Da quel momento l’unica cosa a cui riuscii a pensare era come diventare cacciatrice di odori. Se i foglietti profumati nelle bottigliette con la cera rossa erano ricordi, i ricordi di Jack, allora c’erano mondi straordinari oltre i confini della nostra isola, e cacciatori di odori che li esploravano come nessun altro poteva fare. Non sapevo se sarei mai arrivata là, ma volevo essere pronta.
«Insegnami a essere come Jack», chiesi a mio padre. Lui esitò e per un attimo gli vidi una mesta quiete negli occhi, ma poi mi arruffò i capelli.
«D’accordo, piccola allodola», ribatté. «Prendi la giacca.»
Raggiungemmo il centro della radura. Davanti a noi l’orto dormiva, pronto per l’inverno, e le galline chiocciavano nel vicino pollaio. Dietro di loro il bosco aspettava, colmo di possibilità. Per un attimo papà rimase fermo.
«Okay», disse. «Trovami un uovo fresco. Ma tieni gli occhi chiusi.»
«Nel pollaio?» Stavo ancora guardando verso gli alberi, speranzosa.
«È lì che sono le uova.» Sorrise.
Un pollaio sembrava un posto troppo banale per una cacciatrice di odori, ma chiusi gli occhi e lasciai che il mondo venisse pervaso dai suoni. Il chiocciare delle galline, i piccoli soffi delle loro conversazioni. Il rumore dei minuscoli artigli di uno scoiattolo che si arrampicava su un albero. Uno scricciolo, il suo canto limpido e soave. Poi sentii sollevarsi il saliscendi del pollaio, e papà mi spinse dentro delicatamente.
«Inspira», disse. «Ricorda, prima un respiro corto.»
Feci entrare l’aria nel naso, con un rumore simile allo sciabordio della bassa marea. Captai l’odore pungente degli escrementi di gallina, il ricordo dell’estate nell’erba secca.
«Ora dimentica il tuo naso», aggiunse lui. «Spalanca la mente. Ascolta la storia.»
Inspirai di nuovo, lentamente e a fondo, e sentii gli odori riempirmi la testa, completi e tridimensionali, tanto da potermi aggirare fra di essi. Colsi l’odore dell’acqua non del tutto fresca nella ciotola, e quello delle galline indaffarate e arruffate che gironzolavano cercando un posto in cui mettersi comode. Aspettai, chiedendomi quale odore potesse avere un uovo fresco. La mia mente cominciò a vagare, lasciando entrare l’aroma del terriccio umido fuori di lì, il fumo del nostro camino. Poi mi costrinsi a tornare al mio compito. Jack sarebbe stato attento. Lo avrei fatto anch’io.
Là. In mezzo ai diffusi odori muschiati c’era qualcosa di nuovo. Soffice. Piccolo. Il suo tepore non si spostava come quello delle galline, ma restava immobile come un sasso che assorbe la luce del sole.
Sempre a occhi chiusi attraversai con cautela il pollaio. L’odore risultava evidente come un faro. Tesi le dita, le passai sull’erba secca. Una delle galline si premette contro il mio ginocchio e io la scostai delicatamente. Abbassai la mano, rovistando. Ecco.
Uscii dal pollaio tenendo sollevato l’uovo, con un sorriso raggiante. Ero una cacciatrice di odori, proprio come Jack.
«Vedi come si fa?» disse mio padre, sorridendo.
Ne trovai un altro, stavolta più in fretta. Li cuocemmo entrambi per la colazione.
«Qual è il mio prossimo compito?» chiesi poi a papà. «Quello era troppo facile.»
Mi guardò piegando la testa di lato. «Trova il primo giorno di primavera», disse.
