38. Carolina
Sicuramente gli Charlotte Bobcats non sembravano un gran passo avanti, almeno non per un bel po’ di tempo. Ad ogni modo, Jordan ricomparve lì nel 2004. A Robert Johnson, magnate dell’editoria, era stata concessa la franchigia che avrebbe sostituito gli Hornets, partiti per New Orleans nel corso di uno dei capitoli più amari nella storia della lega. Gli Hornets avevano rappresentato, nella Nba, un modello di riferimento per tutte le squadre di provincia: nel 1989 il Charlotte Coliseum, nuovo di zecca, si riempiva fino all’ultimo posto di tifosi adoranti che acclamavano star del calibro di Alonzo Mourning, Larry Johnson e Muggsy Bogues. Tuttavia, a distanza di soli dieci anni, il proprietario George Shinn aveva fatto pressioni per costruire un nuovo palazzetto, dotato di palchi che potessero aumentare le entrate e rendere la squadra più competitiva. La questione si era fatta via via più spiacevole, durante la prolungata battaglia per il finanziamento dei lavori. Ad un certo punto, Shinn venne accusato di violenza sessuale, e i suoi guai con la legge diventarono un incubo per l’immagine degli Hornets, arrivati ormai all’ultima spiaggia. I tifosi gli voltarono le spalle, e così Shinn fece le valigie, prese la squadra e abbandonò la città, a cui non rimase altro che il disgusto per il basket professionistico.
A seguito di questi eventi, e di una nuova espansione della Nba, la franchigia dei Bobcats aveva inaugurato la propria avventura cestistica nel bellissimo palazzetto al centro della città, nella stagione 2004-2005. I tifosi però avevano risposto in modo tiepido. In qualità di primo afroamericano ad assumere la quota di maggioranza di un’importante società sportiva, Johnson aveva tutto l’interesse a trovare un accordo con Jordan come socio di minoranza e responsabile della direzione sportiva. Jordan aveva appena rimesso insieme i cocci del suo matrimonio, e quel lavoro gli richiedeva di passare molto tempo in sede. Il nuovo incarico si sarebbe rivelato tutt’altro che ideale per ricominciare una vita tutta casa e famiglia.
BILIARDO
Alla fine del 2004, Daniel Mock lavorava come barista al Men’s Club di Charlotte, un esclusivo topless bar nella zona sud della città. Da bambino Mock aveva venerato Jordan: aveva i suoi poster in camera e possedeva ogni possibile divisa della sua collezione. Si era perfino procurato il suo autografo durante un torneo di golf e si ricordava ancora con immenso piacere di quando aveva inseguito il suo idolo per tutto il campo. Perciò, una sera di dieci anni dopo, rimase attonito nel vedere Jordan, Robert Johnson, Charles Oakley e il proprietario dei Dallas Mavericks, Mark Cuban, fare il loro ingresso al Men’s Club e prendere posto nel piccolo privé del bar in cui lavorava. Era un locale grande, che si sviluppava su due piani, con quattro banconi, tre palchi e sessanta ballerine in topless impegnate senza sosta ogni notte.
«Entrarono nel Men’s Club, e io rimasi di stucco» ricorda Mock con una risata. «Andai in bambola e tutte le cameriere mi presero in giro. Quando si accomodarono, presi le ordinazioni e mandai subito un gruppo di ragazze a ballare per loro».
Unirono due tavoli affinché gli uomini potessero gustarsi la cena in compagnia delle ballerine, che si alternarono a danzare in privato e a sedersi al tavolo con Cuban, Jordan e Johnson. Oakley si allontanò per sedersi al piccolo bancone che Mock gestiva poco più in là. I due cominciarono subito a chiacchierare e Mock informò Oakley che Jordan era «semplicemente l’idolo della mia vita».
«Davvero?» disse Oakley. «Allora lo faccio venire qui».
Mock andò nel panico, come se gli stessero per presentare la ragazza più carina della scuola.
«No, non farlo» disse.
Tra una canzone e l’altra, le ballerine si mettevano a sedere sulle ginocchia degli uomini. Il locale aveva una fila di ballerine che, sei alla volta, andavano e venivano dal tavolo di Jordan. Ballavano per circa cinque minuti e poi si sedevano con loro.
Alla fine Mock andò a parlare con Jordan. «Gli dissi: “Signor Jordan, tutto bene stasera?”».
Fumavano sigari enormi. «Volevo solo farle sapere che quando avevo undici anni ho chiesto il suo autografo, al lago Tahoe. Lei è stato l’idolo della mia gioventù».
«Hai ancora quell’autografo, ragazzo?» chiese Jordan.
Mock rispose che lo aveva messo sotto chiave, in modo che fosse al sicuro.
«Fai bene a tenertelo stretto» disse Jordan con una risata.
Il gruppo pasteggiò a champagne. Era il tipo di locale in cui potevi scegliere la tua aragosta dall’acquario o guardare come preparavano le bistecche. Dopo aver mangiato – a quel punto il loro conto superava già i mille dollari – Jordan si alzò per andare a giocare a biliardo con tre ballerine. Mentre passava, Oakley spiegò a Mock che l’indomani mattina presto sarebbero andati a giocare a golf al Firethorne Country Club. Appassionato golfista, Mock aveva lavorato anche in quel club.
«Jordan disse: “Si, il Firethorne è tosto”,» ricorda Mock «e io gli risposi che prima lavoravo lì». «Davvero?» chiese Jordan, smettendo d’un tratto di giocare per guardare Mock. «Racconta un po’». Così il barista si lanciò in una descrizione dettagliata della disposizione dei campi e gli diede alcuni consigli su quali mazze usare per le diverse buche, dove era meglio una legno tre e dove no.
«Rimase seduto lì per tipo cinque minuti a fissarmi, come se stesse memorizzando ogni cosa,» racconta Mock «poi si mise a giocare a biliardo in coppia con una minuta ragazza cinese, contro due bionde alla Pamela Anderson, molto alte, che giocavano in topless. Lui aveva un grosso sigaro tra le dita e giocava con una mano sola. Tutte le volte che doveva tirare se ne stava lì con quel grosso sigaro in bocca. Metteva una mano dietro la schiena e appoggiava la stecca direttamente sul tavolo. E ogni volta che stava per colpire, una delle ragazze si abbassava e poggiava le tette sul tavolo.
«Ero lì seduto con Oakley» ricorda Mock ridendo «e lui mi disse: “Ecco un’altra notte di Mike”. È così che andò avanti la serata».
Johnson li salutò presto, ma Cuban, Jordan e Oakley si trattennero parecchio oltre le due, l’orario di chiusura del locale. Mock rimase sconvolto nell’apprendere che la partita di golf sarebbe iniziata alle cinque.
