1. Holly Shelter

Il «Dio del basket», come lo avrebbero chiamato i tifosi in giro per il mondo, è nato perdendo sangue dal naso – a Brooklyn, fra tutti i posti possibili – in una fredda domenica di febbraio del 1963, con il vapore che filtrava tra le grate lungo i marciapiedi che correvano davanti ai dieci piani del Cumberland Hospital. Il guru del basket Howard Garfinkel si sarebbe in seguito divertito a osservare che anche i fratelli Albert e Bernard King erano nati nello stesso ospedale, una sorta di luogo magico per gli abitanti di una città che idolatra i suoi campioni sportivi.

Ma nonostante l’aura di Brooklyn abbia accolto i suoi primi vagiti, è stato altrove, molto tempo prima, che la straordinaria vita di Jordan ha conosciuto l’impulso originario, alla vigilia del Ventesimo secolo, quando nella Pianura costiera del North Carolina venne alla luce suo bisnonno.

A quei tempi la morte sembrava essere ovunque, laggiù. Col suo fiuto proverbiale, ogni mattina risaliva strisciando la corrente dei fiumi per coagularsi nell’aria salmastra. I gabbiani gridavano come spiriti del malaugurio in quelle piccole baraccopoli dove neppure la mera sopravvivenza era data per scontata. Ecco dove è iniziata la vita di Michael Jordan, in una baracca sulle rive di un fiume dalle acque limacciose che serpeggiava attraverso pinete e paludi, lì dove il whisky clandestino stillava lentamente e il mistero aleggiava sinistro come i ciuffi di muschio che pendevano dagli alberi.

Era l’estate del 1891, ventisei anni dopo la violenza e la confusione provocate dalla Guerra Civile. Il posto era un piccolo villaggio fluviale chiamato Holly Shelter – «il rifugio degli agrifogli» – , nella contea di Pender, circa cinquanta chilometri a nordest della città di Wilmington, che diventavano più di sessanta navigando su una zattera per il corso sinuoso del fiume Northeast Cape Fear, come capitava spesso agli antenati di Jordan. Il nome si deve ai soldati della Guerra di Indipendenza che sotto gli agrifogli trovarono riparo nelle fredde notti invernali. La savana era costeggiata da acquitrini che offrivano protezione anche ai tempi della schiavitù, ma a un’altra categoria di persone, i fuggiaschi. È probabile che una delle più vaste piantagioni della zona appartenesse a un predicatore bianco della Georgia di nome Jordan. Con l’emancipazione, molti schiavi liberati cominciarono a gravitare intorno a Holly Shelter. «Si stabilirono nelle paludi,» racconta Walter Bannerman, un lontano parente di Jordan «e Holly Shelter allora non era altro che una palude».

Molto presto, però, la miseria di quegli anni svuotò il nome di significato, perché era difficile trovare rifugio in un luogo del genere.

E questa è la prima cosa che imparò il nascituro.

Venne al mondo in un classico giorno di afa alla fine di giugno del 1891, subito dopo l’ennesima sfuriata di quelle tempeste costiere che minacciavano gli abitanti della zona fluviale. Tra le baracche i medici legali registravano un numero altissimo di bambini nati morti o di decessi infantili: così tanti che le famiglie aspettavano giorni, a volte settimane, prima di battezzare i neonati. Quel bimbo sembrava invece piuttosto vivace, come dimostravano le urla che svegliavano di soprassalto la madre – nello stesso modo in cui, molti anni dopo, la sua intensa voce da basso profondo avrebbe fatto scattare sull’attenti e rigare dritto un altrettanto vivace bisnipote di sei anni di nome Michael.

Era l’alba dell’èra Jim Crow e la politica della supremazia bianca si propagava in North Carolina con una veemenza tale da essere avvertita per decenni, anche quando le leggi Jim Crow erano ormai un ricordo del passato. E in quel mondo di ordinaria crudeltà, il bisnonno di Michael Jordan si trovò a vivere una vita di povertà opprimente, aggravata da un razzismo implacabile. Ma il compito più improbo era sfuggire alle grinfie della morte, che gli portò via i suoi cari, gli amici, i cugini, neonati, bambine e giovanotti robusti, senza distinzione, perché spesso tra le comunità costiere chi cadeva era nel fiore degli anni.

