LE ESSENZE

Durante l’estate dei miei dodici anni papà cominciò a farsi più taciturno, le sue storie scomparvero benché l’inverno fosse ancora un pensiero distante. Non chiedeva più cosa io e Cleo avessimo trovato durante le nostre esplorazioni, né raccontava cosa aveva fatto durante la mia assenza. Un giorno mi resi conto che ormai da parecchio tempo, rincasando, non trovavo sul tavolo il cestino pieno di provviste appena raccolte.

Ero felice con Cleo e razionalizzavo pensando che papà non mi avrebbe detto cosa stava succedendo nemmeno se glielo avessi chiesto. Poi, un giorno, entrai nel capanno e lo vidi in piedi davanti alla stufa con lo sportello aperto, uno dei foglietti odorosi in mano. Sul tavolo c’era una bottiglietta vuota, un anello di cera rossa ancora fissato al tappo.

«Cosa stai facendo?» domandai.

Lui chiuse lo sportello della stufa e si sedette pesantemente sulla panca accanto al tavolo.

«Se ne stanno andando», disse.

«Cosa?»

«Gli odori. Stanno svanendo.»

«Lasciami annusare.» Credevo che potesse dipendere dal suo naso.

Ma non era così. Quando mi accostò al viso un foglietto non sentii nulla.

«Da quanto è fuori dalla boccetta?» chiesi, tentando di applicare i principi scientifici che mi aveva insegnato.

«Non ha importanza», replicò. «La cosa non cambierà. Li sto controllando da settimane. La fila in alto è quasi inodore.»

La mia prima reazione fu di sentirmi tradita perché stava aprendo le bottigliette senza di me, poi capii davvero il significato delle sue parole: gli odori ci stavano lasciando.

Pensai a quelli nei cassetti più in alto, ai mondi che racchiudevano. A come alcuni mi avevano dato l’impressione di volare e altri di nuotare e una di sentirmi stringere fra le braccia più affettuose che potessi immaginare. Mi era sempre sembrato di sentirli sussurrare fra di loro mentre mi addormentavo. Quando era successo l’ultima volta? Ormai passavo quasi ogni notte nella stalla di Cleo. Forse i foglietti erano rimasti a lungo in silenzio. Forse si erano chiesti dove fossi finita. Magari era per quello che se n’erano andati.

«Cosa volevi fare?» chiesi a papà, indicando la stufa.

«Bruciarlo», rispose, stringendo ancora in mano il rettangolino di carta.

La violenza dell’idea mi sconvolse. «Perché?»

«Alcuni dei primi profumi creati dall’uomo erano fatti proprio per bruciare», spiegò. «Per fumum, attraverso il fumo, era un modo per parlare agli dei. Volevo rimandare a casa l’aroma.»

«E se trovassimo la maniera di recuperarlo? Jack non vorrebbe che tentassimo?»

Scosse il capo. «È impossibile.»

Vidi la rassegnazione sul suo viso. Aveva rinunciato a qualcosa, benché io non riuscissi a immaginarne la forma o l’origine. Sapevo solo che stava soffrendo.

«Allora bruciamolo», proposi.

Raggiungemmo la stufa, aprimmo lo sportello e restammo fermi a guardare il fuoco. Papà esitò e per un attimo parve ripiegarsi su sé stesso, poi lasciò cadere il foglietto. Guardammo le fiamme catturarne i bordi e arricciarli rendendoli sfavillanti e poi neri. Il fumo che uscì era di un azzurro più terso del cielo, dell’acqua, degli occhi di mio padre. E poi emerse la fragranza.

Era ampia e piena, scintillava con un vigore che il suo foglietto non aveva mai posseduto. Non era una fugace finestra su un mondo, era la cosa stessa. Chiusi gli occhi e i muri del capanno svanirono. Sentii l’effluvio dolce e speziato dell’erba appena tagliata, e una brillante combinazione di fiori: intensi e cremosi, penetranti e rapidi, polverosi e soffici come il ricordo stesso. Si fusero come canti di uccelli sovrapposti. C’era la luce del sole che con il suo tepore faceva affiorare i profumi. La sentii sulla pelle mentre mi avviluppava come il calore della nostra stufa non avrebbe mai potuto fare. Rimasi ferma al centro del tutto, annusando. Non mi ero mai sentita così colma di qualcosa.