Il mattino seguente, Mock si alzò presto e telefonò a un giocatore professionista del club, un suo vecchio amico, il quale gli disse che lo staff del Firethorne avrebbe voluto spostare la partita di Jordan alle 6.30. «Lui aveva risposto che era troppo tardi» ricorda il barista «e li aveva convinti a lasciarlo giocare alle 5.45 del mattino, proprio al sorgere del sole. Gli dissi: “Sono rimasti alzati fino alle tre”. E lui rispose: “Ma come? Due ore di sonno?”».
L’amico gli chiese come mai sapesse che erano stati svegli fino a tardi e Mock gli raccontò che erano venuti al Men’s Club. «Mi disse: “Non ci credo”» ricorda Mock con una risata. «E aggiunse: “C’è un gruppo di soci che voleva seguirli lungo il percorso, perciò hanno prenotato quattro partite di golf, in modo da non avere nessuno tra i piedi”. Hanno comprato quattro turni di golf, dopo aver fatto le ore piccole al club, spendendo Dio solo sa quanto. Credo che la ragazza abbia detto che il conto fosse di 1800 dollari. Sono quasi certo che Cuban abbia pagato per tutti».
Il golfista riferì poi che Jordan, Oakley e Cuban si erano dati da fare in campo e avevano finito per le nove e trenta. A quanto pare il desiderio di giocare era ancora forte.
Da quel momento in poi, Jordan si immerse nel suo nuovo ruolo di dirigente dei Bobcats, inframmezzando il lavoro con viaggi continui, partite a golf, gioco d’azzardo e feste. Non sorprende quindi che Juanita avviasse di nuovo le pratiche per il divorzio, dopo diciassette anni di matrimonio. Il divorzio fu ufficializzato nel dicembre del 2006 e «Forbes» stimò che sarebbe costato a Jordan centocinquanta milioni di dollari – in assoluto uno degli accordi più sontuosi nella storia dei divorzi.
In pochi anni, l’immagine apparentemente immacolata di un tempo aveva subìto duri colpi, e la gente furiosa gli dichiarava guerra su internet, rimproverandolo per ogni suo passo falso.
Seguirono nuovi errori di valutazione: la terza scelta assoluta del 2006, per Charlotte, fu Adam Morrison, che si sarebbe rivelato un’enorme delusione, procurando l’ennesima crepa nella mistica di Jordan. Con il lievitare delle critiche, alcuni biografi si domandarono come mai Jordan non avesse mai chiesto a Krause cosa significasse davvero fare il direttore generale nella Nba. Altri erano convinti che Jordan non avrebbe mai potuto percorrere quella strada. Molti pensavano che la sua fama lo avesse isolato, portandolo ad ascoltare per le questioni importanti solo il parere della cerchia più stretta di amici. In segreto Jordan aveva però fatto la cosa più intelligente, forse più ancora che rivolgersi a Krause. Jim Stack se ne era andato dai Bulls per diventare un dirigente dei Minnesota Timberwolves: lui e Jordan parlavano spesso di questioni legate ai giocatori.
«Abbiamo parlato molto tra il 2004 e il 2008» ricorda Stack aggiungendo che, come tutti i dirigenti, anche Jordan chiedeva sistematicamente opinioni a una serie di addetti ai lavori.
Stack racconta di aver discusso a lungo della scelta di Adam Morrison. «Adam era un attaccante di talento, ma poi aveva mostrato dei limiti a causa del diabete. Tanto per cominciare, era un ragazzo molto cagionevole, e il calendario Nba lo mise a dura prova. Ne parlai candidamente con MJ. A quel punto del draft, non c’era una scelta ovvia da fare. Si trattò solo di una scelta infelice».
Per essere un buon dirigente ci vuole sia un grande impegno che una grande fortuna, spiega Stack: «Fai tutto quel lavoro, ti guadagni il tuo posto al draft e poi speri di avere un po’ di fortuna, che il giocatore giusto per te sia disponibile». Eppure sembra che, in qualche modo, quel lavoro avesse spinto Jordan fuori dal gioco, privandolo del suo famoso tempismo. La gente che osservò Jordan scegliere i giocatori ai camp Nba rimase colpita nel vedere quanto si fosse incrinata la sua sicurezza. Sebbene fosse cordiale come sempre, Jordan appariva incerto, forse condizionato dalle difficili esperienze vissute come manager. Il suo contegno sofferente ricordava, a chi lo conosceva, tutto quello che aveva dovuto affrontare dopo la fine dei suoi giorni di gloria. A volte, infatti, il linguaggio del corpo sembrava suggerire che Michael si sentisse fuori luogo, come ai tempi del baseball, più di dieci anni prima.
BRYANT
Durante i camp Nba che precedettero il draft del 2008, Jordan era seduto da solo nella parte alta della gradinata del complesso sportivo Disney, a Orlando. Guardava gli speranzosi ragazzi del college e i free agent esercitarsi nel campo sottostante. Sembrava talmente assente che quando un inviato gli chiese un’intervista, Jordan acconsentì, quasi felice di poter smettere di osservare quei giocatori minori che sembravano girare a vuoto lì sotto. Le domande dell’intervistatore riguardavano Kobe Bryant.
All’inizio del decennio, Phil Jackson aveva vinto tre titoli a Los Angeles, e quella primavera i Lakers, guidati da Kobe Bryant, davano l’impressione di essere rinati. Jordan aveva guardato con interesse il modo in cui Bryant, giocando per Jackson e Winter, aveva ricoperto il suo vecchio ruolo nel triangolo. La guardia dei Lakers aveva passato anni cercando di essere «come Mike» – prima rasandosi la testa, quando era ancora adolescente, poi scimmiottando le espressioni di Jordan – anche se Bryant faceva di tutto per negare di essere solo un emulatore. A quanto pare Bryant era il migliore della generazione degli aspiranti Jordan, di quella legione di giocatori che volevano ereditare il suo scettro. Forse Bryant era davvero l’unico che poteva riuscirci.
Jordan era stato a lungo un osservatore interessato alle performance di Bryant, e lo stesso valeva per Jackson e il suo staff. I paragoni tra i due giocatori, ancora oggi, generano accesi dibattiti sul web. Sinceramente, Jordan non capiva quale fosse il problema. Dopotutto, il comportamento umano è mimetico; gli uomini si sono copiati e scimmiottati l’un l’altro, così come le rock band per decenni hanno cercato di essere come i Beatles e i Rolling Stones; i quali, a loro volta, avevano preso molto dai grandi bluesman americani delle generazioni precedenti.
Naturalmente, fece notare Jordan, il suo modo di giocare aveva spianato la strada a Bryant.
