LA mia gioventù, all’inizio degli anni Settanta, fu per me un’epoca d’oro. Vivevo in un grande appartamento a Milano, eravamo quattro fratelli maschi, di cui due gemelli – io ed Enrico. Il mondo allora era molto più lento. Quando tornavo a casa, trovavo i messaggi segnati sull’agenda a lato dell’unico telefono con i nomi di chi mi aveva cercato. Il passo tranquillo delle comunicazioni dava la possibilità di vivere i momenti e le emozioni in modo più profondo. Si poteva pensare e ripensare prima di parlare di nuovo con una persona. Nella cassetta della posta giungevano lettere che avevano impiegato anche una settimana per arrivare da Roma a Milano. La musica e le letture arrestavano definitivamente lo scorrere del tempo. A quattordici anni facevo collezione di LP rock. Era una fase entusiasmante per quel tipo di musica, ogni anno uscivano capolavori di grandi gruppi e ogni nuovo disco era un evento. Recarsi al negozio e acquistarlo – ricordo perfettamente che costava 3.200 lire – per poi correre a perdifiato a casa e metterlo sul piatto dell’impianto stereo di mio padre perché si sentiva meglio era pura felicità.
A quindici anni ebbi la prima esperienza diretta del mistero della vita. Una sera di primavera stavo attraversando in moto il centro di Milano insieme a un mio compagno di scuola. Chiacchierando e scherzando, eravamo arrivati alla fine di via Torino in direzione delle Colonne di San Lorenzo. La strada era interrotta per lavori ai binari del tram, ma non me ne accorsi: non c’erano transenne a bloccare l’accesso ma solo alcuni cartelli che né io né il mio amico avevamo visto a causa dell’oscurità. La moto scivolò sullo sterrato tra i binari, noi fummo sbalzati in aria e dopo un bel volo rovinammo a terra. Malgrado ciò mi accorsi subito di non avere nessun trauma o dolore. Fu una sensazione strana, come se fossi stato adagiato sul terreno. Lo stesso fu per il mio compagno. Nonostante la velocità e la mancata frenata entrambi rimanemmo del tutto illesi. Alcuni passanti, che avevano assistito alla scena, mi costrinsero a rimanere sdraiato per precauzione fino all’arrivo dell’ambulanza. Io insistevo nel dire che mi sentivo bene, ma non ci fu nulla da fare, dovetti rimanere steso tra i binari. Venni poi imbragato dai barellieri e trasportato all’ospedale per accertamenti. I miei genitori erano fuori a cena e, come spesso accade, il passaparola stravolse la notizia. Ero stato semplicemente sottoposto a controlli di routine, ma a loro giunse voce che ero paralizzato con la schiena rotta. Quando arrivarono all’ospedale gli esami erano finiti, e mi trovarono in piedi in corridoio a scherzare con il mio amico. Ci mancò poco che, per lo choc di vedermi sano e salvo, ricoverassero loro al posto mio.
Oggi, dopo tanto tempo, ripensando a quel volo in moto sono convinto che mani invisibili mi adagiarono sul terreno come se fossi stato una piuma. Allora non ne ero consapevole, ma la linea della mia vita era già tracciata e avevo un Destino da affrontare.
A diciotto anni abbandonai gli studi (in seguito presi la maturità da privatista) e partii all’avventura nei villaggi turistici. Mi sembrava di vivere un sogno: avevo trovato la mia identità e il mio ruolo. Feci una carriera molto rapida e a ventiquattro anni ero già stato nominato direttore. L’attività alberghiera e il coordinamento dei servizi erano un duro lavoro di responsabilità, al quale si affiancava l’ideazione di spettacoli di grande successo che facevano leva sul romanticismo e sull’emotività. Mi accorsi di avere una doppia indole: da un lato ero portato all’organizzazione e alla gestione dei problemi, dall’altro c’era in me una natura artistica e creativa. Solo in seguito scoprii che queste due componenti, una maschile e l’altra femminile, convivono in tutti noi e si compensano a vicenda: una forma di equilibrio necessaria a ogni essere umano, di cui raramente siamo consapevoli.
Durante un incontro di formazione proposto dall’azienda per cui lavoravo, la psicologa responsabile del corso, la dottoressa Maria Rita Parsi, mi chiese di fare un disegno che mi rappresentasse. Tracciai uno schizzo dove ero in volo sopra il trampolino di una piscina. Lei lo osservò per un po’ e disse: «Sei propenso a staccarti dalle cose materiali e a proiettarti verso l’impossibile e ciò che non è afferrabile. I problemi di tutti i giorni non ti toccano, è come se tu vivessi in un’altra dimensione». Rimasi a guardarla stupito. Oggi, ripensando a quella descrizione, la trovo assolutamente veritiera. Ho sempre affrontato le preoccupazioni quotidiane, piccole e grandi, con un certo distacco o, se vogliamo, leggerezza. Per questo sono stato anche molto criticato, ma alla fine cos’era più importante? La critica o la capacità di non lasciarsi coinvolgere da drammi o da problemi materiali? Vivo la vita senza angosciarmi, con una sorta di filtro, come se fossi il protagonista di un film.
