» ha detto. «Avremmo potuto dire la nostra, con tutta l’esperienza e le conoscenze che avevamo. Saremmo stati ancora parecchio competitivi».
In effetti è probabile che i Chicago Bulls avrebbero potuto vincere perlomeno un altro anello, se non due o tre, se si fossero trattati un po’ meglio tra di loro. Invece i Bulls orfani di Jordan arrancavano. Sostenendo che Charles Oakley era sempre stato uno dei suoi giocatori preferiti, Krause lo aveva ripreso in squadra. Secondo Pippen, però, Oakley non era felice di essere tornato a Chicago: «Ci ho parlato ieri» raccontò Pippen «e so che lui ha detto alla dirigenza: “Se a tutti voi non importava niente di MJ e di Scottie, figuriamoci se vi importava qualcosa di me”».
Ai giovani Wizards, invece, Pippen consigliò di concentrarsi e di imparare da Jordan durante gli allenamenti. Steve Kerr concordava: «Non è questione di come giocherà. Sai già che Michael farà il suo. Al massimo non finirà tanto spesso su SportsCenter per la sua schiacciata a mulino. La vera domanda invece è: riuscirà a sopportare la sconfitta? Quella squadra è in grado di uscire dalla crisi? Ecco cosa lo farà impazzire. Gli dovrà insegnare come si gioca, ma non so se riuscirà a farlo. Credo che il suo agonismo verrà allo scoperto, credo sia già in moto. La gente non capisce quanto possa essere difficile giocare accanto a Michael. Devi imparare tutto durante gli allenamenti, perché in partita lui prende il controllo della situazione. E poi si aspetta che i compagni giochino al suo livello. È davvero tosta. Si tratta di Michael e dei suoi compagni, di come arriveranno a conoscersi, a capirsi. Per loro sarà difficile capire qual è un buon tiro. Devo cercare lui? O devo andare avanti e tirare? Sarà molto difficile per loro capirlo».
In effetti Jordan avrebbe avuto problemi con molti dei giocatori che i Wizards stavano pagando per giocare a basket. Spiega Ty Lue: «Sai, quei ragazzi non si impegnavano sempre al massimo, a ogni partita. Solo che quando hai accanto uno come lui, che è stato così competitivo per tutta la vita, che torna a giocare a trentotto anni, che si presenta presto ogni mattina in palestra per lavorare sul proprio gioco, che è sempre l’ultimo ad andarsene, che corre sul dolore alle ginocchia, sugli infortuni alle ginocchia, ecco: diciamo che se non ti impegni al massimo con un tipo del genere, facile che puoi incontrare qualche problema. Le sue ginocchia erano davvero messe male. E non era più abituato alle partite back to back, due giorni di seguito, senza contare che veniva da un lungo periodo di stop. Per lui era davvero dura. Ma non ha mai saltato un allenamento, mai saltato una partita. Ha giocato nonostante gli infortuni. Credo che la cosa che gli facesse più male in assoluto era pensare: Io sono qui che tiro fuori tutto quello che ho e c’è qualcuno che non gioca come potrebbe».
Quello che però sorprendeva tutti era la pazienza di Jordan.
Brent Barry, allora una guardia di San Antonio, aveva studiato Jordan a lungo, ed era affascinato dalle differenze che vedeva nella terza e ultima parte della sua carriera. Aveva ancora l’aria da duro, ma Jordan si era trasformato in un insegnante, secondo Barry: «La differenza era tutta nel metodo. Era molto più paziente durante i possessi, quando invece avrebbe semplicemente potuto ordinare agli altri cosa fare, e poi eseguire le sue giocate. Il gioco che faceva, invece, non era per andare a segnare. Sceglieva delle giocate per formare altri ragazzi, per far vedere ai più giovani di Washington: “Ehi, puoi fare questa cosa quando hai la palla, puoi cambiare quello che succede durante un possesso muovendo la palla, o muovendoti tu”. Ha passato gran parte del suo ultimo periodo in campo ad allenare, ad aiutare Doug e ad aiutare i giovani. In partita, il suo gioco diventò una sorta di allenamento, per mostrare agli altri ragazzi quanto potevano essere efficaci, se imparavano a fare bene le cose fondamentali».