«Ma quante persone hanno illuminato il mio, di cammino? È l’evoluzione del basket. Non avrei mai potuto giocare come ho fatto se non avessi guardato David Thompson e altri prima di me. In nessun altro modo Kobe avrebbe potuto giocare come gioca senza vedere me. Quindi, capite, questa è l’evoluzione del basket e non ci si può fare niente».
Dall’intervista era evidente che Jordan rispettava Bryant, senza che trapelasse alcun senso di superiorità. Rispettava qualsiasi giocatore che lavorasse sodo e che fosse mentalmente solido. Disse che Bryant aveva superato entrambe le prove. «Quindi non è poi così diverso da me, anche se è diverso. La gente deve capire questo, deve rendersi conto che si possono trovare molte somiglianze, ma che lui è senz’altro diverso da me».
Anche mettendo da parte il debito palese di Bryant nei confronti di Jordan, quello che rendeva il paragone così interessante agli occhi di Jordan era il fatto che anche Kobe giocasse con il triangolo e con gli stessi allenatori, Jackson e Winter. Era un sistema di gioco che creava spazio per una superstar in azione, spiegò Jordan. «Il triangolo è un grande sistema offensivo, che dà ai giocatori la possibilità di trovare le spaziature corrette e la giusta posizione. Però poi ci sono persone talentuose come Kobe che sanno come inserirsi, coinvolgere tutti i compagni e renderli migliori».
Winter aveva cominciato a usare il sistema anni prima, ancorandolo a sei princìpi del gioco di squadra. Ma quando iniziò ad allenare Jordan, nel 1985, si rese conto che c’era bisogno di un settimo principio, e cioè che un giocatore dal talento superiore poteva mandare all’aria gli altri princìpi. «Se hai un grande giocatore, tutto il resto si deve adattare» ammise Winter.
«Tex ha assolutamente ragione» disse Jordan sorridendo, quel giorno, mentre ricordava i molti momenti passati ad allenarsi con i Bulls, mentre Winter si lamentava di una cosa o dell’altra.
«E Kobe sta compiendo lo stesso processo».
Il fatto che i tifosi si risentissero del cambiamento di gioco di Bryant era sciocco, osservò Jordan.
«Kobe ha tutto, come grandezza e successo. Il successo si somiglia a prescindere. Non c’entra quello che puoi dire di qualcuno prima di te, perché devi avere caratteristiche simili per raggiungerlo».
Non si trattava tanto di copiare uno stile quanto di inseguire una formula già collaudata, spiegava Jordan. «Perciò il successo lo aspetta. Lui ha lavorato bene, per ottenerlo».
Jordan affermò di aver rivissuto alcuni momenti della sua carriera, guardando Bryant. I due avevano chiacchierato al telefono di cose che solo loro potevano capire. Quando seppe che durante le finali del 2008 Jordan aveva speso parole lusinghiere sul suo conto, le orecchie di Bryant si erano drizzate quasi come quelle di un ragazzino affamato di autografi. «MJ stava parlando di me?» domandò. «È un grande». È chiaro come Bryant traesse forza e sicurezza dal loro rapporto.
Qualche anno prima, lo staff tecnico dei Lakers era giunto alla conclusione che Bryant e Jordan si somigliassero in modo impressionante, soprattutto per l’agonismo da maschio alfa. Tutti concordavano che quando si trattava di vincere, diventavano spietati. Avevano capacità fisiche analoghe, forse solo le mani di Jordan erano più grandi. La differenza più evidente era però l’esperienza al college: Jordan aveva giocato nel basket organizzato di North Carolina, ed era quindi più preparato ad accettare il triangolo di Winter, e in generale il concetto di squadra. Bryant invece era arrivato nella Nba direttamente dal liceo, con uno sguardo sognante.
«Mi viene da pensare a quanto siano simili» ha osservato Winter. «Entrambi hanno reazioni eccezionali, velocità e abilità nel salto. Tutti e due tirano bene. Alcuni dicono che Kobe sia un tiratore migliore, ma Michael è diventato un gran tiratore con l’esperienza. Non sono sicuro che Kobe sia un tiratore migliore di Michael al suo apice». Anche Jackson ha riconosciuto le somiglianze, pur ammettendo che esisteva un solo Michael Jordan.
Agli opinionisti piaceva puntualizzare come Jordan avesse giocato senza un centro dominante; ma Winter ha sempre ribattuto che Jordan stesso era un grande post, forse il più micidiale dei suoi tempi, sotto canestro. Anche Bryant era arrivato nella Nba con grandi doti di post, ma non ebbe mai lo spazio per giocarci, dato che il pitturato dei Lakers era il regno indiscusso di Shaquille O’Neal. Winter dubita che Jordan sarebbe andato d’accordo con O’Neal. Per molti versi, secondo Winter, Bryant era al livello di Jordan nel gioco in post tranne che per un aspetto decisivo: Jordan aveva molta più forza. «Michael era abilissimo nel prendere e difendere la posizione, più di Kobe».
Come Jordan, anche Bryant ha raccolto molto del suo successo giocando da ala piccola, invece che da guardia, perché quel ruolo permette di lavorare «dietro la difesa», come Winter ha spesso spiegato. Nonostante il successo di Bryant in attacco, Winter sosteneva che i Lakers dovevano far girare di più la palla, che i compagni di squadra di Bryant si affidavano troppo a lui, proprio come accadeva con Jordan. Un’altra differenza, secondo Winter, è poi il loro stile di comando: Jordan metteva in piedi allenamenti duri, a volte crudeli, per i suoi compagni di squadra, con lo scopo di abituarli a giocare sotto pressione; Bryant invece aveva un approccio più gentile.
E poi c’era l’ineguagliabile Pippen. Spesso Winter diceva che si sottovalutava sempre il contributo di Pippen al gioco di Jordan.
SPRINGFIELD E OLTRE
Jordan conobbe la top model Yvette Prieto e la sua vita cominciò a cambiare. I Bobcats faticavano disperatamente e si stimava che perdessero decine di milioni ogni stagione; alcuni siti web come Tmz si trasformarono in una sorta di coro greco contro His Airness. A quanto pareva le critiche erano in agguato ovunque, sempre. Nel 2009, il primo anno in cui era eleggibile, Jordan fu ammesso nella Hall of Fame della Nba. Ma la cerimonia si sarebbe trasformata nell’ennesimo supplizio.