Perché racconto questi aneddoti personali? Perché per ognuno di noi arriva un momento – e spesso più di uno – in cui l’esistenza sembra prendere una piega nuova e inaspettata. Qualcosa si illumina e ci lascia in silenzio, stupiti, come se avessimo di fronte una verità evidente e non riuscissimo ad afferrarla. Ha la durata di un attimo, poi la sensazione scompare e veniamo risucchiati dalla quotidianità. Quando meno ce lo aspettiamo, a volte dopo anni, i vecchi episodi riaffiorano e vanno a incastrarsi alla perfezione con il nostro presente, come i pezzi di un puzzle. Guardandoci indietro finalmente capiamo qual era il loro senso, cosa volevano dirci e quale direzione hanno impresso alla nostra vita. È capitato a me come a tutti voi, e solo il tempo mi ha permesso di comprendere, almeno in parte, il significato di quanto mi era accaduto, e perché proprio a me.
Mia madre perse sua mamma a trent’anni a causa di un incidente stradale. Io ho perso la mia a trent’anni per un brutto male. Quando morirono, mia madre e mia nonna avevano più o meno la stessa età. In quei lontani anni di gioventù ricordo la mia mamma nel guardaroba di casa che stirava in un profondo senso di solitudine. Accanto a lei, sopra una sedia, teneva un piccolo registratore portatile con inserita una cassetta che girava senza emettere alcun suono. Stava registrando il silenzio. Una volta finito un lato, riavvolgeva il nastro e ascoltava con molta concentrazione. Era convinta che su quel nastro lo spirito della nonna le avrebbe lasciato qualche parola. Lo fece per anni e anni. Fu il mio primo incontro con il fascino e il mistero dell’altra dimensione. Non mi disse mai se avesse captato un segnale da quelle registrazioni insolite. Io sono sicuro di sì.
Alla fine dell’estate del 1991 mia madre si ammalò e dopo un mese e mezzo scomparve. La mia capacità di elaborare il dolore era quasi nulla, per moltissimo tempo non riuscii neanche a esporre una sua foto in casa. Solo alcuni anni dopo mio fratello mi raccontò un fatto straordinario accaduto durante quei giorni di lutto. Mia madre fu dapprima ricoverata in ospedale e curata con forti antidolorifici, poi venne mandata a casa per la fase finale della malattia. Una volta rientrata, cominciò a dire che non aveva ancora disfatto le valigie (si era sentita male subito dopo le vacanze). Lo ripeteva insistentemente, tutti i giorni, in modo quasi ossessivo, e in effetti i suoi bagagli erano ancora chiusi in un angolo della camera da letto, ma in quel periodo nessuno ci pensava. Poi, il giorno dei funerali accadde qualcosa di incredibile. Una volta terminata la funzione religiosa, rientrando nella casa di nostra madre mio fratello si accorse che c’era un messaggio sulla segreteria telefonica. La accese e ascoltò, pietrificato. Una voce di donna diceva: «Ecco! Lo sapevo che non sarei riuscita a disfare i bagagli!» Conserviamo quel piccolo nastro come una reliquia e siamo sicuri che era lei: era riuscita a materializzare la sua voce per dire quello che tanto l’aveva angustiata negli ultimi giorni di vita. Il mio percorso di ricerca sulle coincidenze, sul Destino e la nostra esistenza è iniziato in quell’istante e non si è più interrotto.