Prima lentamente, poi più in fretta, le cose iniziarono a migliorare per i Wizards. Poi, subito prima di capodanno, Jordan mostrò a sorpresa i primi segni di un’incredibile inversione di tendenza. Incappò nella peggior prestazione della sua carriera: 6 soli punti, in una batosta rimediata contro Indiana. Il che mise fine alla sua striscia record di 866 partite consecutive con almeno 10 punti all’attivo. La risposta arrivò immediatamente, nella partita successiva contro gli Hornets, a Washington: segnò 24 punti solo nell’ultimo quarto e finì con 51 punti, quando mancavano sei settimane al suo trentanovesimo compleanno.
«Ha viaggiato nel tempo, stasera» disse l’ala di Charlotte P.J. Brown nel dopopartita.
Fece 21 su 38 dal campo e 9 su 10 ai tiri liberi, con 7 rimbalzi e 4 assist, rimanendo in campo per 38 minuti. Avrebbe potuto battere il record di 56 punti, stabilito per il club di Washington da Earl Monroe, ma la partita era stravinta e Collins lo lasciò in panchina negli ultimi tre minuti.
Poi disse: «Che dite, è un ragazzo orgoglioso? Ha avuto una serata difficile in Indiana, e sapevo che sarebbe tornato per dimostrare chi è… Gli ho visto fare negli anni delle cose incredibili, ma compiere un’impresa del genere a trentotto anni è semplicemente pazzesco».
Aveva segnato un fade away dopo l’altro, ed era andato perfino a schiacciare. «Era un po’ di tempo che non mi chiedevano come faccio a rimanere in volo» disse Jordan. «Mi sentivo davvero bene nel primo tempo. Il ritmo e le scelte erano perfette, la difesa era in confusione. È stata una di quelle serate così».
L’ultima volta che aveva segnato 50 punti risaliva alla primavera del 1997, quando ne aveva rifilati 55 a Washington in una partita dei playoff.
Nella gara successiva per poco non realizzò un’altra performance stratosferica. «Incredibile,» ricorda David Aldridge «segnò quasi cinquanta punti in due gare di seguito. Vidi entrambe le partite: alla fine della seconda era incazzato. Fu davvero divertente».
L’ala di New Jersey, Kenyon Martin, approcciò quella seconda partita dichiarando alla stampa che voleva marcare Jordan. Racconta Aldridge: «Ricordo Kenyon Martin che diceva: “Lo voglio io, voglio difendere su di lui”. E poi Michael è salito in cattedra. Sai, non gli era rimasto molto. Andava avanti con furbizie, trucchetti, conoscenza del gioco. Non aveva più grandissime risorse sul piano fisico… non aveva speranze. E ha segnato quasi cinquanta punti! Da non credere».
Aldridge ricorda che in tribuna stampa si sporse verso Jay Mariotti per dirgli: «Stai vedendo la stessa partita che vedo io? Ma quanto è incredibile quello che sta facendo quel ragazzo, laggiù?».
Jordan iniziò così a infondere sicurezza ai compagni, al punto che molti cominciarono a credere di poter fare canestri che non avevano mai pensato di poter fare. Dall’inizio di dicembre fino all’All-Star Game, i Wizards ottennero ventuno vittorie e nove sconfitte. Sarebbe stato il periodo migliore per i Wizards di Michael Jordan. Le ginocchia diventarono un problema e la squadra non aveva i giocatori necessari a mantenere l’inerzia in campionato. Il rancore, in alcuni giocatori, aveva iniziato a covare già dal ritiro, in parte per i modi da imperatore di Jordan, in parte per il fatto che lui fosse un proprietario – anche se non ufficialmente – e che si era personalmente scelto il suo vecchio coach per guidare la squadra. E poi, al di là di questo, esisteva un crescente ma inespresso conflitto tra lui e Rip Hamilton, il miglior giovane della squadra.