George Mumford una volta ha osservato che bisogna considerare ciò che la gente fa, e non ciò che dice, per valutarla. In agosto, all’approssimarsi della cerimonia, Jordan scelse di farsi accompagnare da Johnny Bach, invece che da Phil Jackson. L’assistente, ormai ottantenne, attraversava un brutto periodo, con il divorzio che gli mangiava tutta la pensione Nba. Jordan pagò per avere il suo vecchio allenatore «all’attacco!» in grande stile per l’evento. Chiese inoltre a due impiegati dei Bulls della prima ora – il responsabile della biglietteria Joe O’Neil e l’ufficio stampa Tim Hallam – di volare con lui sul suo jet, insieme alla Prieto e a un gruppo ristretto che comprendeva George Koehler, per raggiungere Springfield, in Massachusetts.
«Onestamente fu una grande emozione» racconta O’Neil. «Avevo cominciato nei Bulls tanti anni prima. Michael doveva essere una matricola o al secondo anno del liceo quando iniziai. Io e Timmy Hallam eravamo tra i primi che Jordan incontrò a Chicago. Era tutto molto diverso, a quel tempo. Michael non era la mega superstar. Ora, non so chi sia la persona più conosciuta del pianeta, ma lui deve essere lassù, da qualche parte. Stare su quell’aereo con Michael e la sua fidanzata, diretti alla Hall of Fame, non so dire cosa significasse per me. Eravamo seduti a ridere e a raccontare storie dei vecchi tempi, come quando uscivamo di nascosto per andare a giocare a golf, o a qualcos’altro. Mike non si era dimenticato delle persone. Si era portato Johnny Bach alla Hall of Fame. Credo che gli amici più stretti di Michael non siano affatto delle celebrità. Ha amici che frequenta, con cui gioca a golf e con cui passa il tempo. Poi naturalmente ha anche milioni di amici famosi. Tuttavia quelli che frequenta un giorno sì e l’altro pure sono ragazzi normali, e credo che questo gli piaccia».
Trascorsero il volo a parlare del suo primo anno nei Bulls, di quella rosa di giocatori matti; delle partite a golf con il cestino dei rifiuti, in ufficio; delle file di bambini che andavano e venivano, prima che la squadra potesse entrare in campo ad allenarsi, alla Angel Guardian Gym. Ridevano e ricordavano il passato, e O’Neil notò che più si avvicinavano a Springfield, più Jordan diventava nervoso.
«Nonostante tutto il clamore e i riflettori a cui Michael era abituato, credo che talvolta, quando ha le luci puntate addosso, emerga ancora una certa timidezza» ha affermato O’Neil in un’intervista del 2012. «Ritengo che fosse un po’ a disagio per tutta quella faccenda, perché essere ammessi nella Hall of Fame era una cosa grossa. Penso che in un certo senso non vedesse l’ora, ma anche che non vedesse l’ora che fosse tutto finito. George era con noi sull’aereo. Ancora oggi, George e io ci diciamo: “Riesci a credere da dove siamo partiti e dove siamo arrivati?”»
Quanto al discorso, O’Neil notò che Jordan non aveva preparato nulla. «Non aveva scritto molto,» ha ricordato il suo vecchio amico «non era sicuro di quello che avrebbe detto. Era nervoso al pensiero di andare là fuori».
Jordan aveva chiesto al suo primo idolo, David Thompson, di presentarlo e di rimanere lì in piedi insieme a lui, davanti all’élite del basket, a quel pubblico che aveva speso un mucchio di dollari per assistere all’incoronazione del re dei canestri; per vedere Michael sulla ribalta della consacrazione definitiva. Fu allora che, preso dall’emozione del momento, Jordan decise di togliersi un peso dal cuore e mostrare la sua natura competitiva, citando tutto quello che, vero o immaginato che fosse, lo aveva guidato lungo il corso della sua vita. Perfino gli osservatori di lunga data di Jordan, che pensavano di conoscerlo bene, furono colti di sorpresa, e provarono una certa delusione. La maggior parte del pubblico rimase sconcertata, mentre Jordan riesumava l’antica rabbia per il posto negato nella squadra del liceo, o perché Dean Smith al primo anno di università lo aveva escluso dalla copertina di «Sports Illustrated», o per il litigio con Tex Winter sulla I di Vittoria, per l’antipatia di Jerry Krause, addirittura per un diverbio con Pat Riley per la stanza di un hotel alle Hawaii. Quel giorno, nella sua assoluta sincerità, sembrava voler insultare tante persone quante ne ringraziava.
Phil Jackson guardò la cerimonia in tv, dentro un affollato bar sportivo, in cui osservò le reazioni sorprese dei clienti. Jackson però capì immediatamente che Jordan stava solo cercando di spiegare l’origine del suo agonismo. L’unico problema era che quasi tutte le cose che aveva additato come stimoli, nella sua vita, erano momenti negativi e difficili da comprendere per la gente. Il tutto si tradusse in un disastro.
«Le parole di Michael Jordan il giorno della elezione alla Hall of Fame sono state la Exxon Valdez dei discorsi» scrisse Rick Reilly su «Sports Illustrated». «È stato a tratti maleducato, vendicativo e astioso. E tutto ciò mentre cercava anche di divertire. È stato inopportuno, egoista e sconveniente. Quando ha finito, nessuno voleva più essere come Mike».
Nessuno era più stupito – e più euforico – di Jerry Krause. «Me ne stavo seduto lì» ha ricordato Krause nel 2012 «ed ero, diciamo, un po’ sorpreso. Voglio dire, Michael è fatto così, ma ero sbalordito che si mostrasse sul palco per ciò che era. E sono rimasto davvero sconvolto quando ha attaccato Dean. Nei miei confronti era facile aspettarselo… ma Dean? Beh, era dura da prevedere. Dean sarà rimasto seduto a chiedersi: “Che cosa?”. Sì, credo proprio che Dean fosse scioccato. Noi ci abbiamo convissuto abbastanza da vincere sei campionati, e sapevamo cosa aspettarci da lui».
Krause ha messo a confronto l’esibizione di Jordan con quella di Dennis Rodman, due anni più tardi, caratterizzata da una grande commozione e da una forte autocritica. «Dennis poteva comportarsi in modo terribile» spiega Krause «ma ha un cuore d’oro. Ha sempre compiuto azioni autolesioniste, ma non farebbe mai del male a un altro essere umano, eccetto a sé stesso. Michael invece? A lui non importa se ferisce le persone. A volte non ci sta con la testa. Non sto dicendo che è cattivo; l’ho visto tante volte essere estremamente gentile. Immagino che per uno psichiatra sarebbe un sogno poterlo prendere in cura e smontare le sue difese, sarebbe davvero molto interessante. Michael è uno dei giocatori di basket più intelligenti con cui abbia mai lavorato, ma l’episodio della Hall of Fame, quel discorso, mi ha permesso di far capire alla gente quanto possa essere idiota. In tantissimi sono venuti da me dopo quel discorso per dirmi: “Non mi ero mai reso conto che Michael fosse un simile stronzo”».