Non so quanto durò, so soltanto che svanì gradualmente, finché non rimasero che la pioggia all’esterno e il vago sentore di tabacco.

«Oh», disse papà, con le lacrime agli occhi. Allungò una mano verso il fuoco come per recuperare il foglietto, ma ormai si era consumato.

piccolo fregio usato per separare

In seguito mio padre cambiò. Era sempre stato affascinato dalle boccette, ma la perdita di quel foglietto odoroso fece scattare qualcosa dentro di lui. La pressione nel capanno aumentò finché non riuscii a sentirne l’aroma, greve e bollente. Osservavo i suoi occhi, che guizzavano fino ai cassetti più in alto a prescindere da cosa stavamo facendo. Quando uscivamo in cerca di provviste rincasava sempre prima, lasciando incompleto il potenziale raccolto. Un pomeriggio qualcosa parve spezzarsi. Lui prese un’altra bottiglietta con la cera rossa e la stappò.

«Okay», disse, aprendo lo sportellino della stufa.

piccolo fregio usato per separare

L’atto di bruciare un’essenza lo rilassava per qualche giorno, ma poi l’intero ciclo ricominciava. Diventava ogni volta più rapido: la successiva fase di quiete terminava sempre più in fretta, la tensione montava più velocemente. Mi preoccupavo di cosa sarebbe successo quando lui avrebbe finito le bottigliette in alto, rimanendo solo con vecchie versioni della nostra vita.

«Perché non creiamo dei nuovi foglietti odorosi?» gli chiesi. «Potremmo portare fuori la macchina. Io e Cleo abbiamo scoperto alcune cose, potremmo mostrartele.»

Ero disposta a donargli tutti i miei segreti, persino la scogliera affacciata sul mondo, ma lui scosse il capo.

«E se ricavassimo un nuovo foglietto da uno di quelli?» proposi, indicando la terza fila dall’alto. «Se ricominciassimo da capo?»

Mi guardò, la speranza gli si accendeva negli occhi, e in quell’istante fui Jack il Cacciatore di Odori, coraggioso e intelligente e pieno di idee. Fui Emmeline, la figlia che lui amava più di qualsiasi altra cosa al mondo.

«Okay», replicò. «Proviamo.»

Prese una delle boccette e la tenne stretta per un istante, poi ne ruppe il sigillo di cera rossa con il movimento esperto che conoscevo così bene ed estrasse il rettangolino di carta. L’aroma risultò indistinguibile, come previsto, ma adesso avevamo un piano. Ci avvicinammo insieme alla stufa.

«Tienilo tu», disse papà, passandomelo. Rimase posato sul palmo della mia mano, leggero e colmo di silenzioso mistero. Gli restava soltanto un’unica chance di esprimersi, se non riuscivamo a catturarlo di nuovo.

Papà prese la macchina. Ne sollevò il coperchio, mettendo in mostra i fori.

«Adesso», disse, e io lanciai il foglietto nel fuoco. Mentre il ricciolo di fumo si levava dai suoi bordi e il calore si propagava fino al suo centro, emerse la fragranza, un’esplosiva e succosa dolcezza di fiori, un tepore ricco e umido. Papà premette il pulsante della macchina e rimase ad aspettare ansiosamente che il foglietto uscisse dall’apposita fessura. Lo sventolò come sempre, tenendo il braccio teso finché il fumo non si diradò. Aprì alcune finestre, fece entrare l’aria fresca. Il capanno tornò a sé stesso. Infine lui accostò il pezzo di carta alle narici e annusò.

Lo osservai, sentendo la mia speranza inacidirsi quando vidi la sua smorfia delusa.

«No», disse, passandomi il foglietto. Annusai, cominciai a tuffarmi nel profumo floreale ma poi, mischiato a esso, giunse l’odore di tabacco. Fumo di legno di cedro. La cena della sera prima. Il mio stesso sudore.

«Non è quello giusto», affermò papà.

Feci per chiedergli cosa ci fosse di sbagliato in un effluvio che includeva la sottoscritta ma mi resi conto che, anche se lui aveva una risposta, io non ero sicura di volerla sentire.

Da quel giorno la macchina rimase sulla mensola.