Se c’era una ricerca che richiedeva pazienza era quella. L’inverno era appena iniziato e mancava ancora un’eternità alla primavera. Sapevo come sarebbero diventate buie le giornate e come la pioggia avrebbe insediato il nostro buonumore fino a renderlo freddo e fradicio. Sarebbero arrivati i temporali, con le urla del vento e gli alberi ripiegati contro il nostro tetto. L’inverno non era certo il periodo adatto alla ricerca di essenze: in inverno anch’esse erano creature tristi, che si decomponevano accanto al fuoco o si raggomitolavano sotto le radici delle piante. Ma Jack lo avrebbe fatto lo stesso, mi dicevo, e così ogni giorno mi infilavo la giacca e andavo a caccia.
In realtà scoprii più odori di quanti avrei mai immaginato. La pioggia e la nebbia li aprivano a chi volesse prestare attenzione. Sull’isola non nevicava veramente, ma ogni volta che il freddo se ne andava e arrivava la pioggia sentivo l’odore del ritorno alla vita, simile a un moto di marea nel terreno. Udivo gli alberi sussurrare: “È già ora?”.
Le giornate si accorciarono sempre più finché il mondo si inclinò e la bilancia tornò a pendere nella direzione opposta. Stava arrivando un cambiamento, ne percepivo l’odore. Somigliava al fruscio dei sogni prima del risveglio, la mattina. Quel delicato strattone ai fili della gravità mentre la marea lenta cambia direzione e inizia a trascinarti verso il mare aperto.
Una mattina mi svegliai con una fragranza nuova eppure familiare che entrava dalla porta d’ingresso. Papà mi aveva sempre detto che compivo gli anni il primo giorno di primavera. Non si trattava di un giorno specifico, bensì dell’arrivo di una sensazione: una corrente tiepida che destava la terra. Il profumo di violette. Il verde nell’aria, lo chiamava lui. Non importava che talvolta tornassimo indietro, nell’inverno; papà diceva che capitava di continuo. Non era un problema festeggiare più di una volta, spiegò, anche se per calcolare la mia età dovevo tenere conto solo della prima volta che sopraggiungeva questa sensazione. In base ai miei calcoli, avevo undici anni.
Il naso mi disse che papà non era in casa, ma mentre ascoltavo sentii i suoi passi avvicinarsi lungo il sentiero. Allo scalpiccio si mescolava un altro suono, più allegro e rapido. Scesi in fretta la scaletta. I rumori salirono i gradini della veranda, poi vidi papà stagliarsi sulla soglia. Insieme a lui, legata lascamente a una corda, c’era una capretta nera, con un unico zoccolo bianco. Era bellissima.
«Guarda cosa ho trovato», disse papà, come se imbattersi in una capra su un’isoletta circondata dall’acqua fosse una cosa di tutti i giorni. Le uniche cose nuove che arrivavano lì giungevano per magia dentro casse di plastica nera. Eppure c’era una capra, legata a una corda, tenuta con disinvoltura nella mano di mio padre.
«Buon compleanno», aggiunse lui.
La capretta mi guardò, i suoi occhi gialli brillavano allegri.
«Mi chiamo Emmeline», dissi per presentarmi, uscendo sulla veranda. Lei sollevò lo zoccolo bianco, come per chiederci di obbedirle. Quando mi inginocchiai, abbassò la zampa e si allungò in avanti, premendo il muso contro la mia mano finché non la coccolai.
«Un’autentica Cleopatra», commentò papà. La capra lo guardò, piegando la testa di lato.
«Chi è Cleopatra?» chiesi, accarezzandole con delicatezza i peli ispidi e corti del collo.
E lui mi raccontò dell’antica regina di un paese lontano, che riusciva a ottenere ciò che voleva usando barche piene di petali di rosa e bagni dal profumo di muschio.
Cleopatra, la capretta, divenne ben presto Cleo, ma entrambi i nomi le calzavano perfettamente: era ancora abbastanza giovane per un diminutivo e aveva aspirazioni di grandeur, disse papà. Ci dominò sin dall’inizio.
Lui cominciò a costruirle un riparo; la sua reggia, lo chiamava.
«Il tuo compito», mi disse, «è farle conoscere l’isola.»