Jackson, da eccellente psicologo, era riuscito a tirare fuori il meglio da Jordan, secondo Krause: «Avevamo un’ottima squadra, infarcita di personalità molto suscettibili. Lui le ha prese una a una e le ha messe al loro posto. Capiva i giocatori e sapeva farli lavorare insieme».
L’altro punto di forza era rappresentato da Winter, continua Krause: «Tex era molto duro con Michael, più di chiunque altro: esigeva la perfezione. A Michael il triangolo non piaceva; all’inizio diceva: “A cosa ci serve questa cazzata?”. Gli ci è voluto un anno intero per accettarlo, ma poi ha capito che grazie a quell’attacco poteva lavorare in post, sotto canestro».
Una volta esaurito l’argomento della Hall of Fame, l’ex dg (era stato rimosso da Reinsdorf nel 2003) ha cominciato a rilassarsi e a raccontare di quale grande agonista fosse Jordan, che mai una volta, in tutti quegli anni insieme, si era sottratto ai compiti più difficili e pesanti. Krause ha detto di avere un archivio con i nastri di tutte le magnifiche performance di Jordan, eppure l’esperienza nel suo complesso era stata talmente amara che non ne aveva mai riguardato nemmeno uno. Ha ribadito che «Michael è quello che è. Non avremo mai niente da condividere».
Gran parte della sua durezza scaturiva dal narcisismo della sua èra, dominata dai mass media e dal fanatismo, spiega Krause: «Se Michael avesse giocato ai tempi di Elgin e Oscar e quei ragazzi là, non sarebbe stato così. E viceversa: a Oscar o Elgin, calati nel clima di oggi, sarebbe successa la stessa cosa. E anche Bill Russel avrebbe guadagnato trenta milioni di dollari l’anno».
Come Jordan ha ripetuto tante volte, però, il tempismo era dalla sua parte. Sotto i riflettori si era mostrato, come sempre, sfrontato e indomito. Sonny Vaccaro ha osservato che sembrava un unto del Signore: «Lo penso davvero. Voglio dire, se anche faceva qualcosa di sbagliato, se andava nella direzione opposta a quella corretta, alla fine tutto si sistemava lo stesso».
Dopo Springfield Jordan voltò pagina, mentre tutti i giornalisti sportivi di testate grandi e piccole, i conduttori radiofonici di programmi sportivi, i siti internet e i commentatori tv continuarono a criticare con toni aspri il suo discorso. Perlopiù erano confusi, spiazzati e arrabbiati che fosse stato loro negato un momento di festa per celebrare un eroe, amato e adorato da diverse generazioni di tifosi.
«Credo che il suo cuore sia nel posto giusto, lo penso davvero» ha detto David Aldridge.
Ma il pubblico avrebbe desiderato ricevere più soddisfazione dall’uomo che aveva cambiato tutto.
IL PROPRIETARIO
A quel punto Jordan si diede da fare per completare l’acquisizione dei Bobcats. Per la prima volta nella storia, un ex giocatore sarebbe diventato il proprietario di maggioranza di una squadra Nba. David Stern e Jordan non avevano mai legato, ma adesso Stern da dietro le quinte tramava affinché l’affare andasse in porto. E, una volta concluso, Stern continuò a dare una mano nella fase di assestamento. In tutto ciò, passava in secondo piano la domanda a cui tutti avrebbero voluto una risposta: Jordan era stato costretto a ritirarsi nel 1993? Jack McCallum ha indagato a lungo su questo mistero. Jordan ha ripetuto più volte, in interviste del 2011 e 2012, che non c’è nulla di vero nelle teorie complottistiche che puntano il dito sulla sua passione per il gioco d’azzardo, e anzi ha sempre recriminato che al tempo Stern non si sia fatto vivo per cercare di fare luce sulla questione e spazzare via i dubbi. Il commissario della Nba era al corrente del profondo risentimento di Jordan ma, spiega McCullum, si trovava in una posizione scomoda: pensava che dando troppo peso alla vicenda avrebbe solo alimentato le schiere dei maniaci della cospirazione. Jordan invece interpretò quella discrezione per indifferenza.
Qualunque cosa si dissero, rimase tra loro, e nessuno dei due lasciò trapelare dettagli. Le prove a favore sembravano forti, ma solo indiziarie. Se davvero Jordan era stato costretto a lasciare, aveva senso che il commissario lo avesse riaccolto come giocatore, ma difficilmente avrebbe potuto ritenerlo affidabile come proprietario. Anche perché Jordan non si era mai mostrato pentito fino in fondo dei propri vizi. (Nel 2007 Adam «Pacman» Jones della Nfl giocò a dadi con Jordan in un casinò di Las Vegas, con poste altissime. Per tutta la notte Jordan pretese che nessuno toccasse i dadi: solo lui poteva lanciarli. In un’intervista del 2014, Jones ha raccontato di aver vinto un milione di dollari quella notte, mentre Jordan ne aveva persi cinque). «Non so se abbia mai avuto un vero problema di dipendenza dal gioco d’azzardo» ha detto Krause. Se fosse stato reale, però, era strano che Stern si desse tanto da fare per ammettere Jordan tra i proprietari della Nba. Senza prove che dimostrino il contrario, la partenza per Birmingham fu forse davvero solo quello che sembrava: il dolore per il lutto che lo trascinava verso il baseball, per sentirsi ancora vicino a suo padre.
Per quanto riguarda i Bobcats, nel 2009 avevano licenziato gran parte del loro staff. Ora che Jordan era il socio di maggioranza, il club iniziò a riempire i posti vacanti e ad affrontare una serie di questioni finanziarie: il palazzetto non aveva mai ceduto i diritti di titolazione, che furono immediatamente acquisiti dalla Time Warner Cable. Lo staff mise in fila tutto ciò che c’era da fare per risanare la franchigia. Durante le riunioni scoprirono che Jordan era molto bravo ad ascoltare, cosa che sua madre e Dean Smith avevano imparato anni prima. Jordan iniziò a incontrare i titolari degli abbonamenti, soprattutto nei momenti difficili, anche dopo le sconfitte più imbarazzanti, che non mancarono.
In un primo momento fu molto fortunato come proprietario. Assunse come coach Larry Brown, membro della Hall of Fame e anche lui ex studente della Unc. Jordan prese le redini della franchigia all’inizio del 2010 e quella stessa primavera, per la prima volta nella loro breve storia, i Bobcats raggiunsero i playoff. Poi però, finita la stagione, dovette far fuori alcuni dei migliori giocatori della squadra per fronteggiare un complicato taglio dei costi. Gli osservatori notarono che le perdite del playmaker Raymond Felton e del centro Tyson Chandler contribuirono a far arrancare i Bobcats nel 2011. La conseguenza fu un rapido e amaro addio di Brown che, ospite al Dan Patrick Show, si lamentò dell’entourage di Jordan: «Non hanno la minima idea, sono solo soldatini che dicono sempre di sì» dichiarò Brown, spiegando che quella gente gli aveva dato il voltastomaco, e che Jordan metteva delle «spie» a controllare gli allenatori.
