L’isola come l’avevo conosciuta – il mio luogo di meraviglia, di piacere e di sicurezza – era scomparsa. Cleo era morta. Per settimane la sofferenza si era nascosta nei miei pensieri e nei miei muscoli. Vedendosi concedere spazio, divenne enorme e temeraria, non era più disposta a tacere.
Era una creatura terrificante, ben più grande di me. Più grande, lo sapevo, di qualsiasi cosa mio padre potesse gestire. Quindi mi addentrai nel bosco e liberai le urla. Risucchiai aria e la scagliai di nuovo fuori, ma a dispetto di ogni possibile cautela i miei singhiozzi racchiudevano sempre lo stesso ritornello: «Sentimi, sentimi, sentimi». Volevo che mio padre prendesse quel dolore e lo infilasse in una delle sue preziose boccette, lo facesse scomparire. Volevo che mi amasse, anche se era colpa mia se Cleo era morta e la nostra isola rovinata.
Ma era talmente chiuso in sé stesso che parlargli era come lanciare sassolini contro la finestra di una casa vuota. Sempre più spesso partiva da solo alla ricerca di cose che non esistevano più.
«Vuoi compagnia?» chiesi una volta.
Scosse il capo. Guardò su verso i cassetti.
«Desideravo solo tenerti al sicuro», mi sembrò di sentirgli dire, ma forse aveva detto invece «tenerli», riferendosi ai foglietti.
«Papà», replicai.
Ma lui si limitò ad afferrare il suo cestino per raccogliere provviste e a uscire dalla porta.
Rimasi nel capanno, percependo tutto quello che non c’era più. Come spesso facevo per calmarmi, raggiunsi la dispensa per controllare quanto, o meglio quanto poco, c’era rimasto. Fu a quel punto che notai la macchina di papà sulla mensola più in alto.
La macchina era più leggera del previsto, la striscia di stoffa che la avvolgeva era morbida e grigia, stinta al punto che le volute bianche nel tessuto sembravano fatte più di fumo che di filo. Levai la stoffa e aprii il coperchio, aspettandomi quasi che si staccasse di netto come castigo per la mia trasgressione, invece si aprì silenziosamente e mostrò centinaia di minuscoli forellini.
Mi tremavano le mani. Avevo capito cosa faceva, ma non avevo ancora una spiegazione migliore della magia, al riguardo. E la magia, lo sapevo, aveva un prezzo. Mi chiesi se il congegno potesse prendere, oltre che dare. Se consideravo il rapporto di papà con i foglietti odorosi, la cosa sembrava possibile.
Rimasi in ascolto per cogliere eventuali passi sul sentiero ma sentii solo lo svolazzare degli uccelli. Inspirai, riempiendo polmoni e mente degli odori intorno a me, poi sollevai la macchina con entrambe le mani, la puntai verso il mio viso e premetti il pulsante. Inspirò, emise una serie di sibili. Sentii l’aria scivolarmi fra i riccioli, verso i forellini. Non mi mossi finché il foglietto non uscì quasi completamente dalla fessura, poi abbassai una mano in modo che mi cadesse sul palmo, come una foglia secca.
Lo fissai a lungo, quindi ne afferrai delicatamente un bordo e lo sventolai davanti a me. Nell’aria captai l’odore di una versione più giovane della sottoscritta e per un attimo percepii il motivo per cui forse papà voleva proteggere le sue creazioni.
Ma io non ero lui.
Tirai fuori una delle bottigliette vuote. Accostai il naso all’imboccatura, ma non c’era niente, solo una quieta vacuità. Stava aspettando.
“Aspettando me”, pensai.
Infilai il foglietto nella boccetta rubata e presi la cassettina di legno con la scorta di cera. Avrei voluto che ce ne fosse di rossa, ma trovai solo quella verde. Ne feci sciogliere un po’, e guardai le gocce cadere sul bordo intorno al tappo che si sigillava ermeticamente. Infilai la bottiglietta nella tasca della giacca, risistemai con cura la macchina nella dispensa e sgattaiolai fuori dal capanno, chiudendomi la porta alle spalle.
Dopo il tepore all’interno, fuori si gelava. Seguii il viottolo fino all’inizio del sentierino che portava alla scogliera. Adesso risultava più evidente e mentre percorrevo il familiare tragitto fra i cespugli di gaultheria sentii la mancanza di Cleo. Mi trafisse un dolore tale che pensai di essere stata colpita al fianco da un ramo. Mi fermai.
“Forse non dovrei farlo”, riflettei, ma ero affranta dal dolore, stufa marcia del dolore.
Continuai a camminare fino al bordo della scogliera. Rimasi in piedi lì, il vento freddo sul mio viso, l’acqua molto più in basso. Infilai una mano in tasca e sentii il vetro liscio sotto le dita. Tirai indietro il braccio e poi lanciai la boccetta in quella terribile, inebriante distesa. Contai fino a quattro e poi sentii lo splash.
«Sono qui», dissi al cielo che non avrebbe mai risposto.
«Sono qui», dissi alle persone che non riuscivo a vedere.
Feci la stessa cosa il giorno seguente, e quello dopo ancora e oltre. Sapevo che non avrei dovuto usare la macchina, soprattutto così spesso, ma non mi importava. Non volevo più essere cauta.
Ogni foglietto odoroso che creavo, ogni bottiglietta che gettavo in mare, rappresentava uno sfogo, un minuscolo attenuarsi della pressione. Forse avevo ragione, forse la macchina toglieva qualcosa a chi la usava. Ma l’indomani mattina le sensazioni si erano già accumulate di nuovo e io aspettavo con ansia di veder uscire papà, di poter usare il congegno e sentirmi cadere sul mio stesso palmo.
Poi giunse il giorno in cui sollevai il coperchio e premetti il pulsante ma non uscì nulla. La macchina ticchettò e ronzò, ticchettò e ronzò. Niente foglietto. Solo un’interminabile e frustrata inspirazione attraverso i forellini.
Era possibile esaurire la magia? Il congegno continuò a funzionare, inspirando come se volesse risucchiare l’intera isola.
In preda al panico riabbassai il coperchio di scatto. Il suono cessò.
Cosa avrebbe fatto papà se lo avesse scoperto? Non usava la macchina dal nostro tentativo fallito di realizzare una copia di uno dei foglietti, ma se avesse cambiato idea, se avesse cercato di utilizzarla, avrebbe capito cosa avevo fatto.
La avvolsi rapidamente nella sciarpa di tessuto grigio e la rimisi sullo scaffale. Mi assicurai che fosse sistemata dove e come l’avevo trovata. Poi chiusi bene la porta della dispensa.