2. Le violenze di Wilmington

Il sentiero che riporta al passato Michael Jordan lo ha percorso molto spesso, inoltrandosi per le stradine di campagna e tra i semplici ricordi della costa di Cape Fear. Guidando in direzione Est lungo la Interstate 40, fuori da Chapel Hill, l’altopiano del Piedmont cede il passo alla zona della Pianura costiera, con i suoi vasti campi fertili orlati da una monotona alternanza di pinete e fienili di tabacco marcescenti. Ben presto ci si imbatte nelle indicazioni per Teachey, poi per Wallace, Burgaw e Holly, le comunità agricole dove il brand Jordan iniziò a mettere radici molti anni fa.

Oggi il sistema delle autostrade interstatali nasconde gran parte dell’inquietante eredità di Cape Fear, con chilometri di pavimentazione liscia, stazioni di rifornimento e catene di ristoranti che conservano non più di un pallido legame con il passato culturale della Carolina, ovvero una sporadica e isolata griglia per il barbecue. Sembra che da nessuna parte, oggi, sia possibile trovare una traccia del movimento per la supremazia bianca del Partito democratico, che era invece ovunque durante la giovinezza di Dawson Jordan – e le antiche ferite che aveva prodotto, legate a eventi remoti della vecchia Wilmington, sarebbero riemerse in modo strano e beffardo nella vita di Michael Jordan.

Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, subito dopo la Ricostruzione, i democratici del Sud avevano ristabilito il controllo politico bianco su gran parte del North Carolina, ma Wilmington e la Pianura costiera facevano storia a sé, soprattutto grazie agli oltre centoventimila maschi neri registrati nelle liste elettorali. La città era vicina a trasformarsi in una realtà simile a Atlanta, con un’alta società nera emergente, due giornali neri, un sindaco di colore, un corpo di polizia integrato e un’ampia gamma di imprese gestite da neri. A Wilmington la risposta dei democratici fu di fomentare la ribellione con l’insurrezione razziale dell’11 novembre 1898, nella quale i bianchi – sobillati dalla retorica politica del partito – diedero alle fiamme la sede di un giornale nero che aveva osato sfidare i democratici.

Poche ore dopo, alcuni gruppi di bianchi armati – chiamati «Red Shirts», camicie rosse – invasero le strade e cominciarono a sparare. L’obitorio locale avrebbe registrato quattordici cadaveri, di cui tredici neri. Ma molti sostengono che il bilancio fu di almeno novanta vittime: mentre la violenza deflagrava, le famiglie di colore erano fuggite terrorizzate verso le vicine paludi, dove pare siano state raggiunte e giustiziate dalle Red Shirts, anche se i cadaveri non furono mai ritrovati.

La seconda fase di questa rivolta studiata a tavolino si aprì il giorno successivo, quando i bianchi scortarono influenti personalità di colore – preti, uomini d’affari, politici – alla locale stazione ferroviaria e li bandirono per sempre dalla città.

Il clamoroso successo dell’operazione avrebbe salvaguardato per decenni la dottrina della supremazia bianca. Charles Aycock, eletto governatore nel 1900, stabilì un programma legislativo che completava il violento messaggio dell’insurrezione: «Non ci sarà progresso nel Sud per nessuna delle due razze finché i negri non saranno eliminati permanentemente da ogni processo politico» dichiarò Aycock. La spina dorsale del piano consisteva nel limitare la registrazione al voto introducendo un test di alfabetizzazione: in questo modo il numero di elettori maschi neri nel North Carolina precipitò da centoventimila a meno di seimila unità.

Ingiustizie e violenze simili potevano contare sul tacito supporto delle forze dell’ordine locali e statali, e sulle gravi intimidazioni compiute da altre organizzazioni. Ancora negli anni Quaranta e Cinquanta in tutta la contea di Duplin, dove viveva la famiglia Jordan, figuravano solo due votanti neri registrati, secondo la testimonianza di Raphael Carlton, uno dei due neri in questione.

Figlio di un mezzadro, da giovane Carlton lavorava come garzone nella contea di Duplin – quando c’erano anche i Jordan –, ma suo padre insisteva perché trovasse il tempo per studiare. Negli anni Quaranta Carlton frequentò e si laureò nella vicina Shaw University, per poi tornare a casa come uno dei tanti insegnanti neri animati da buoni propositi della sua generazione. Carlton ricorda una riunione di professori neri durante uno dei momenti peggiori della segregazione. Il sovraintendente bianco del sistema scolastico locale si alzò e disse agli insegnanti di colore: «Voi negri fareste meglio a organizzarvi».