Per rimpiazzare Brown, Jordan richiamò dalla pensione Paul Silas. Ma la squadra faticò fino ad affondare definitivamente in primavera. Fu allora che Jordan cominciò a indossare la divisa per assistere agli allenamenti e mettere alla prova i suoi giocatori. «Sa tutto sul gioco,» osservò Silas all’epoca «è sempre stato dentro, ha vinto campionati e sa cosa serve. È un tipo tosto, che rispetta i giocatori e li comprende. Allo stesso tempo è risoluto e vuole che tutti facciano il proprio dovere, in modo che sappiano rispondere alle provocazioni».
Il vecchio amico Rod Higgins, il massimo dirigente della squadra, prima dell’inizio della stagione aveva bisogno di un centro e prese in considerazione Kwame Brown, che era svincolato. Brown era stato un capitolo imbarazzante dell’avventura di Jordan a Washington; Higgins pensò quindi che era meglio avere il consenso del proprietario prima di ingaggiare Brown che, nei dieci anni passati nella lega, si era distinto come un buon centro di riserva, un giocatore forte in difesa e a rimbalzo.
«Se pensi che possa aiutarci a vincere, fallo firmare» rispose Jordan.
Così, ancora una volta, si trovò faccia a faccia con Brown durante gli allenamenti.
«Il nostro rapporto è sempre lo stesso» disse Brown quando gli chiesero di Jordan. «MJ è MJ. Non è mai stato quello che tutti credono che sia. Il nostro è un rapporto tra capo e giocatore. Tutto qui. Non è sempre tutto rosa e fiori, se non giochi bene. Ma come persona, MJ è eccezionale. È un grande proprietario per cui giocare e io sono venuto qui per lui».
Quando gli domandarono come se la cavasse l’ormai quarantottenne Jordan in allenamento, Brown replicò: «Sicuramente ci dà dentro. Adesso è un po’ più vecchio… ma riesce ancora a prendersi i suoi tiri. Sa farsi valere. Forse non a tutto campo, ma se giochiamo a metà campo è ancora forte».
E il suo famoso trash talk?
«È il suo tratto caratteristico» raccontò Brown, questa volta ridendo. «Voglio dire, è MJ. Rispondiamo agli insulti? Mai e poi mai. D’altronde, quale altra squadra ha un proprietario che si presenta agli allenamenti ed è in grado di giocare? Lui arriva in palestra e il livello di intensità, di agonismo, si alza. Sbraita e scherza. Fa bene a farsi vedere, perché con lui tutti vogliono dare il massimo… ed è meglio per te se davvero tiri fuori tutto quello che hai!» aggiunse, con un’altra risata.
Visto che i Bobcats arrancavano, Jordan continuò a essere bersagliato dalle critiche, come dirigente, benché avesse preso a bordo Rich Cho, uno dei migliori selezionatori di giovani di tutta la lega. Si trattava di una grandissima concessione per Jordan, secondo gli osservatori: per lui fidarsi di qualcuno non era mai stato facile, ma a quel punto era diventato indispensabile.
«C’è sicuramente del metodo nella sua pazzia» ha detto Jim Stack. «Michael è davvero molto, molto, molto brillante. Ed è scaltro ed esperto. Niente di quello che fa è improvvisato. Lui è un calcolatore, è sempre misurato. Credo che tutto sommato sia lungimirante, che abbia ben chiaro dove vuole arrivare, solo che a volte le cose non funzionano come dovrebbero. Ovviamente si impara strada facendo. E Michael è uno che impara in fretta. Se succede qualcosa, lui fa tutti gli aggiustamenti necessari. Il problema è che essere proprietario, e manager, non è un impiego part-time. Deve sempre stare sul pezzo, ma dato che si tratta anche dell’icona Michael Jordan, è difficile per lui essere lì ventiquattro ore al giorno, sette giorni alla settimana, come dovrebbe essere, per fare bene tutto quello che deve fare. Si è reso conto che la sua vita non è compatibile con questo ruolo, così ha acconsentito a fare un passo indietro, per non dovere essere sempre lui quello a cui spetta la decisione finale. La sua ostinazione giovanile forse gli suggerisce ancora di essere in grado di farcela da solo, e alla sua maniera. Ma è maturato e ha capito che non può essere costantemente in prima linea. In questo io ci vedo una grandissima maturità, come essere umano. Non avrebbe mai fatto una cosa del genere in passato, mai. La sua strategia, prima, era di andare avanti sempre più duramente, di andarci giù pesante e inventarsi un modo per riuscire a superare le difficoltà. Proprio come aveva fatto per battere Detroit, in quelle vecchie sfide, prima che sfondasse alla grande».
Ben presto, tuttavia, Jordan scoprì che le sue concessioni avevano portato più guai che altro. Insieme al suo staff assistette a una breve ripresa della squadra, nella primavera del 2011, prima di dare avvio a uno scambio rivoluzionario. Gerald Wallace, lo storico leader del gruppo, nonché giocatore da All-Star Game, fu ceduto a Portland in cambio di due scelte al draft e di un curioso assortimento di panchinari. Era un tentativo di ricostruire la squadra: perdere qualcosa per investire su giocatori più giovani, cioè sul futuro. Dopo queste mosse di mercato, però, i Bobcats infilarono una lunga striscia di sconfitte. Wallace, padre di famiglia e figura di primo piano nella comunità di Charlotte, in seguito dichiarò alla stampa di essersi sentito «tradito» da Jordan. È facile immaginare che molti altri, nello spogliatoio dei Bobcats, provassero sentimenti analoghi. Jordan comprendeva: da giocatore, a Chicago, aveva vissuto sulla propria pelle cosa significasse starsene seduto negli spogliatoi a sentirsi confuso e tradito dalla dirigenza dei Bulls, che aveva venduto i suoi migliori amici, oltre che gli elementi più competitivi del gruppo, per costruire la franchigia del futuro. Ora toccava a Jordan vestire i panni del cattivo. E nei giorni successivi allo scambio, il suo silenzio di tomba portò molti a concludere, a Charlotte, che fosse una persona insensibile, indifferente alla crudeltà dell’operazione. Effettivamente, tutta la vicenda fu sgradevole per Jordan. E qualche furbetto avrebbe potuto fargli notare che la cessione di Wallace era il genere di affare che poteva mettere in piedi uno col pelo sullo stomaco come Krause.