Ma di questo avrebbe fatto esperienza più avanti. Il giorno della sua nascita, invece, nel giugno del 1891, era la mamma, la ventunenne Charlotte Hand, a trovarsi in una situazione difficile, visto che non era sposata con il padre del bimbo, un certo Dick Jordan. Lo stesso concetto di matrimonio, in realtà, era estraneo al mondo delle baracche, perché il North Carolina aveva proibito a lungo il matrimonio tra schiavi – uno dei tanti diritti a loro negati. Le leggi dello Stato una volta erano particolarmente brutali al riguardo, arrivando per esempio a consentire ai proprietari di punire con la castrazione un giovane schiavo insubordinato.

In quell’ultimo, incerto decennio dell’Ottocento, la sola cosa su cui il giovane Dawson Hand poteva contare era l’amore di sua madre: figlio unico, per anni avrebbe provato per lei un affetto profondo, ricambiato dalla donna. Dopo la nascita del bambino, Charlotte aveva trovato ospitalità presso il proprio nucleo d’origine e crebbe suo figlio tra gli Hand, prima con la famiglia di un fratello e poi con quella di un altro. Fino ai vent’anni, il bambino figurò spesso nei documenti ufficiali con il nome di Dawson Hand. Ma nonostante madre e figlio fossero ben accetti dai parenti di Charlotte, non passò molto tempo prima che il ragazzo si rendesse conto di un evidente contrasto.

Gli Hand avevano la carnagione chiara, così chiara che molti potevano «passare» per bianchi o per indiani, mentre quella dei Jordan era nera come il cioccolato. Di un’intera generazione di fratelli e cugini Hand, solo uno aveva la pelle scura, come avrebbero ricordato anni dopo i suoi familiari. Gli Hand bianchi, nella contea di Pender, erano una famiglia importante: possedevano schiavi, e i loro discendenti neri citavano spesso il giorno in cui un bianco degli Hand aveva finalmente riconosciuto la verità sempre taciuta, che uno degli Hand di colore era suo fratello. Questo forse spiega perché a un certo punto, durante l’adolescenza, quel ragazzo avesse deciso di prendere il cognome del padre, diventando così anche sui documenti ufficiali Dawson Jordan.

Il giovane Dawson Jordan a prima vista aveva ben poco in comune con quello che sarebbe stato il suo statuario bisnipote: era basso – appena 1,65, secondo le testimonianze – e tozzo. Ed era anche zoppo, condannato a trascinarsi dietro una gamba malata per tutta la sua lunga vita.

In comune con il bisnipote aveva però una forza fisica tremenda e una resistenza straordinaria. Si dimostrò anche altrettanto coraggioso, compiendo alcune imprese che sarebbero state tramandate nel folklore della comunità. Ma soprattutto, pur dovendo affrontare nemici e avversità che le generazioni successive avrebbero stentato perfino a immaginare, Dawson Jordan non si piegò mai, né fu mai sconfitto.

Davanti a una esistenza così eccezionale, è facile lasciarsi sfuggire l’elemento che più di ogni altro avrebbe influenzato il carattere di Michael Jordan: il futuro re del basket trascorse gli anni della crescita in compagnia di quattro diverse generazioni di uomini Jordan – un dato notevole, considerati i fattori sociali e ambientali che minacciavano la sopravvivenza dei maschi afroamericani.

Il bisnonno «Dasson», come era spesso chiamato, incombeva come un’autorità sul giovane Michael Jordan. Tutta la famiglia visse insieme per una decina d’anni nella comunità rurale di Teachey, in North Carolina. Nell’epoca delle automobili e delle autostrade a quattro corsie, Dawson Jordan continuava a ripetere che il suo mezzo di trasporto preferito era il mulo, e lo agganciava con orgoglio al proprio carro. Anche in vecchiaia, continuava a fasciare di stracci le zampe del mulo e a mantenere l’asse del carro ben lubrificato, come se dovesse muoversi silenziosamente nel cuore della notte e contrabbandare liquore. Durante il giorno, i suoi bisnipoti amavano saltare su quel carro per andare a fare un giro in città, o si divertivano a scherzare con i maiali che il vecchio allevò fino alla sua morte, nel 1977, pochi giorni dopo il quattordicesimo compleanno di Michael.

I ragazzi della famiglia Jordan non capivano che il mulo e i maiali – che di fatto costituivano tutti i ricordi del loro bisnonno – rappresentavano i trofei di una vita vissuta bene perché, come avrebbe spiegato Michael in seguito, Dawson Jordan non era uno che parlava del passato o dell’importanza degli animali. Eppure anche un accenno casuale al bisnonno, molto tempo dopo, sarebbe stato in grado di velare di lacrime lo sguardo del suo famoso bisnipote.