«La gente oggi non capisce quanto eravamo impauriti a quei tempi,» racconta Carlton «ma l’intimidazione era totale. Nessuno osava sfidarli».

CAMBIARE MENTALITÀ

Nel 1937 John McLendon fu assunto come allenatore di basket al North Carolina College for Negroes (che sarebbe poi diventato la North Carolina Central University) e rimase molto sorpreso dall’atteggiamento rinunciatario dei suoi giocatori. «La mia più grande sfida come allenatore» raccontava McLendon «era riuscire a convincerli di non essere atleti inferiori. Nemmeno la popolazione nera ci credeva, non lo sapevano. Gli avevano fatto il lavaggio del cervello».

La presenza di McLendon in North Carolina fornisce l’anello di congiunzione con un altro elemento fondamentale nella vita di Michael Jordan, palesatosi ancora una volta nel 1891. Appena cinque mesi dopo la nascita del bisnonno di Jordan, James Naismith inchiodò un cestino da pesche in un ginnasio di Springfield, Massachusetts, inaugurando così l’èra del basket. Alcuni anni dopo, Naismith si trasferì alla University of Kansas per insegnare educazione fisica e si trovò a gestire la squadra dell’università, prima di passare l’incarico a Phog Allen, l’uomo che sarebbe stato considerato il «padre» di tutti gli allenatori di basket.

John McLendon arrivò in Kansas all’inizio degli anni Trenta, era uno dei primi studenti neri dell’università, ma Allen gli proibì di giocare con la squadra di basket e di nuotare nella piscina del campus. Avrebbe potuto andargli anche peggio, se lo stesso Naismith non lo avesse scelto per assegnargli l’incarico di allenare la squadra di una scuola superiore locale, pur continuando a studiare alla Kansas. Quando McLendon si laureò nel 1936, Naismith lo aiutò a ottenere una borsa di studio per un master alla University of Iowa. Completato il corso in un anno, McLendon fu assunto come coach nel piccolo North Carolina College, dove mise a punto il suo primo programma di educazione fisica che formò diverse generazioni di insegnanti e allenatori neri del North Carolina. È da lì che sarebbe uscito Clifton «Pop» Herring, il futuro coach di Jordan alle superiori.

Le prime squadre universitarie nere avevano a disposizione budget molto ridotti e si muovevano nel pericoloso clima della segregazione. Riportarono anche alcuni successi, nonostante il razzismo rendesse le trasferte quasi impossibili, perché non potevano utilizzare bagni pubblici, fontanelle, ristoranti o alberghi. «Organizzare un semplice viaggio da una scuola a un’altra era come pianificare l’attraversamento di un campo minato» diceva McLendon.

Negli anni successivi, McLendon riuscì a mettere insieme delle squadre così forti che un giorno lo staff della vicina Duke University invitò il giovane allenatore a sedersi sulla panchina dei Blue Devils durante una partita. Come unica condizione, pretesero che McLendon indossasse una giacca bianca, in modo che il pubblico pensasse che fosse un domestico o un cameriere.

McLendon, con cortesia, declinò l’invito.

Il coach aveva giurato che non avrebbe mai messo né la propria persona né i suoi giocatori nella posizione di poter essere umiliati o denigrati. «Per evitare» diceva «che la tua dignità fosse calpestata proprio davanti alla tua squadra». Esigere il rispetto per i suoi giocatori era necessario per convincerli che erano, in tutto e per tutto, all’altezza dei bianchi.

La svolta arrivò durante la Seconda guerra mondiale, quando le forze armate si servivano della facoltà di Medicina della Duke University per formare i medici militari, molti dei quali erano anche eccellenti giocatori di basket. I giornali di Durham strombazzavano senza ritegno le vittorie dei cestisti bianchi della scuola di medicina, mentre i ragazzi di McLendon, pur imbattuti, non ricevevano alcuna pubblicità. Scocciato da questa disparità di trattamento, Alex Rivera – il team manager di McLendon – organizzò un incontro tra le due formazioni. Con il Ku Klux Klan che vigilava per impedire la mescolanza tra le razze, il coach di Duke accettò di disputare una «partita segreta», la domenica mattina, senza tifosi né giornalisti presenti. A metà gara il pressing a tutto campo della squadra di McLendon aveva prodotto il doppio dei punti rispetto ai più illustri rivali. A quel punto i giocatori bianchi si avvicinarono alla panchina di McLendon e chiesero di mischiare le formazioni, schierando insieme bianchi e neri, prima di cominciare il secondo tempo.

