LINTRUSO

L’orso non se ne andò subito: la nostra isola rappresentava un ricco e variegato buffet, senza avventori in fila. Trascorse il giorno seguente a ripulire gli ossi di Cleo, poi divorò le galline e le uova, una dopo l’altra, finché non rimase che il suo rancido tanfo, che entrava da sotto la porta, lungo i bordi di ogni finestra, attraverso ogni fessura nelle pareti. Smisi di mangiare.

Mio padre restò accanto alla finestra, le mani strette a pugno. Credo non si mosse per giorni. Non possedevamo armi, non ne avevamo mai avuto bisogno. Avevo visto immagini di fucili nei libri, ma erano parsi fantastici come streghe, o troll sotto un ponte. Nel capanno avevamo un’accetta per tagliare la legna, ma l’unica volta in cui papà guardò verso di essa corsi a mettermi davanti alla porta.

«No», dissi, terrorizzata.

Lui si arrese e tornò a osservare l’orso. Dopo un po’ riprese a parlare, in tono piatto e pragmatico.

«È una femmina. Se siamo fortunati ha una tana da qualche parte e ci tornerà per il letargo. Se ha dei cuccioli rimarrà con loro e non si farà rivedere per anni e anni.»

Non potevamo fare altro che aspettare.

piccolo fregio usato per separare

Cleo non c’era più. Non sapevo come gestire la rapidità della scomparsa. Venivano uccisi in quel modo i topi, ghermiti nottetempo dagli artigli dei gufi, sfrecciando urlanti nel buio, ma non le creature che amavo. Il mondo era stato una certa cosa e poi, con un rapido schiaffo sul mio viso, divenne qualcos’altro.

Una volta, quando stavo imparando ad arrampicarmi sugli alberi, ero caduta. Non ero precipitata da una grande altezza, ma ero atterrata sulla schiena e l’impatto con il terreno mi aveva svuotato di colpo i polmoni, lasciandomi sospesa, né qui né là, per un lungo istante cristallino. Cleo era corsa da me, leccandomi il viso finché non avevo inspirato e la vita mi aveva riempito di nuovo, impetuosa. Ma ormai non c’era nessuna Cleo.

Avevo voglia di urlare. Avevo voglia di piangere. Avevo voglia di colpire mio padre, i muri, me stessa. Volevo fare qualcosa, qualsiasi cosa potesse far uscire il dolore, ma non c’era niente.

piccolo fregio usato per separare

Una volta finite le galline, l’orsa passò ai meli, poi abbatté lo steccato dell’orto con una zampata svogliata e scavò fra le patate e le carote. Restammo a guardare mentre le nostre provviste per l’inverno scomparivano, risucchiate nel suo appetito sconfinato.

Non trovando più nulla nella radura, l’orsa salì con passo pesante sulla nostra veranda. Dal mio soppalco la udii annusare la fessura della porta e mi immobilizzai. Per fortuna perse presto interesse. Non aveva bisogno di affrontare la fatica necessaria per entrare: il bosco e la spiaggia erano pieni di cibo. Scomparve fra gli alberi. Non riuscivamo più a vederla, ma ne sentivo l’odore ogni volta che aprivo la porta.

«Quando non rimarrà più niente da mangiare se ne andrà», asserì mio padre. «Potrebbe volerci un po’.»

Aspettammo, giorno dopo giorno, girando l’uno intorno all’altra nello spazio angusto del nostro rifugio, che ci univa mentre tutto il resto ci separava.

Ogni mattina mi svegliavo decisa a confessargli che avevo causato io l’arrivo dell’orsa, decisa a dirgli che mi dispiaceva. Ma ogni volta che scendevo la scaletta e lo vedevo fissare qualcosa fuori dalla finestra o guardare in alto verso le bottiglie, una parte di me desiderava ancora incolpare lui. I suoi segreti. La sua menzogna che aveva rovinato tutto.

“Colpa mia. Colpa sua. Colpa mia.”

Misurava il capanno a grandi passi, gli occhi saettavano avanti e indietro. Gli abiti cominciavano a stargli larghi.

Vorrei poter dire che sapevo cosa stava provando o che tentai di indovinarlo. La sofferenza trasforma la nostra vita in un tunnel ed è fin troppo facile perdere di vista le altre persone immerse nell’oscurità insieme a noi, desiderare che non siano lì, in modo che la loro perdita smetta di sfregare contro la nostra. Io e papà avevamo un disperato bisogno di spazi aperti, di aria pulita in cui il nostro dolore potesse trasferirsi, ma non potevamo fare altro che aspettare.

«Vuoi bruciare un foglietto?» gli chiesi. Qualsiasi cosa pur di portare un aroma diverso nello spazio vuoto.

«No», rispose, andando a piazzarsi davanti ai cassetti. «Devo proteggerli.»

“Da me?” mi domandai, ma non dissi nulla.

piccolo fregio usato per separare

Eravamo sempre stati attenti con le nostre scorte di provviste, ma di solito avevamo tutto l’autunno per prepararci all’inverno, e il giorno in cui ero andata alla spiaggia eravamo già in arretrato con la raccolta di cibo. Il pensiero di mangiare mi causava ancora conati di vomito, ma sapevo che alla fine il mio corpo avrebbe reclamato la sua razione e che non avevamo abbastanza rifornimenti anche nel caso in cui l’orsa ci avesse lasciato qualcosa. Passai giorni e giorni a fissare la dispensa, suddividendo il cibo in giornate. Non bastava.

Poi, una mattina, qualcosa cambiò. Ne percepii l’odore nell’aria quando aprii la porta: un’assenza tanto gradita quanto tutte le altre erano terribili.

«Se n’è andata», dissi a mio padre. Lui venne a mettersi accanto a me, poi annuì.

L’aria era fresca, quasi fredda. Avevamo perso gran parte dell’autunno a causa dell’orsa. Papà prese l’ascia, per sicurezza, e imboccammo il sentiero superando cespugli di gaultheria privati di quasi tutte le bacche, superando alberi i cui funghi erano stati ridotti in poltiglia. Raggiunta la spiaggia notammo le orme dell’orsa che scendevano fino all’acqua. Scomparendo.

Eravamo liberi.

Ma era solo un’illusione. L’orsa si era presa ben più di Cleo, ben più della nostra capacità di arrivare in fondo all’inverno. Aveva lacerato il tessuto che ci teneva uniti. Adesso non eravamo altro che due brandelli separati.