«Era forte» diceva Jordan del vecchio. «Sì, lo era. Eccome».

IL FIUME

Ci si può fare un’idea per quanto vaga del mondo di Dawson Jordan fermandosi a respirare l’aria del mattino lungo il fiume Northeast Cape Fear, a Holly Shelter. Oggi il posto è più che altro una riserva naturale, ma la luce laggiù è rimasta la stessa, violenta e accecante per la maggior parte dei giorni, danzante quando si riflette sull’acqua, attenuata solo dai banchi di nebbia mattutina. Per provare sollievo bisogna spingersi all’interno, verso le foreste alluvionali e i ruscelli, fino alla solitudine che regna tra le ombre proiettate un tempo dai boschi maestosi e incontaminati di pini palustri.

È lì che Dawson Jordan passò la giovinezza, lavorando tra le pozze di catrame che si aprivano nella foresta, abbattendo quei magnifici alberi e legando i tronchi fra loro per formare enormi zattere da trasportare lungo il Northeast Cape Fear verso i cantieri navali di Wilmington.

Non era un lavoro per codardi.

Dawson Jordan raggiunse l’età adulta all’inizio del Ventesimo secolo, quando la vecchia vita sul fiume iniziava a scomparire, insieme agli ultimi pini di palude, e il trasporto merci si spostava sulle strade. L’antico corso d’acqua, le foreste fidate e i boschi sono gli elementi centrali della gioventù di Dawson: andava a caccia, sapeva pulire la selvaggina e prepararla a dovere. Anni dopo, diventato vecchio, l’associazione venatoria locale lo avrebbe chiamato a cucinare la sua gustosa cacciagione per i membri del circolo.

Dawson cominciò a lavorare a nove anni, quando convinse gli impiegati del censimento che ne aveva undici e quindi era grande abbastanza per dare una mano nei campi. Sapeva già leggere e scrivere, perché aveva studiato nell’unico stanzone della «scuola comune per gente di colore», dove l’anno scolastico durava quattro mesi e si interrompeva per permettere ai bambini di andare a lavorare nei campi o nelle vicine segherie. «I miei genitori mi raccontavano sempre quanto fosse duro tagliare i tronchi per ricavarne tegole, in segheria» ricorda Maurice Eugene Jordan, un lontano parente che faceva il fattore nella contea di Pender. All’interno della piccola scuola, gli studenti tagliavano la legna da ardere ed erano responsabili della propria stufa – un’usanza normale anche negli istituti meglio attrezzati riservati ai bambini bianchi.

Nei primi decenni del Ventesimo secolo l’elettricità ancora non era arrivata, l’acqua corrente e le fogne erano una rarità e di strade asfaltate ce n’erano ben poche. Non era quindi strano che mancasse un ceto medio: qualsiasi maschio, nero o bianco, passava i suoi giorni nel disperato tentativo di sopravvivere, lavorando in una fattoria come mezzadro, fittavolo o bracciante, al servizio dei pochi latifondisti.

Uno studio approfondito del 1922, condotto su un migliaio di famiglie da parte della Commissione per l’agricoltura del North Carolina, rilevò che i mezzadri dello Stato guadagnavano meno di trenta centesimi al giorno, a volte anche solo dieci centesimi, nonostante i lunghi orari di lavoro. La relazione della Commissione aggiungeva che la maggior parte dei mezzadri non riusciva a conservare per sé una parte del raccolto e quindi era spesso costretta a chiedere denaro in prestito per mangiare e saldare i conti. Circa quarantacinquemila famiglie senza terra vivevano in baracche sovraffollate di una o due stanze, senza tubature, e nient’altro che fogli di giornale per coprire le crepe e i buchi nei muri o sul soffitto. Solo un terzo delle case dei mezzadri aveva un gabinetto esterno.

Il documento sostiene che le scarse condizioni igieniche spiegano in gran parte l’alta percentuale di malattie e decessi infantili tra le famiglie contadine – va da sé che il tasso di mortalità dei neri era il doppio di quello dei bianchi.

Charlotte e Dawson riuscirono in qualche modo a cavarsela in queste difficili circostanze grazie all’aiuto degli Hand, che si guadagnavano da vivere con il trasporto del legname e probabilmente insegnarono al ragazzo come guidare una zattera. Le leggende di famiglia, come quelle dell’intera comunità, dicono che era diventato esperto fin da giovanissimo: non era facile costruire quelle lunghe, enormi zattere e poi condurle lungo quel fiume pieno di insidie, tra serpenti, tempeste improvvise e l’andirivieni delle maree. Ci voleva una forza fisica eccezionale per manovrare una catena di tre zattere attraverso le curve e le anse. Ma, nonostante i rischi, Dawson adorava il fiume, che a quei tempi era la via di commercio più battuta.