Quella fu la prima grande vittoria ai danni del razzismo ottenuta da McLendon, che riuscì finalmente a fare aprire gli occhi ai suoi giocatori. Anche a distanza di tempo, l’influenza di McLendon continuava a essere percepibile in North Carolina, per l’importanza del basket tra le comunità nere dello Stato e, in modo ancora più marcato, nelle università. In virtù del suo approccio innovativo come coach, McLendon fu invitato dalla Converse a condurre dei seminari, e fu proprio durante una lezione con McLendon che un giovane assistente allenatore della Air Force Academy di nome Dean Smith vide il primo schema di quello che sarebbe diventato il suo famoso attacco «a quattro angoli», come ha confermato lo stesso Smith in un’intervista del 1991.

McLendon e il suo amico «Big House» Gaines della Winston-Salem State University erano considerati dei leoni nel mondo degli allenatori di basket, ma a quei tempi nessuno dei due avrebbe potuto neanche lontanamente immaginare che il loro sport avrebbe contribuito ad abbattere le barriere razziali dello Stato. Né che – nel breve volgere delle loro vite – avrebbero visto sia i neri sia i bianchi del North Carolina osannare un giocatore nero con l’entusiasmo riservato a Michael Jordan.

E nessuno dei due coach si sarebbe mai sognato di entrare, un giorno, nella Hall of Fame del basket americano intitolata a James Naismith.

IL GRANTURCO

In tutta la sua vita, Dawson Jordan non ebbe mai occasione di assaporare uno di quei bei momenti che avrebbero segnato l’esperienza del bisnipote. Quando compì ventotto anni, non solo aveva già sofferto lutti di ogni tipo, ma era stato obbligato a cambiare lavoro a causa dell’avvento del trasporto su gomma e della conseguente scomparsa della fluitazione del legname. Pur continuando a sfacchinare nelle segherie locali, Dawson Jordan, come la maggior parte della popolazione del Sud, si unì alla schiera dei mezzadri, che rappresentavano lo strato più basso nella scala sociale del tempo.

L’elemento cruciale per tirare avanti su una terra in affitto era il mulo. Proprio per questo, come ha spiegato il cugino William Henry Jordan, l’animale conferiva uno status: «Quando ero bambino un mulo costava più di una macchina, perché con un mulo ti guadagnavi da vivere».

Mentre i contadini delle generazioni successive avrebbero acquistato gli attrezzi agricoli, i fittavoli e i mezzadri compravano e noleggiavano i muli dai commercianti locali. «Potevi avere un mulo dal [venditore di muli],» ricorda Maurice Eugene Jordan «ma se ti capitava un’annata cattiva, quello veniva a riprendersi l’animale. L’uomo che ti aveva fornito le sementi e il fertilizzante avrebbe fatto lo stesso. Se incappavi in una brutta stagione e finivi nei guai, ci volevano uno o due anni per venirne fuori».

«Non avevi scelta,» spiega William Henry Jordan «non avevi nient’altro».

Per uomini come Dawson Jordan e suo figlio non c’era via di fuga da questa condizione, anche se in un modo o nell’altro riuscirono sempre a cavarsela e a riempirsi lo stomaco. A volte lavoravano la mattina presto, mungendo le mucche in una fattoria dei paraggi e portandole poi al pascolo. Nei momenti più duri, capitava che un agricoltore retrocedesse da fittavolo – che gestiva in proprio la terra altrui – a mezzadro, come spiega William Henry Jordan: «In quel caso tu mettevi le braccia e i proprietari terrieri mettevano il mulo, le sementi e il fertilizzante. Alla fine della stagione, prendevi da un terzo alla metà di quello che rimaneva. Ma spesso non rimaneva niente».

Questa è la ragione per cui molti contadini cercavano fonti di guadagno alternative e il contrabbando inizò a giocare un ruolo decisivo. Gli agricoltori della Pianura costiera – sia neri sia bianchi – producevano il proprio distillato di granturco fin dall’epoca coloniale. Molti di loro non potevano permettersi di comprarlo, perciò se lo facevano in casa. «Da sempre, il whisky di granturco era tutto quello che avevano,» spiega Maurice Eugene Jordan «e quindi il contrabbando fioriva. C’erano distillerie ovunque, sul fiume, nei boschi, nelle paludi, ovunque ci fosse l’acqua buona».