Durante l’inverno del 1998 stavo rientrando a Milano insieme al mio avvocato da un appuntamento di lavoro a Rimini. Eravamo all’altezza di Forlì, pioveva a dirotto e l’autostrada era piena di camion. C’erano tre corsie, ma mancava quella d’emergenza e i guardrail in cemento delimitavano sia una parte sia l’altra. Andavo a centoventi all’ora quando mi accorsi che l’auto stava entrando in un’enorme pozza d’acqua. Persi il controllo e mi ritrovai in un interminabile testa-coda. Per fortuna di fianco non vi erano auto; eravamo gli unici protagonisti di una danza surreale e silenziosa. Eravamo tutti e due pronti all’epilogo ma, incredibilmente, anche quella volta non accadde nulla. La mia station wagon sfiorò i guardrail a destra e a sinistra per almeno quattro volte, poi si bloccò di traverso in mezzo all’autostrada. Guardai immediatamente lo specchietto retrovisore: non stava arrivando nessuno. Tre grossi camion si erano fermati sulle corsie, l’uno di fianco all’altro con le frecce lampeggianti, e sembravano osservarmi. Con il cuore che mi scoppiava riavviai il motore e ripartii per Milano. Mentre guidavo, pensai all’incidente in moto di tanti anni prima: «Questa è la seconda volta che qualcuno mi protegge, ci sarà un perché…»
All’epoca ero titolare di una società di gestioni alberghiere e mi occupavo, tra le altre cose, di tre alberghi in Grecia. Quale interprete mi avvalevo di una gentile signora, figlia di un italiano, che in precedenza aveva lavorato nel settore turistico. Negli anni il nostro rapporto professionale era diventato molto stretto, poiché lei mi era indispensabile per comprendere e trattare con gli interlocutori locali. Un giorno mi invitò a pranzo a casa sua, dove viveva con gli anziani genitori. Ricordo ancora il momento, decisivo e fatale per la mia vita, in cui entrai in quell’appartamento. Un uomo molto anziano, magro, con il mento appuntito e vivaci occhi neri mi sorrideva. Sembrava un elfo. Era seduto su un divano a qualche metro da me e non si alzò per presentarsi; mi fece invece segno con l’indice di avvicinarmi. Lo raggiunsi e mi sedetti al suo fianco. Mi scrutò qualche secondo, poi mi disse: «Ciao Marco, ti stavo aspettando. Come procedono le tue ricerche sul Destino e il senso della vita? Abbiamo un po’ di cose da raccontarci… Siediti qua vicino a me. Ti porto i saluti della tua mamma. Mi prega di dirti che sta bene e che veglia ogni giorno su di te».
Rimasi di sasso. Non avevo mai parlato delle mie ricerche a sua figlia, e tanto meno della morte di mia madre avvenuta ormai dieci anni prima. Né avrei potuto immaginare che il padre della mia interprete greca sarebbe stata la persona più singolare che abbia mai incontrato. Quell’uomo, che ha un sapere infinito sulla vita in questo mondo e fuori nell’Universo, è diventato il mio mentore. Rimasi seduto su quel divano per circa quattro ore a discutere dei temi che mi stavano a cuore. Quel giorno, nella primavera del 2001, fu il primo di una interminabile serie di incontri, viaggi ed esperienze che prosegue tutt’oggi.
Come diceva il filosofo e mistico Georges Gurdjieff, tutti noi incontriamo nella nostra vita uomini straordinari. Persone che ci illuminano o che ci traghettano (come Caronte) da una sponda all’altra della vita facendoci fare un balzo in avanti nella crescita evolutiva. Il padre della mia interprete è il mio uomo straordinario. Nato in un piccolo paese siciliano nei primi anni Venti, era un predestinato. All’età di cinque anni cadde da un muretto e morì. La sua morte durò circa tre ore, e lui la ricorda chiaramente: tra la disperazione dei famigliari e l’inutile arrivo dei soccorsi, osservava ciò che accadeva. Si sentiva una libellula che aleggiava sopra le teste dei genitori e dei numerosi fratelli. Ricorda anche di avere incontrato un uomo vecchissimo, vestito con abiti d’altri tempi, seduto sotto un albero. Lo conosceva bene: era stato un suo amico in una vita precedente. Rimasero seduti uno accanto all’altro e, alla sua tenera età, il mio mentore ricevette rivelazioni immense. Mentre altre entità mantenevano in funzione i suoi organi vitali, il vecchio gli rivelò significati e leggi sull’esistenza e sull’Universo. Quando ebbe finito, avvenne il miracolo: il bimbo riprese vita e possesso del suo corpicino e conservò una memoria nitida di tutto ciò che aveva visto e udito mentre era morto. Allo stesso tempo aveva avuto la prova che la nostra anima, nell’arco dei millenni, affronta un viaggio lungo molte vite per potersi evolvere e ricongiungere a Dio.
So che il lettore scettico difficilmente può credere a quanto ho scritto. Come sia possibile che un uomo, che ha studiato solo fino alla quinta elementare, conosca in maniera approfondita materie come la fisica, la mineralogia, l’astronomia, la chimica, la teologia, le religioni e via dicendo, è un mistero meraviglioso. Anch’io, come tutti, avevo bisogno di prove e riscontri per le parole incredibili che avevo sentito. Tuttavia, nel corso di tutti questi anni ho avuto la possibilità di conoscere la verità e verificare le capacità metafisiche di quell’uomo.