In mezzo a tutto questo, a gennaio, da Chicago, Juanita Jordan avviò le pratiche per il divorzio e subito un reporter del «Sun-Times» si presentò negli spogliatoi dei Wizards per chiedere a Jordan della separazione. Fin dai tempi di Chicago, era prassi che le interviste con Jordan si concentrassero sul basket; ora sembrava fuori luogo, per alcuni quasi spiacevole, dover assistere a quel confronto, che arrivò dopo una vittoria sui Los Angeles Clippers. Il giornalista chiese se il divorzio fosse inevitabile: «Non sono affari tuoi» replicò Jordan in modo fulmineo. Un giornale di Washington pubblicò un resoconto dettagliato di come Jordan, quella stessa sera, in un famoso locale notturno della capitale, con l’aiuto del suo entourage e di Tim Grover, si fosse pubblicamente dichiarato a un’altra donna.
A febbraio fu selezionato per l’All-Star Game, ma la sua performance è ricordata soprattutto per una schiacciata sbagliata. Il 2 aprile fece registrare il suo nuovo minimo storico, segnando solo due punti nella sconfitta 113-93 contro i Lakers. Due giorni più tardi arrivò l’annuncio che avrebbe saltato il resto della stagione per problemi alle ginocchia. I Wizards rimasero fuori dai playoff, con un bilancio stagionale negativo.
«Il primo anno fu duro» ricorda Johnny Bach «ma il secondo fu peggio. Era sempre più difficile mantenere il tono atletico e rimanere tutti quei minuti in campo. E gli avversari continuavano a giocare con l’intento di fermare Michael in ogni modo. È un gioco fisico. Credo che lui abbia fatto molto più di chiunque altro. Ma visti i suoi precedenti, segnare 22 punti a partita, per lui non era abbastanza, e nemmeno per i suoi tifosi».
A fine stagione i Wizards mandarono Rip Hamilton a Detroit, da cui presero Jerry Stackhouse. E Jordan si fece trovare pronto a scendere in campo ancora una volta, nell’autunno del 2002. «Quell’ultima stagione fu semplicemente… ehi! Voglio dire, fu più brutta di quanto si possa immaginare» ricorda David Aldridge. «E penso che abbia rafforzato la convinzione di chi crede che Jordan sia un pessimo dirigente, visto che di fatto fu lui a scegliere la rosa».
Il piano del secondo anno era di abbassare il minutaggio di Jordan e di trasformarlo nel sesto uomo della squadra. Racconta Aldridge: «Per tutta la preparazione ripeté la stessa cosa, senza posa: avrebbe fatto il sesto uomo, avrebbe lasciato che Stackhouse fosse la stella. Poi sarebbe arrivato lui e avrebbe finito il lavoro insieme alle altre riserve. E mi ricordo che pensai: “Ecco, così ha senso!”. E infatti, sulla base di quell’idea, lo scelsi come possibile sesto uomo dell’anno. Pensavo che un Michael Jordan a scartamento ridotto, contro le riserve dell’altra squadra, avrebbe potuto segnare 16-17 punti a partita. Sembrava un piano perfetto. E invece appena un paio di settimane dopo l’inizio della stagione, fu abbandonato. Non so se fu per colpa del suo ego smisurato o perché non credeva che Stackhouse fosse abbastanza bravo, ma si rimise in quintetto».
La mossa generò nuovi malumori visto che, ancora una volta, Doug Collins non era in grado di opporsi a quel proprietario in divisa. «Io difendevo Doug» spiega Aldridge «sia sul giornale che in tv, sostenendo l’unica cosa vera di quella faccenda: “Se decidi di cominciare da capo, metti il tuo coach in una situazione impossibile”. Non capirò mai perché lo fece: aveva molto più senso, per lui, iniziare dalla panchina, risparmiare le ginocchia giocando ventiquattro minuti invece di trentasette. Sono convinto che avrebbe funzionato. Ma lui non riusciva a starsene seduto a guardare».
Il conflitto tra Jordan e Hamilton affiorò quando Washington e Detroit si incontrarono. Come ricorda Ty Lue: «Quando Michael lo mandò a Detroit, Rip era furioso. Così quando giocammo contro di loro Rip fu durissimo e insultò MJ tutto il tempo. MJ gli rispondeva: “Non era niente di personale, Rip. Cerco solo di giocare”. Rip continuava a dargli addosso, e allora MJ gli disse: “Ascolta, Rip, come fai a insultarmi mentre indossi le mie scarpe? C’è un logo Jordan sui tuoi piedi, come fai a parlarne male?”. Tutti scoppiammo a ridere. Erano solo affari. Penso che a lui piacesse Rip. Penso che avesse visto in Stackhouse un realizzatore più aggressivo, uno in grado di spaccare la partita, di crearsi i suoi tiri, di attirare su di sé i raddoppi degli avversari, e in quel modo di aiutare la squadra a vincere. Credo che fosse solo questa l’idea, non c’era niente di personale».