«Da sola?»
«Ormai sei abbastanza grande. E non sarai da sola, vero?» Sorrise. «Qui non c’è niente che possa farti del male. Promettimi solo di non andare sulla spiaggia», aggiunse in tono grave.
«Prometto», replicai, e dicevo sul serio. Non riuscivo a immaginare niente di più piacevole del percorrere l’isola con Cleo al mio fianco. Avrei accettato con gioia qualsiasi restrizione necessaria.
Ogni giorno, non appena il recupero di provviste o il giardinaggio o le lezioni terminavano, io e Cleo partivamo. All’inizio la tenni legata a una corda, ma divenne ben presto chiaro che sarebbe andata dovunque andassi io, o forse, per essere più precisi, che io sarei andata ovunque andasse lei. Era sempre Cleo ad aprire la strada, ma senza mai precedermi più di quattro passi e girando continuamente la testa per controllare che la seguissi.
Ci divertivamo a percorrere ogni sentiero dell’isola, alcuni talmente poco battuti che non li avevo mai visti prima. Pensavo che ormai li avessimo scoperti tutti, ma un giorno notammo un leggero avvallamento nell’ammasso dei cespugli di gaultheria che crescevano fra gli alberi, simili a un grande mare. Di solito senza un machete era impossibile aprirsi un varco fra i rami rigidi. Un tempo però qualcuno aveva creato un sentiero di cui erano rimasti vaghi segmenti. La spessa pelle di Cleo non si curava delle foglie affilate e le sue zampe procedevano sicure fra le radici. Continuò ad avanzare e il sentiero parve spalancarsi alle sue spalle. La seguii temendo che i cespugli potessero richiudersi e che non riuscissimo più a trovare la strada di casa, ma Cleo appariva molto decisa e io non potevo tornare indietro senza di lei.
Dopo un po’ sentii l’acqua battere contro gli scogli in lontananza. Le onde producevano un suono più acuto, diverso dal delicato sciabordare sulla sabbia della nostra laguna. Io e Cleo scostammo un’ultima manciata di verde per ritrovarci su un nudo e grigio pianoro di pietra levigata dal vento, ampio circa tre metri, sormontato da un cielo senza limiti. Ci avvicinammo lentamente al bordo e fissammo uno sconfinato orizzonte di isole e l’acqua molto più in basso.
I miei occhi non avevano mai dovuto ampliare lo sguardo a una simile distanza. Non sapevo cosa fare di tutto quello spazio che sembrava potersi allungare in avanti per ghermirmi, portarmi via con sé. Indietreggiai, un passo alla volta, finché i miei talloni urtarono del legno grezzo, bagnato. Girando la testa vidi una panca sul limitare del bosco, usurata dalla pioggia e dal tempo.
“È del fuggiasco”, pensai.
Mi chinai per tastarne la superficie marcescente, chiedendomi cosa avesse portato l’uomo in quello spazio aperto, cosa lo avesse spinto a sedersi lì a rimirare ciò che aveva lasciato. Cosa c’era in quel luogo?
Io e Cleo restammo a lungo su quella scogliera prima di imboccare il sentiero che portava al capanno. Non raccontai a papà cosa avevamo trovato, temendo che mi impedisse di tornarci. Non sapevo cosa pensare di quel posto, sapevo solo che lui non me l’aveva mai mostrato, e sembrava impossibile che non ne conoscesse l’esistenza. Mio padre conosceva tutto.
In seguito io e Cleo cominciammo ad andare sulla scogliera ogni giorno, e con il tempo la mia paura iniziale cedette alla curiosità. Portavo con me il pranzo e io e Cleo ce lo dividevamo mentre restavamo sedute sempre più vicino al bordo, osservando l’enorme distesa d’acqua. A volte vedevamo una balena o uno scintillante branco di delfini, o tronchi marroni galleggiare in lontananza. A volte passava una barca a motore, ronzando come un gigantesco insetto arrabbiato. Avevo conosciuto quelle cose solo come illustrazioni nei libri di scienza di papà o nella raccolta di fiabe. Lì sulla scogliera i confini fra i diversi tipi di libri si facevano indistinti. Mi nascondevo dalle imbarcazioni, sicura che fossero di pirati.