Alcuni anni dopo mi trovavo in Guadalupe per una vacanza. L’isola è di una bellezza straordinaria ed è nota per avere una foresta tropicale impervia e spiagge bianche di sabbia finissima. Un giorno decisi di raggiungere una cascata nel cuore della foresta. Il sentiero, che si arrampicava in un ambiente umido all’interno della fitta vegetazione, mi mise duramente alla prova. Camminai per tre ore senza incontrare anima viva. Durante la salita scorgevo in lontananza le spiagge bianche con l’acqua turchese. C’era una grande escursione termica e i miei vestiti erano fradici di sudore freddo. Avvertivo un profondo senso di solitudine e la fatica iniziava ad avere la meglio sulla mia resistenza. Giunsi stremato alla meta. Non dimenticherò mai ciò che mi apparve. Un velo di acqua altissimo terminava la sua corsa in un laghetto in mezzo alla natura rigogliosa e incontaminata. Si udiva soltanto il rumore dell’acqua limpida che cadeva, tutto intorno era silenzio. Ero felice di aver raggiunto quel luogo meraviglioso e allo stesso tempo profondamente triste. Ero pervaso da un senso di abbandono. Come un bambino, avvertivo terribilmente la mancanza di mia madre e scoppiai a piangere. Cosa avrei dato per rivederla…
Davanti al laghetto vi era un grande masso rotondo, levigato dalle gocce d’acqua della cascata. Appena riaprii gli occhi, vidi con stupore che uno strano uccellino, paffuto e gonfio d’acqua, mi fissava senza muovere una piuma. Un attimo prima non c’era nessuno, né animali né insetti. Nessuno. Sentii che era mia madre.
«Ciao mamma», dissi col pensiero, e sorrisi alla piccola creatura. Mi avvicinai lentamente e allungai la mano. Il cuore mi batteva forte. L’uccellino restava immobile a fissarmi, non scuoteva neppure la testolina; quando finalmente toccai le piume bagnate, si lasciò accarezzare senza ritrarsi. Ebbi la conferma definitiva: era mia madre che mi voleva rassicurare. Quella coincidenza significativa e numinosa, piccola ma fondamentale, cambiò il mio stato emotivo pieno di sofferenza e mi diede la forza di superare il dolore della perdita. Da quel momento fui certo che un giorno l’avrei ritrovata.
Da ormai vent’anni mi interrogo e studio per capire i fenomeni straordinari che ci accadono. Le esperienze personali che ho raccontato mi hanno convinto che esiste una realtà più vasta, complessa e meravigliosa di quella che percepiamo con gli occhi e la ragione. Le coincidenze sono manifestazioni della dimensione mistica e spirituale che, come lampioni, per un attimo rischiarano il cammino e ci mettono in contatto con l’Infinito. Ne ho raccolte, catalogate e analizzate qualche centinaio: pur essendo molto diverse tra loro, hanno elementi in comune che le rendono in qualche modo simili e riconoscibili, a partire dalla sensazione che ci investe quando ne siamo protagonisti. Dobbiamo imparare a coglierle, capirle e seguirle: per quanto possano sembrare assurde e talvolta irrazionali, nascono da una ragione profonda che col tempo potremo vedere dispiegarsi appieno. Sul momento possiamo solo fidarci e seguire la strada tracciata.
Io l’ho fatto. Il cammino di studi che ho intrapreso è affascinante e infinitamente appagante per l’anima. Per avere il tempo di approfondire e viaggiare, circa tre anni fa ho abbandonato la mia attività professionale. Sapevo che per alcuni anni avrei potuto vivere con quanto avevo messo da parte. Nonostante il sottile senso di ansia che ci invade in queste situazioni, assecondare una vocazione sincera è un’opportunità impagabile. Oggi la magia della ricerca, la passione per la scrittura e il desiderio di comunicare sono parte integrante della mia vita. Occorre avere coraggio e un briciolo di incoscienza per realizzare il proprio Io più vero.
Durante una trasmissione televisiva del maggio del 2011, Paolo Bonolis mi chiese che cos’era per me il senso della vita. Gli risposi con una metafora.
«Avvicinatevi all’orlo del dirupo.»
«Ma è troppo alto.»
«Avvicinatevi all’orlo del dirupo.»
«Ma è pericoloso! Potremmo cadere!»
«Io vi dico di avvicinarvi all’orlo del dirupo!»
Essi si avvicinarono.
Lui li sospinse.
Ed essi volarono.
Quella sensazione di incoscienza che ancora provo tutti i giorni, dopo anni che mi sono buttato dal dirupo, è l’energia vitale necessaria per continuare a seguire la nuova linea della mia vita. Seguire i miei sogni.