LA MENZOGNA

A volte mi chiedo come ho fatto a credere alle sirene. Non avrei mai accettato qualcosa come il coniglio pasquale: sapevo troppe cose sulle galline e su come si lasciavano prendere le uova. Ma avevo visto fiori trasformarsi in frutti, come paglia che diventasse oro. Avevo visto come gli anemoni di mare sembravano morire e rinascere a ogni mutare della marea. Avevo trovato conchiglie ritorte a forma di spirale e mio padre mi aveva detto che un tempo quelle forme eleganti ospitavano animaletti. In un mondo del genere le sirene non sembravano impossibili.

C’era anche un’altra cosa. Nel bene e nel male io e papà vivevamo vicini alla terra. La mia infanzia era permeata di meraviglia, abbinata alla granitica consapevolezza che la nostra vita dipendeva da ciò che riuscivamo a creare o trovare o coltivare. Per me quelle casse delle sirene non erano legate soltanto al cibo, mi davano la sensazione che qualcuno di magico sapesse che eravamo lì e si stesse prendendo cura di noi. Qualcuno oltre a mio padre, qualcuno che fosse più grande dell’isola stessa. Avevo un gran bisogno di credervi. Immagino lo abbiamo tutti.

Ma l’unica cosa che sapevo quel giorno, lì sulla spiaggia, era che papà mi aveva detto una bugia. Non mi soffermai a chiedere se fosse destinata a me o a lui o a entrambi, se le sue storie volessero cacciare via la realtà o farla avvicinare. Sapevo soltanto che se le sirene non esistevano, anche tutto il resto doveva essere un’invenzione. Mi voltai e mi incamminai verso il capanno, pestando con forza i piedi sul terriccio.

piccolo fregio usato per separare

«Hai mentito, papà.»

Era girato verso la stufa e sentendo la mia voce si voltò di scatto, gli occhi arrossati.

«Dove sei stata?» chiese. «Ti ho cercato ovunque. Temevo di averti perso.»

Stavo tremando per l’indignazione. «Non c’è nessuna sirena», affermai.

Mi guardò, sul suo viso lo shock puro e nitido.

«Sei andata alla spiaggia.» Le sue parole caddero sul pavimento e si infransero. Nonostante tutto quello che stava succedendo, benché il resto fosse cambiato, aveva continuato a fidarsi così tanto di me da non avere nemmeno considerato quell’ipotesi.

Me ne resi conto con sgomento. Rimasi ferma, sbalordita dalla sofferenza sul suo viso. Avevo puntato verso un’unica direzione vendicativa, ma adesso tutto dentro di me era in subbuglio. Era come restare bloccata nel canale durante la media marea. Mi sentivo furibonda per l’inganno di mio padre, ma ardevo anche di vergogna per il mio tradimento.

Lui aveva fatto una cosa terribile. Io anche avevo fatto una cosa terribile.

Non riuscivo a tenermi dentro entrambi quei pensieri. Sotto alcuni aspetti ero troppo cresciuta, ma sotto altri, troppi, ero ancora una bambina. Non volevo pensare a cosa avevo fatto. Volevo solo la purezza della mia rabbia, volevo continuare a percepirla come quando ero tornata verso casa con passo pesante, ardente di una specie di superiorità morale.

«È per questo che non volevi che ci andassi?» sbottai. «Perché rischiavo di scoprire la verità?»

«No», rispose sottovoce. Aspettai che aggiungesse qualcosa, ma non vi fu nient’altro, solo l’effluvio fioco e spezzato della tristezza che emergeva da lui a ondate, arrivando da un oceano più profondo di quanto avessi mai creduto possibile.

Avevo bisogno di andarmene da lì, avevo bisogno di spazio perché i miei pensieri potessero placarsi. Feci per uscire, per sistemare Cleo nella sua stalla per la notte.

«No», disse lui, posandomi una mano sul braccio. «Rimani in casa.»

Non volevo farlo, ma la vergogna mi teneva stretta come le bugie. Papà uscì. Lo sentii mormorare qualcosa a Cleo, poi udii il clic del saliscendi della stalla. Quando rientrò io ero già salita nel mio soppalco.