Per i suoi ex compagni e allenatori, il grande evento fu invece la prima partita contro Pippen, a inizio dicembre. Tex Winter annunciò: «Sarà un duello all’ultimo sangue, credetemi». Entrambi segnarono 14 punti, ma la partita non fu mai in equilibrio: i Trail Blazers di Pippen si imposero 98-79. «Conosco Pip e so che voleva scendere in campo e giocare alla grande» disse Jordan ai cronisti «e credetemi, anche io volevo fare lo stesso. Solo che lui aveva cavalli freschi e io asini malconci. Mi tocca prendere qualche pernacchia, per il momento».
Jordan continuò ad avere problemi con le sue ginocchia e con il gioco fisico in campo. Il 15 dicembre, di nuovo, segnò solo due punti in una partita. Però poi ritrovò la forma e a febbraio finì ancora una volta nella selezione dell’All-Star Game, dove a sorpresa partì titolare. Segnò 20 punti, eclissando così Kareem Abdul-Jabbar come miglior marcatore nella storia della manifestazione. Ma fu una serata complicata, per molti aspetti: sbagliò i primi sette tiri, fu stoppato quattro volte e sbagliò una schiacciata. Nel finale segnò il canestro del sorpasso per l’Est, ma Kobe Bryant firmò il pareggio e poi, nei due tempi supplementari, Jordan sbagliò tre tiri e l’Ovest si impose 155-145.
La stagione si trasformò in una sorta di tournée di addio, che Jordan aveva un tempo giurato che non avrebbe mai fatto. Quando i Wizards arrivarono a Los Angeles per la sua ultima partita, contro i Lakers, Kobe Bryant gli fece un regalo d’addio: «Kobe finì per distruggerlo nel primo quarto, segnò qualcosa come 40 punti nel solo primo tempo» ricorda J.A. Adande. «Fu come un sipario che calava, il passaggio del testimone. Credo sia stato umiliante per lui, insomma, non c’era niente che potesse fare».
La stagione precedente, quando Bryant aveva infilato una serie di partite con più di quaranta punti all’attivo, Jordan aveva fatto notare come lui e Bryant sembravano avere un tratto in comune: entrambi cercavano di distinguersi dai propri contemporanei. Per Jordan aveva significato riuscire a fare più di quanto avesse ottenuto l’immenso talento di Clyde Drexler. E ovviamente per Bryant, il punto di riferimento era Jordan.
A fine stagione, i rapporti tra Jordan e molti suoi compagni si deteriorarono. A Chicago, Phil Jackson si era inventato alcune strategie, come le sedute di autocoscienza con George Mumford, per aiutare Jordan a legare con i compagni meno talentuosi. Tutto l’approccio di Jackson, basato sulle dinamiche di gruppo, aveva come obiettivo di esaltare i punti di forza di ogni giocatore e di modulare le loro debolezze. Ma a Washington non c’era Phil Jackson, non c’era George Mumford, non c’era l’attacco di Tex Winter e, altrettanto importante, non c’era Pippen. Jordan non aveva nessuna delle possibilità di sfogo che aveva in passato, e sembrava nutrire ben poca fiducia verso i giocatori chiave di quella squadra. «Qualunque fosse la fiducia che vi aveva riposto un tempo, ora non c’era più, questo è certo. Per lui era diventato un luogo molto solitario» disse uno dei soci.
E stava per diventare anche peggio. Circa tre settimane prima che finisse la stagione, Jerry Krause seppe in anticipo quale tipo di problema fosse alle porte, come ha ricordato nel 2012: «Chiamai Abe Pollin che mi disse: “Sto per fottere il tuo amichetto. Lui pensa di fottere me, ma vedrai, non ha idea”. Abe era un gran figlio di puttana».