Il giovane Dawson lavorava insieme a suo cugino Galloway Jordan, anche lui zoppo. Maurice Eugene Jordan ricorda di aver sentito suo padre, Delmar Jordan, raccontare alcune storie sul vecchio Dawson: «Pare che fosse davvero bravo a far viaggiare quei tronchi. Anche Galloway aveva una gamba messa male, proprio come Dawson, ed erano molto amici».

Il Northeast Cape Fear cambiava con le maree, che costituivano una sfida ulteriore: «Bisognava stare attenti alle maree» spiega ancora Maurice. «Andavano su e giù, su e giù, seguendo i cicli della luna. Se l’acqua era abbastanza alta, partivano. Ma quando la marea calava, dovevano assicurare la zattera a un albero e aspettare che montasse di nuovo». E l’attesa poteva durare ore: «Avevano con loro pentole e cibo, così con la bassa marea legavano la zattera, si arrampicavano in cima a una collina e si cucinavano qualcosa da mangiare».

Era un lavoro pericoloso, da compiere al freddo, non a caso appannaggio fin dall’epoca coloniale di schiavi liberati, zatterieri e scapestrati disposti ad accettare la sfida. Chi lavorava sul fiume apparteneva al gradino più basso della scala sociale: erano pagati pochissimo, spesso appena qualche centesimo al giorno, più o meno quanto il più misero dei mezzadri. Eppure, Dawson Jordan sembrava gradire l’indipendenza che quel mestiere gli offriva. Nei censimenti del tempo figura come «lavoratore autonomo», piuttosto che impiegato presso qualcun altro. Inoltre, trasportare legname gli permetteva di spingersi fino allo scalo cittadino di Wilming-ton, con il suo porto brulicante di marinai provenienti da tutto il mondo, pieno di navi, bar e bordelli.

Possiamo immaginarci Dawson Jordan seduto sulla sua zattera in un punto calmo del fiume, durante una fredda notte di un secolo fa, mentre osserva il brillare delle stelle sopra di lui. C’è da scommettere che quelle notti all’addiaccio, sotto il firmamento, abbiano regalato al giovane Dawson gli unici istanti di fuga da un mondo altrimenti insopportabile. Forse era quello il massimo a cui il bisnonno di Michael Jordan potesse anelare.

Qualche decennio più tardi, il bisnipote avrebbe affermato che il campo da basket rappresentava per lui l’unico rifugio, il solo momento di pace della sua vita, una personale salvezza da una realtà più angosciante e frustrante di quanto chiunque tra i suoi milioni di tifosi e ammiratori avrebbe mai potuto immaginare. In modi molto diversi, le vite dei due Jordan avevano parecchie cose in comune, pur a un secolo di distanza l’una dall’altra – benché il posto che occupano nel mondo sia radicalmente diverso. In quei giorni brutali e incerti, Dawson Jordan avrebbe senz’altro gradito anche un piccolo assaggio della dolce vita dal suo bisnipote.

CLEMENTINE

Al contrario di Michael, conteso dalle donne più sofisticate e attraenti del pianeta, il basso e sciancato Dawson viveva da solo con la madre in una piccola comunità isolata, e rischiava la pelle passando giornate interminabili nei boschi o sul fiume. Iniziò a farsi un’idea di cosa fosse una relazione quando sua madre trovò finalmente l’amore con un mezzadro attempato, a Holly. Isac Keilon aveva vent’anni più di Charlotte ed era ben oltre i sessanta quando la sposò, nel maggio del 1913; la felicità della coppia deve aver portato Dawson a riflettere sul proprio futuro.

Poco dopo, nonostante le probabilità avverse, Dawson incontrò i favori di una ragazza di nome Clementine Burns. È probabile che la canzone Oh my darling, Clementine, diventata popolarissima nel 1884, avesse contribuito alla scelta del nome. Clementine era un anno più grande di Dawson e abitava con i genitori e i sette fratelli minori a Holly Shelter. Per certi aspetti, quindi, le sue prospettive dovevano essere limitate come quelle di Dawson. Il corteggiamento cominciò come tutti gli altri, a quel tempo: discorsi timidi che si facevano a mano a mano più disinvolti. Dawson si innamorò presto, un avvenimento mai superficiale per gli emotivi membri della stirpe dei Jordan.