«Cena?» chiese, ma non risposi. Non sapevo più con chi essere arrabbiata. Mi tenni in ascolto mentre si muoveva in cucina, ma alla fine non colsi l’odore di nessun cibo, solo la fiammella di una candela quando scese il buio, poi più niente.

Rimasi sdraiata a letto. Fuori sentivo Cleo belare. Avrei voluto andare a tenerle compagnia nella stalla, ma sapevo di non poterlo fare. Non potevo aggiungere un’altra secchiata di sofferenza all’oceano di mio padre, a prescindere da cos’altro fosse successo. Così rimasi stesa lì, ascoltando i versi di Cleo che passavano dalla frustrazione alla disperazione. Alla fine lei si tranquillizzò e io restai sola con i miei pensieri, che continuarono ad aggrovigliarsi e a turbinare finché la spossatezza non mi fece piombare nel sonno.

piccolo fregio usato per separare

Fui svegliata da un grido che squarciò i miei sogni. Mi drizzai a sedere, mentre il cervello vorticava febbrile. Il suono era troppo acuto per essere di mio padre, troppo forte per una civetta. Giunse di nuovo, un gelido lamento di terrore.

Cleo.

«Papà!» urlai, scostando le coperte di scatto. Gli strilli proseguirono, intervallati dalle cupe esplosioni di un rumore rauco e aspro, diverso da qualsiasi cosa io avessi mai udito.

Mio padre mi afferrò prima che arrivassi in fondo alla scaletta.

«Cosa sta succedendo?» chiesi.

Corremmo alla finestra. La luna piena rischiarava la radura. Qualcosa di irsuto ed enorme ne stava costeggiando il perimetro, come se il buio fra gli alberi si fosse solidificato e avesse cominciato a muoversi. Ogni tanto si scrollava e goccioline d’acqua schizzavano tutt’intorno. Sentivo Cleo nella stalla, i suoi zoccoli che picchiavano in modo spasmodico sulle pareti. Nel pollaio le galline erano una chiazza indistinta di piume e strilli.

«Che cos’è?» domandai.

«Un orso.» Papà era pallidissimo.

La creatura entrò nella radura e io riuscii a vedere i suoi muscoli guizzare sotto la folta pelliccia. Passando accanto al pollaio gli lanciò un’occhiata indifferente, come se lo stesse valutando e riservando a un secondo tempo. Raggiunse la piccola stalla e le girò intorno una, due volte. Cleo si faceva più frenetica a ogni passaggio, i suoi zoccoli martellavano sulle pareti. L’orso si drizzò sulle zampe posteriori. Sentii il legno frantumarsi, sentii l’urlo di Cleo raggiungere nuove vette mentre lei saltava fuori dal riparo.

«Papà!» gridai.

Cleo correva, saettando a destra e a sinistra, cercando di raggiungere il capanno o il bosco o qualsiasi altro luogo lontano da lì, ma l’orso era implacabile, tagliandole ogni volta la strada, avvicinandosi sempre più. Lei era terrorizzata, i suoi occhi enormi cercavano una via di scampo. Era quasi arrivata al capanno ma l’orso fece un rapido scatto sulla destra, bloccandola. Lei si impennò, gli zoccoli annaspavano frenetici nell’aria. Anche l’orso si raddrizzò, e portò indietro una zampa. Il primo colpo zittì il grido di Cleo. E poi rimase soltanto l’orso, e il suono umido, sommesso del suo banchetto.

Io ero ferma accanto alla finestra, stordita.

«Papà», domandai, «perché non hai fatto niente?»

All’esterno l’orso grugnì, soddisfatto.

«Come ci ha trovato?» Mio padre lo stava chiedendo all’aria, non a me.

Ma poi capii. Era colpa mia. Avevo portato Cleo sulla spiaggia. Avevamo chiamato noi l’orso. E dentro di me non c’era un posto abbastanza vasto per contenere quella consapevolezza.