Una volta vidi un ragazzo dai capelli rossi ritto a poppa di una barca da pesca. Sembrava giovane, forse mio coetaneo. La settimana seguente, io e Cleo tornammo là ogni giorno, eppure non lo rividi più. Tuttavia mi feci delle domande su di lui: dov’era casa sua?
Quella sera, a cena, chiesi a papà: «Perché siamo qui? Perché non ci sono altre persone sulla nostra isola?».
Posò la forchetta. «Le persone mentono, Emmeline», rispose, «ma gli odori non lo fanno mai.» Sembrava convinto che quella risposta fosse esaustiva.
«Tutte le persone?» insistetti io. «E cosa mi dici di Jack?»
«Persino Jack», replicò, e assunse un’espressione così cupa che non chiesi altro.
Capii che non gli avrei mai detto del sentiero che portava alla scogliera. Lui aveva i suoi segreti, e io i miei.
Il tempo passò. Un’altra primavera si avvicinò. Compii dodici anni, gambe e braccia crescevano come arboscelli, forti e sottili. Quando andavamo alla laguna riuscivo ormai ad afferrare l’acqua dei molluschi mentre schizzava verso il cielo, a scavare a fondo nella sabbia e a trovare io stessa i gusci in attesa. Sapevo accendere il fuoco con un archetto e un pezzo di muschio essiccato, usare un coltello affilato per staccare un cirripede dalla sua mensola rocciosa nel lasso di tempo necessario per contare fino a due. Ormai il mio cestino per raccogliere provviste era sempre pieno come quello di papà e sempre più spesso lo riempivo da sola, tornando dalle mie avventure nel bosco con Cleo.
Io e Cleo avevamo cominciato a correre lungo i tronchi d’albero caduti, le mie braccia allargate in fuori, i suoi zoccoli saldi e sicuri. Ma io volevo salire ancora più in alto. Cominciai ad arrampicarmi sugli alberi, ramo dopo ramo, fingendo di essere Jack il Cacciatore di Odori. A volte, aggrappata bene in cima ai rami dei sempreverdi, circondata dal delicato ticchettio dei loro aghi, captavo un’allettante folata di qualcos’altro: una tiepida fragranza di pane nel forno, in lontananza. La fioca scia del ringhiante odore nero lasciato dalle barche. Frammenti di una storia che mio padre non mi avrebbe mai raccontato. Un mondo che non avrei mai visto. Mi allungavo verso l’esterno, sentendo i rami piegarsi sotto il mio peso. Il tutto mi faceva sentire più irrequieta e sola di prima, ma quando alla fine scendevo trovavo Cleo ad aspettarmi.
Papà mi aveva insegnato a tagliarle le unghie e a spazzolarla. Amavo il ritmo della mia mano che si muoveva avanti e indietro sulla sua schiena robusta, i suoi denti che mi mordicchiavano mentre lavoravo. Era un modo per concludere le giornate. La sera la sentivo belare nella sua piccola stalla; papà mi spiegò che le capre amavano rannicchiarsi le une contro le altre, a prescindere dal clima. Aspettavo che lui si addormentasse, poi scendevo di soppiatto dalla mia scaletta e raggiungevo la stalla, raggomitolandomi accanto a Cleo finché non si tranquillizzava. A volte mi addormentavo e mi svegliavo solo quando cominciava a fare giorno.
Durante quelle notti mi preoccupavo che fra papà e me si stessero accumulando troppi segreti. Ma posando la testa sul fianco di Cleo, nella solidità del suo corpo tiepido e compatto, mi sentivo completa interiormente. Mi dava l’impressione che al mondo ci fossero più di due persone. Così non dissi niente.