Si sposarono alla fine di gennaio del 1914 e andarono a vivere insieme. Circa otto mesi dopo, Clemmer, come tutti chiamavano la ragazza, disse a Dawson di essere incinta, e nell’aprile del 1915, nella loro piccola baracca, diede alla luce un bimbo forte e sano che battezzarono William Edward Jordan. Ed è quasi certo che l’evento abbia procurato un’immensa gioia al novello padre.

Se solo la felicità fosse durata.

I primi segnali d’allarme arrivarono subito dopo il parto: sudori notturni e disfunzioni urinarie. Poi Clemmer cominciò a tossire sangue, ma i sintomi più evidenti furono i tubercoli stessi, le piccole masse rotonde, o noduli, che si attaccavano alle ossa e ai tendini.

«La tubercolosi era la malattia dei neri,» ricorda Maurice Eugene Jordan «e allora c’era poco da fare per combatterla».

La tubercolosi era molto contagiosa e si trasmetteva per via aerea e, sebbene il North Carolina fosse uno dei primi Stati del Sud ad aver aperto un sanatorio per neri nel 1899 grazie a finanziamenti privati, a disposizione c’erano solo una decina di letti dal costo esorbitante. L’unica alternativa per le famiglie era quella di montare nel cortile di casa una tenda bianca – o un’analoga struttura temporanea – che permettesse agli ammalati di passare gli ultimi giorni vicino ai propri cari, con la speranza che non diffondessero il morbo. L’agonia però poteva durare mesi o addirittura anni. Clemmer Jordan fu visitata da un dottore durante le prime fasi della malattia, ma morì lo stesso una mattina di aprile del 1916, poco dopo il primo compleanno di suo figlio.

A quei tempi non era insolito che un giovane vedovo abbandonasse la prole. Sarebbe stato facile per Dawson lasciare che la famiglia di Clemmer crescesse il bambino. Di sicuro Dawson aveva altre opzioni. Il porto di Wilmington offriva tante opportunità, per esempio quella di firmare come cuoco per una delle navi che attraccavano e salpavano. Ma la semplice verità che si desume dalle scelte che compì è il profondo attaccamento a sua madre – almeno pari all’amore per il figlioletto che muoveva allora i primi passi. È questo che raccontano le sue azioni. E la sua determinazione a formare una famiglia rappresentò il primo punto di forza nella futura storia di Michael Jordan.

Qualche mese dopo, Dawson ricevette un altro duro colpo, quando apprese che sua madre, vicina ai cinquanta, aveva i giorni contati a causa di una malattia renale. La morte bussava spesso alla porta sulla Pianura costiera, non di rado in anticipo, ma nella contea di Pender tra il 1917 e il 1918 la mortalità giunse addirittura a raddoppiare, a triplicare e a quadruplicare a causa della famigerata influenza spagnola. Dawson vide i membri della famiglia Hand, oltre ai suoi colleghi e ai loro cari, morire a un ritmo da record: in soli novanta giorni, tra il settembre e il novembre del 1917, l’epidemia uccise più di tredicimila abitanti del North Carolina.

Il peggioramento delle condizioni di Charlotte rese necessario il trasferimento dalla casa di Isac Keilon a quella di Dawson. Mentre sua madre si spegneva, e non poteva più occuparsi del nipotino, Dawson prese una ragazza a pensione, una giovane di nome Ethel Lane, che aveva una figlioletta e poteva badare sia ai bambini sia a Charlotte. Nel frattempo, Isac Keilon era morto all’improvviso. E solo tre mesi dopo il funerale, i problemi renali si portarono via anche la madre di Dawson.

Dawson seppellì Charlotte Hand Keilon vicino al fiume, su Bannerman’s Bridge Road, a Holly. Il ragazzo che aveva sempre desiderato una famiglia era rimasto solo – eccetto per quel bimbo indaffarato che giocava ai suoi piedi. Padre e figlio avrebbero trascorso il resto della vita insieme, abitando e lavorando in una angusta baracca dopo l’altra, nelle stesse piccole comunità costiere, unendo le loro risorse per superare la miseria.

Le notizie a disposizione dicono che nessuno dei due ottenne grandi risultati nel corso della propria esistenza, ma il tempo avrebbe rivelato che in realtà riuscirono a trasmettere un bene molto prezioso alla generazione successiva. Nonostante un’altra eredità si aggirasse tra le nebbie di Cape Fear – qualcosa di insidioso, perfino di surreale.