Benché sia improbabile che Dawson Jordan abbia deciso di proposito di diventare un distillatore clandestino, finì ben presto per guadagnarsi una certa reputazione nell’àmbito dei traffici illegali della contea di Pender. Forse entrò nel giro quando trasportava i tronchi lungo il fiume: «Magari quelle zattere erano piene di whisky,» racconta Maurice Jordan con una risata allusiva «chi può sapere cosa nascondessero».

È possibile che il whisky di granturco riuscisse a rinfrancare in parte quella gente da una vita di stenti. Sicuramente rallegrava l’atmosfera durante le lunghe notti, spingendo anche i più cauti verso il gioco d’azzardo. Gli strenui lavoratori della contea di Pender giocavano ai dadi per pochi centesimi, niente al confronto delle somme enormi che Michael avrebbe guadagnato decenni dopo.

«Nessuno aveva niente da scommettere,» afferma Maurice Eugene Jordan «non è che puntassero davvero qualcosa, tiravano solo i dadi».

Ecco il carattere dei Jordan: lavorare sodo e trovare il modo per rilassarsi un po’. Anche da questo punto di vista, Dawson Jordan fu il capofila tra gli uomini della famiglia Jordan. Sapeva come farsi tentare dal diavolo, per provare l’ebbrezza del divertimento. Beveva e fumava con moderazione, e forse si concedeva anche un po’ di movimento nelle interminabili notti della Carolina.

UNA NUOVA GENERAZIONE

Negli anni Trenta, appena raggiunta l’età adulta, il figlio di Dawson, William Edward, fu soprannominato «Medward». Trovò lavoro come autista per un’impresa di giardinaggio. Pur continuando ad aiutare il padre nella fattoria, il suo modesto salario gli consentì di affrancarsi dalle alterne fortune della vita da mezzadro. Guidare il piccolo camion autoribaltabile, trasportando i materiali nella zona, elevò lo status di Medward e gli fornì l’opportunità di incontrare persone nuove, un cambiamento ragguardevole rispetto all’esistenza isolata di un agricoltore. Secondo i racconti della famiglia, Medward era anche un noto dongiovanni.

Poco prima dei vent’anni, si fidanzò con una graziosa ragazza di nome Rosabell Hand, lontana parente dal lato materno della famiglia. Rosabell diventò sua moglie nel 1935 e due estati più tardi gli diede un figlio – il padre di Michael. Lo chiamarono James Raymond Jordan.

La coppia visse per decenni insieme a Dawson Jordan, senza mai ribellarsi alla sua tirannica presenza, componendo un nucleo familiare affollato che avrebbe in seguito accolto anche il piccolo Michael e i suoi fratelli. Rosabell era tanto dolce e tranquilla quanto suo suocero era chiassoso. Avvicinandosi ai cinquanta, Dawson cominciò a camminare sempre più spesso col bastone, ma era sua la parola che dettava legge nella comunità familiare.

Come per la maggior parte degli agricoltori, le difficoltà finanziarie rimasero una costante nella vita dei Jordan, che tuttavia – come ricordano in molti – riuscirono sempre a evitare di farsi sopraffare dalle avversità. Forse perché Dawson aveva dovuto imparare presto che al mondo c’è di peggio che la mancanza di soldi necessari a saldare i conti. Quando i problemi economici diventarono troppo pressanti, Dawson si decise a compiere il passo che altri fittavoli e mezzadri avevano fatto prima di lui: preparò le valigie, legò il mulo al carro e traslocò.

Ma non è che dovesse andare molto lontano per ripartire da capo. Dawson, suo figlio, la nuora incinta e il loro bimbo si sistemarono nella comunità agricola di Teachey, a soli quaranta chilometri da Holly Shelter. Poco dopo il trasloco, Rosabell partorì il secondo figlio, Gene.

In tutto, Rosabell Hand Jordan diede a Medward quattro figli, i quali a loro volta misero al mondo una dozzina di nipotini, che popolavano in pianta stabile la loro modesta abitazione. Col tempo, grazie al lavoro di Medward, i Jordan riuscirono a risparmiare abbastanza per comprare una casetta a buon mercato a Calico Bay Road, appena fuori Teachey. Solo tre camere da letto e un gabinetto esterno, ma per Dawson e la sua famiglia rappresentava una sorta di castello. Per il piccolo Michael quello sarebbe stato il centro del mondo.

Di lì a poco, i Jordan acquistarono altri lotti lungo la stessa strada, dal momento che continuavano a prosperare grazie al lavoro di Medward e al contrabbando di Dawson, mentre l’intera area sbocciava trasformandosi in una piccola comunità residenziale. Si può apprezzare il valore affettivo di quella prima casa se si considera che anche decenni dopo, nonostante le ricchezze accumulate da Michael, i Jordan decisero di affittarla ma di rimanerne i proprietari.