Poco dopo, il giornalista sportivo Mike Wise del «New York Times» ricevette una soffiata da una sua fonte: Pollin avrebbe tagliato Jordan a fine stagione. Wise si mise a indagare e scoprì così che Jordan aveva ben pochi amici nello staff e tra i giocatori, eccetto i dirigenti portati da lui stesso, e che aveva forzato troppo la mano con Pollin.
«Sapevo che c’erano dei problemi,» ricorda David Aldridge «perciò pensai che una delle prime cose che Michael avrebbe fatto sarebbe stata quella di andare da Abe per dirgli: “Guarda, abbiamo combinato un disastro qui, ma ecco cosa succede adesso: Tu sei il proprietario e lo sappiamo, perciò non faremo niente senza il tuo consenso. Ti chiedo scusa se i miei sono stati maleducati con i tuoi, se li hanno snobbati. Non succederà più”. Invece Jordan non ebbe mai la possibilità di avere un incontro del genere».
Il «New York Times» pubblicò l’articolo di Wise sui guai di Jordan, prevedendo che Pollin lo avrebbe scaricato. Ty Lue ricorda di essere rimasto molto sorpreso dai toni del pezzo: «Come potevano infangarlo a quel modo? Parliamo di un uomo che torna a giocare a quarant’anni e fa ancora 20 punti a partita, tirando con percentuali alte dal campo. Secondo me era stato eccezionale. Certo, non era il vecchio Michael Jordan, lo sapevamo tutti, ma la sua voglia di vincere e il suo amore per questo sport erano rimasti intatti».
Brent Barry ricorda di aver letto l’articolo e di essersi indignato per il modo in cui alcuni giocatori si erano espressi: «Sai che c’è allora?» disse Barry. «Quella non era mica la sua croce. Quando un giocatore di quel livello si prende il disturbo di spiegare, insegnare e far capire ciò che serve per arrivare a esprimere al massimo un potenziale, poi tocca agli altri riuscirci. Diciamoci la verità, è il loro lavoro. Certo, se Michael non avesse perso del tempo a farlo, allora sarebbe stata tutta un’altra storia».
«Credevo che avrebbero potuto lavorare insieme» dice Aldridge. «Ho pensato che Jordan e Pollin avrebbero trovato un modo per andare avanti, a un certo punto, ma non dopo tutto quel putiferio. Era chiaro che molte persone stessero dando fiato alle trombe, quando uscì quell’articolo sul “New York Times”. Era come un colpo di avvertimento: la faccenda è più grave di quanto pensiate».
Il resoconto sembrava talmente inverosimile che né Jordan né David Falk lo presero per vero, incorrendo in un grave errore di valutazione. «Secondo me avrebbe potuto uscirne indenne se avesse mostrato più rispetto per Abe Pollin» sostiene Aldridge «Credo che l’inizio della rovina sia stata proprio la mancanza di rispetto. Parliamo di un articolo del “New York Times”: era chiaro che una volta pubblicato le cose sarebbero andate così. Non fai uscire qualcosa sul “New York Times” se non stai pianificando qualche mossa, o no? Quindi, anche se non avevo conferme indipendenti, per me era lampante che qualcuno avesse messo in piedi tutta la faccenda con una strategia precisa. Credo che chiunque abbia portato quella storia al giornale sia stato molto furbo: una bella fetta della stampa locale era dalla parte di Michael, e non avrebbe sostenuto un attacco del genere».
Da veterano del giornalismo sportivo, Wise non si era mai lasciato incantare dal Jordan versione Washington; era colpito da quanto Jordan sembrasse smarrito nel suo mondo, una specie di fantasma di Elvis, un uomo che aveva perso il contatto con la realtà. A Washington, Jordan e i suoi erano l’emblema dell’arroganza, ha sostenuto Wise nel 2012.
Johnny Bach aveva un’opinione diversa. Sì, forse Jordan era stato freddo, e spesso sulle sue, mentre provava a giocare, però secondo Bach aveva cercato di accontentare Pollin: era disposto a mettere la propria reputazione in secondo piano per il bene della squadra, benché sapesse che non c’era nessuna possibilità di vincere. Per il secondo anno consecutivo, la squadra finì con una classifica di 37-45, fuori dai playoff. L’ultima notte di Jordan con la divisa dei Washington offrì una bella scena: i tifosi dei Wizards, commossi, lo inondarono di affetto e amore. La stagione – come l’intera avventura – era stata un’enorme delusione per Jordan, ma quell’ultima sera il suo largo sorriso parve a tutti autentico; sembrava davvero apprezzare il calore dei tifosi.