Per un periodo Jordan assunse il vecchio amico Charles Oakley come assistente allenatore dei Bobcats. «Michael è un bravo ragazzo» dichiarò Oakley una sera, dopo l’ennesima sconfitta. E aggiunse anche che gli attuali giocatori della Nba erano solo dei piagnucoloni viziati, che non sapevano cosa significasse rimboccarsi le maniche, darsi da fare, temprarsi e lavorare duramente. Jordan sorrise a qualcuno che gli stava vicino e scherzando buttò lì che se Oakley avesse potuto prendere dieci rimbalzi a partita, allora lui stesso poteva tornare a giocare e fare un sacco di soldi: «Se lui riesce a prenderne dieci, io ne prendo venti» disse Jordan, con la solita spacconeria.
Se solo fosse stato quello il problema. Jordan sapeva bene che per affermarsi una piccola squadra doveva risalire una strada lunga e tortuosa – un cammino difficile, in cui il rispetto si conquistava un passo alla volta.
Il giorno seguente era in piedi presto, e guidava i suoi giocatori in una serie di eventi pubblici a sostegno dello sport nelle scuole medie locali, progetto per cui aveva sborsato centinaia di migliaia di dollari, cercando di evitare che fosse tagliato.
Quell’estate, la Nba si trovò ad affrontare un altro sciopero, che per molti versi fu anche più rabbioso dei precedenti. Un tempo Jordan si era schierato dalla parte dei giocatori nella loro battaglia contro i proprietari. Ma adesso era il socio di maggioranza, con soci minoritari che erano stati colpiti duramente dalle perdite milionarie del club. Così si calò aggressivamente nella contesa, e dalla parte dei proprietari, come tutti si aspettavano. Aveva una responsabilità fiduciaria verso i propri soci, perciò doveva ottenere il migliore accordo possibile. Per il pubblico, però, lui era ancora Air Jordan, e fu tacciato di essere un traditore della causa. Ed era l’unico uomo di colore in mezzo alle tante, vecchie facce bianche dei proprietari della Nba.
Erano tempi cupi.
Lo scioperò si concluse in inverno, e per quanto fosse sembrato difficile il 2011, guardandolo dallo specchietto retrovisore sarebbe parso un’oasi lussureggiante, rispetto alla batosta che attendeva Jordan nel 2012. La giovane squadra di Charlotte, priva del suo storico e talentuoso leader in campo, andò incontro a un massacro senza precedenti, vivendo una stagione per la quale Jordan fu sbeffeggiato come il più grande perdente nella storia del basket.
IL PERDENTE
In quella stagione da incubo ci fu una sola nota positiva, la sera che Charlotte ospitò i Pistons. Jordan stava parlando con un giornalista quando scoprì che Joe Dumars, il massimo dirigente di Detroit, era venuto per assistere alla partita. «Joe è qui?» chiese Jordan, spalancando gli occhi. Poi si girò immediatamente e si diresse verso il corridoio che conduceva allo spogliatoio dei Pistons, da dove stava uscendo Dumars. Mise il braccio sulle spalle della sua vecchia nemesi, che a Detroit aveva grattacapi simili ai suoi, e i due se ne andarono abbracciati lungo il corridoio. Jordan voleva che conoscesse Yvette Prieto, la sua fidanzata, che sembrava aver riportato un po’ di serenità e allegria nella vita di quel deluso uomo di sport.
Con l’avvicinarsi del suo quarantanovesimo compleanno, in febbraio, la stampa, internet e le radio avevano cominciato a chiamarlo il peggior proprietario di sempre. Il destino beffardo volle che la squadra chiudesse la stagione con ventitré sconfitte consecutive. In molte occasioni, Jordan era sembrato un leone in gabbia, mentre osservava la squadra collassare. Terminarono la stagione, accorciata dallo sciopero, con una classifica di 7-59: una percentuale di vittorie pari al 10,6 percento, il record peggiore mai registrato in una stagione Nba. Il primato precedente apparteneva ai Philadelphia 76ers che nel 1973 avevano portato a casa nove vittorie su 82 gare, per una percentuale di vittorie dell’undici percento. Con Rich Cho al timone insieme a Jordan, il club si era sbarazzato delle stelle più costose e aveva optato per una rosa di titolari più giovani, con meno esperienza, che avrebbe garantito alla squadra una primissima scelta al draft.
Jordan insisteva sul fatto che lui e il suo staff avevano un progetto per il club e, anche se non avevano previsto di andare così male, avrebbero comunque continuato a seguire il loro piano. A fine stagione, d’accordo con l’allenatore, spostò Paul Silas nello staff dirigenziale. Quell’anno il premio nella lotteria del draft era Anthony Davis, la star della squadra di Kentucky, che aveva trascinato al titolo nazionale universitario. Ma nonostante Jordan avesse pagato il prezzo di una classifica terrificante, la fortuna lo abbandonò. New Orleans vinse la lotteria e il diritto alla prima scelta del draft. I Bobcats, scegliendo per secondi, presero Michael Kidd-Gilchrist, un’altra notevole giovane ala, sempre di Kentucky.
L’ultimo mandato di Jordan a Charlotte era stato caratterizzato da voci che dicevano che avesse deciso di arrendersi e vendere la squadra, illazioni che negò energicamente. Un’intera generazione di giocatori cresciuta con lui continuava a considerarlo l’esempio da seguire. Giocatori come Eddie Pinckney, Anthony Teachey e molti che avevano giocato con e contro di lui non abbandonarono la speranza che potesse ribaltare la situazione. Altri suggerivano invece in modo pacato che se non fosse riuscito a inventarsi qualcosa, avrebbe fatto meglio a vendere la squadra.
Prima di morire nel 2012, Lacy Banks ha espresso la propria delusione per come era andata la vita di Jordan dopo il basket. Banks ha citato la sua esperienza come cronista di Muhammad Ali per affermare che Jordan avrebbe dovuto cercare delle vie per restituire qualcosa all’umanità, magari provando a essere quel leone che Ali si era dimostrato. Molti altri hanno manifestato lo stesso desiderio, ognuno a modo suo. Sonny Vaccaro ha detto che era ora che Jordan trovasse qualcosa di grande in cui investire le proprie energie, al di là dell’edonismo; ha suggerito che avrebbe potuto trarre grandi benefici dal seguire l’esempio di sua madre.
Ma Jordan è troppo concentrato su sé stesso per fare una cosa del genere, secondo Jerry Krause: « È convinto che il mondo sia in debito con lui».