Insieme alla prosperità, l’elemento nuovo nelle vite di Dawson e del figlio era la presenza di Rosabell Jordan, una ragazza molto religiosa che amava tutti i suoi figli e nipoti – e perfino i figli che il marito ebbe da relazioni extraconiugali con donne del vicinato. La «signora Bell», come era spesso chiamata, sembrava però orgogliosa in particolare del suo primo figlio. C’era proprio qualcosa di diverso in James Raymond Jordan. Aveva una luce e un’energia speciali. Per cominciare, era molto sveglio. All’età di dieci anni guidava già il trattore per aiutare suo padre nei campi, e gli mostrava come ripararlo quando si fermava. Diventato un giovanotto, impressionò l’intera comunità con le sue doti di meccanico. Pare che Medward fosse apertamente critico nei confronti di James, mentre il ragazzo idolatrava nonno Dawson. Una delle caratteristiche di James era l’intensa capacità di concentrazione, rivelata dalla lingua che spuntava dalla bocca quando era assorto in un compito preciso. Secondo alcuni membri della famiglia, tirare fuori la lingua era un gesto che James aveva ereditato da Dawson.

Mentre si avviava a diventare adolescente, lavorando a stretto contatto con il padre e il nonno, James imparò a muoversi con facilità sia a Holly, dove era nato, sia a Teachey, dove era cresciuto. «Era piuttosto tranquillo» ricorda Maurice Eugene Jordan, che frequentò la Charity High School di Rose Hill insieme a James. «Se non ti conosceva, rimaneva sulle sue». Al contrario, se James era in confidenza con qualcuno riusciva a essere molto affascinante, specialmente con le ragazze, proprio come suo padre Medward. Come molti coetanei James amava il baseball e i motori, ed era era bravo davvero su entrambi i fronti – il che significava disporre spesso di un mezzo di trasporto, che negli anni Cinquanta conferiva all’adolescente James Jordan uno status particolare. Aveva anche una certa propensione al divertimento, e sapeva dove trovarlo nelle notti in cui la luna piena splendeva sopra la Pianura costiera. In quelle zone, di solito, i neri si tenevano alla larga dai bianchi, ma questo non valeva per Dawson e per suo nipote James.

Gli anni Cinquanta erano ancora tempi difficili per gli afro-americani. In molti avevano servito il paese durante la Seconda guerra mondiale, e in cambio avevano visto migliorare l’atteggiamento dell’America nei loro confronti. Ma le vecchie abitudini dominavano ancora la società del North Carolina, come di lì a poco avrebbe dimostrato la lotta per i diritti civili. Dick Neher, un giovane marine bianco dell’Indiana, sposò una ragazza del posto e si stabilì a Wilmington nel 1954. Neher amava il baseball, come gli abitanti della vicina cittadina di Wallace, dove a volte Neher portava qualche conoscente di colore per una partitella. È probabile che a Wallace Neher abbia giocato anche contro James Jordan. In ogni caso non giocò a lungo: una sera tornando a casa trovò un pick-up parcheggiato davanti all’entrata. Alcuni membri del Ku Klux Klan lo aspettavano per lamentarsi del fatto che girasse in macchina con gente di colore e organizzasse partite di baseball miste. All’inizio Neher ignorò la minaccia, finché i membri del Klan non tornarono a fargli visita. E gli dissero che quello sarebbe stato l’ultimo avvertimento. Così Neher smise di andare a Wallace a giocare a baseball. Rimase a Wilmington, però, e anni più tardi divenne l’allenatore di baseball di un ragazzino di nome Michael Jordan.

In un’atmosfera del genere, Dawson e i suoi figli erano troppo provati dalla vita di tutti i giorni per guardare con fiducia al futuro. Ciononostante, la famiglia e i vicini di casa vedevano in James Jordan il rappresentante di una nuova generazione, capace forse di lasciarsi alle spalle il vecchio mondo per raggiungere traguardi nuovi e più ambiziosi.

Ancora nessuno poteva sapere, all’inizio degli anni Cinquanta, in che modo le novità si sarebbero manifestate, né che speranze e dolori avrebbero finito stranamente per mescolarsi. È logico supporre che se i Jordan avessero potuto immaginare gli eventi imprevedibili che il futuro aveva in serbo per loro, vi sarebbero corsi incontro. Ma è anche possibile – come ha affermato in seguito qualcuno della famiglia – che sarebbero scappati a gambe levate.