Nonostante l’articolo sul «New York Times», a fine stagione Jordan si presentò all’incontro con Pollin convinto che sarebbe stato ricompensato per tutto quello che aveva fatto. In fin dei conti la franchigia era in una situazione finanziaria orribile al suo arrivo: lui e il suo staff si erano liberati di contratti disastrosi stipulati con molti giocatori, e avevano dato una raddrizzata ai conti, permettendo alla squadra di ingaggiare diversi giovani. Lui stesso aveva giocato due anni al minimo sindacale, compenso che aveva poi devoluto in beneficenza. E nel frattempo ogni volta che aveva messo piede in campo, in casa, aveva fatto registrare il tutto esaurito: un record di pubblico senza precedenti, che aveva contribuito ad azzerare le perdite del club e a raccogliere ricavi totali stimati fra i trenta e i quaranta milioni di dollari.
Il messaggio di Pollin invece fu duro e conciso: come liquidazione offrì a Jordan un assegno che secondo le voci ammontava a vari milioni di dollari. Da quel che si racconta, Jordan avrebbe lasciato i soldi sul tavolo e abbandonato su due piedi l’incontro.
Abe Pollin, l’uomo che non aveva mai licenziato nessuno, aveva licenziato Michael Jordan. In molti rimasero impressionati dalla piega presa dagli eventi. Tutti consideravano Jordan come un patrimonio nazionale: l’icona più importante del basket, l’uomo che aveva fatto affluire milioni di dollari nelle casse della Nba.
«È stata una cosa brutale» ha detto Pat Williams, dirigente della Nba per quarant’anni e conoscente di entrambi. «All’improvviso c’erano questi due fronti, totalmente contrapposti. Era diventata una società a due teste, che andavano in direzioni diverse. Michael era infuriato».
«Finì molto male,» ricorda Johnny Bach «tutt’a un tratto era stato fatto fuori. Tutti i suoi uomini erano stati licenziati. Davvero non riesco a capire l’epilogo, qualunque accusa sia volata all’interno della società. Michael è il tipo di persona per cui la parola data è sacra: se gli dai la tua parola, è meglio che la mantieni. E loro avevano fatto un patto. Ci sono cose che non si possono mettere per iscritto».
Anche i giocatori erano sorpresi.
«Non è facile da mandare giù» ha commmentato Ty Lue. «Insomma, c’è un uomo che torna a giocare e in due anni ti fa recuperare tutti i soldi che hai perso negli ultimi cinque… e tu lo ripaghi in quel modo? È stato un giorno molto triste».
Perfino Washington, la capitale del gioco sporco, sembrò spiazzata da quell’epilogo. «Ora si è aperto un grande dibattito in città» spiegò Aldridge. «Abe ha spremuto di proposito Michael finché non c’era più niente da prendere, per poi buttarlo via? Credo che molta gente pensi questo, molta gente. Non è certo un segreto cosa si aspettasse Michael: lui era convinto che sarebbe tornato a fare il dirigente. Era sempre stato chiaro al riguardo, per tutto il tempo in cui aveva giocato. Voglio dire, non è che se ne fosse uscito fuori a sorpresa, tre settimane prima di ritirarsi dalle scene».
Aldridge è più propenso a credere che Pollin non avesse mai pensato di rispettare l’accordo con Jordan, cioè di riprenderlo come dirigente.
«La mia idea» ha detto «è che Abe non abbia mai voluto vendere la squadra a Michael, che non gli avrebbe mai concesso più del cinquanta percento. Io almeno non l’ho mai bevuta».
Dopo essere stato licenziato, Jordan passò un’ultima notte in città, circostanza documentata su vari siti internet, concordi nel ritrarlo come una sorta di anima persa che vaga per Washington.
«Se ne andò,» ricorda David Aldridge «se ne andò… e per molto tempo non lo vidi più».