Forse il periodo a Charlotte è stato sottovalutato, come quello trascorso a Birmingham con i Barons. A seguito di un documentario dedicato all’avventura nel baseball, molti opinionisti hanno ammesso di non aver capito che cosa meravigliosa avesse fatto Jordan perseguendo l’obiettivo di diventare un giocatore di baseball senza mollare un istante. Allo stesso modo, il suo impegno con i Bobcats è stato vitale per la situazione economica della regione, che ha cominciato a dare segni di ripresa nonostante le frustrazioni e le sfide perse. Forse è questo che ha voluto sottolineare il presidente Barack Obama quando ha scelto la Time Warner Cable Arena di Charlotte come sede per il convegno nazionale dei democratici, accettando lì la nomina per il secondo mandato.
La disastrosa stagione 2012, in ogni caso, ha alimentato nuove voci di un abbandono di Jordan, a seguito delle grandi perdite finanziarie e della profonda delusione. Jordan si è affrettato a rispondere, affermando pubblicamente di aver investito a lungo termine nei Charlotte Bobcats, a prescindere dal tempo necessario per ricostruire una solida presenza Nba in quell’area geografica.
Nell’estate successiva, Jordan doveva scegliere il nuovo coach, e si diceva che stesse prendendo in considerazione il vecchio e tenace Jerry Sloan, ormai settantenne, oppure il giovane e brillante Brian Shaw, ex giocatore e assistente di Phil Jackson nei Lakers. Alla fine, invece, ha compiuto una mossa a sorpresa, optando per il semisconosciuto Mike Dunlap, un allenatore famoso soprattutto per la sua durissima preparazione atletica e i pesanti allenamenti. Era con il lavoro in palestra che Jordan aveva raggiunto i suoi traguardi da giocatore, e sempre grazie ai duri allenamenti sperava di emergere da proprietario.
Nell’autunno del 2012, la sua giovane squadra ha avuto un inizio sorprendente, vincendo in poche settimane più partite di quelle che la formazione dell’anno precedente aveva vinto in tutta la stagione. La poca esperienza, però, ha presentato ben presto il conto e Charlotte è incappata in una serie di diciotto sconfitte consecutive. Eppure la rosa ha continuato a giocare con un impegno e un’intensità tali che, in qualche modo, nonostante le sconfitte, la speranza è tornata a brillare in quei mesi massacranti. Nel bel mezzo di tutto questo, qualcuno tra gli osservatori più attenti ha notato come Jordan sembrasse ancora più felice di quando si era fidanzato con la Prieto. Le visite ai campi da golf diminuivano e lui sembrava più concentrato sui suoi compiti. I due fidanzati si sarebbero sposati nel 2013, sulla scia dei grandi festeggiamenti mediatici per i cinquant’anni di Jordan. Ma nonostante tutti i buoni sentimenti, i Bobcats sarebbero caduti di nuovo rovinosamente, in primavera. Così, a fine stagione, Jordan ha deciso di cambiare allenatore un’altra volta. Ha ingaggiato l’assistente dei Lakers, Steve Cliffords, e ha visto i Bobcats, che rimanevano una delle formazioni più giovani della lega, migliorare in modo sostanziale durante l’autunno. In estate ha comprato i diritti sul nome Hornets: i New Orleans sarebbero diventati i Pelicans e così, nella stagione 2014/2015, Jordan avrebbe finalmente riportato gli Hornets a Charlotte. Nel frattempo, lui avrebbe passato la maggior parte dell’anno a cercare di vendere la sua villa di cinquantaseimila metri quadrati a Highland Park, a nord di Chicago: prima per ventinove milioni di dollari sul mercato libero, poi all’asta con una base di diciotto milioni di dollari, prima di scendere a un prezzo decisamente più basso.
Verso la fine del 2013 si è saputo che la nuova signora Jordan era in dolce attesa. E nel febbraio del 2014, pochi giorni prima del cinquantunesimo compleanno di Michael, sono arrivate due gemelle omozigote, Victoria e Ysabel. La Espn e altre testate hanno scherzato dicendo che il padre avrebbe ricevuto «un nuovo paio di Jordan». Lentamente, ma con tenacia, l’ex campione ha dato un nuovo impulso alla sua vita. Ha cominciato ad allenarsi con più serietà per perdere chili, sempre inseguito dalle voci che prevedevano l’ennesimo ritorno in campo. Era una cosa a cui aveva sempre accennato: rimettersi a giocare dopo i cinquanta ed essere ancora competitivo. Più che altro era la prova del suo karma, che lo portava da una fantasia indelebile all’altra.
Se quello che Jordan aveva incontrato a Charlotte era un gioco di potere, allora si stava rivelando come chiunque altro; poteva vincere solo dopo aver percorso una strada lunga, difficile e piena di sofferenza. Nelle buie notti di Birmingham, Jordan si rivolgeva spesso al padre defunto; quindi non è difficile immaginare che nelle sue notti più nere, a Charlotte, Jordan si sia seduto da solo nell’oscurità, al centro del campo da basket, ripensando a tutto quello che aveva passato con James, raccontando al suo vecchio le sue aspettative deluse e i suoi imbarazzi.
Non è difficile nemmeno immaginare che in quelle notti Michael abbia accarezzato con la fantasia o, almeno, abbia visto nella sua mente il massimo che poteva augurarsi come proprietario: laggiù, lontano all’orizzonte, lo sfavillio di una grande stagione, una lunga corsa nei playoff, un altro titolo. Ed è lecito supporre che nella visione di Jordan tutta la sua famiglia sia lì, compreso Dawson Jordan, a braccetto con il suo amore Clementine. E Medward, con la cara vecchia signorina Bell. Tutti i Jordan, e i Peoples. Tutti lì. Deloris, Sis, Larry e Roz e tutti i loro cugini e parenti, raggianti nell’eccitazione che precede la partita.
E nel mezzo di quest’ultima fantasia, suona la sirena. È quasi il momento della palla a due, ma sugli spalti sono tutti agitati. Michael non si vede da nessuna parte.
È nel suo ufficio, nelle viscere del palazzetto, seduto a parlare con James, come ha fatto per tutta la vita. Gli occhi del figlio sono spalancati, e luccicanti, e poi iniziano a riempirsi di lacrime, finché la sagoma del suo vecchio non diventa sfocata. E si ritrova d’un tratto a fare la stessa domanda di sempre: «Cosa pensi di me ora, papà? E di tutto questo? Devo ancora tornare dentro, in casa?».
Si può solo immaginare la pausa di Jordan, in quel momento, mentre si rende conto di quello che i suoi amici più stretti e i suoi tanti tifosi hanno capito da tempo. Che la domanda ormai è superflua. Quella disputa estenuante, adesso, può essere accantonata una volta per sempre. La risposta è lì davanti a lui, davanti a tutti noi. E lui può vederla con nitidezza.