Aspettai alla laguna fino a sera, lo sguardo fisso sul canale. Le onde ruggivano e ribollivano, rifiutando di calmarsi a dispetto dei miei sforzi di concentrarmi sull’acqua agitata sollecitandola con il pensiero a farsi soffice e accogliente. A livello razionale sapevo che non aveva importanza. Io e papà avevamo parlato varie volte della temperatura di quell’acqua, di quanto si potesse sopravvivere nel suo abbraccio. Se lo shock iniziale non ti uccideva – se non ti spingeva ad aprire la bocca cercando affannosamente aria e facendo invece entrare l’acqua – lo avrebbe fatto il freddo. Una prolungata immersione era sempre fatale, aveva detto lui, persino d’estate. Adesso era inverno. E, anche se fosse riuscito a raggiungere il canale, quelle maree e quegli scogli non lo avrebbero mai lasciato passare tutto intero. Mio padre era uno scienziato, era stato lui a spiegarmi tutte quelle cose.
Aspettai comunque.
Il cielo si scurì finché non rimasero che odori e, mentre restavo seduta lì a inalare gli aromi dell’acqua salata e della sabbia umida, aromi che conoscevo da tutta una vita, mi resi conto con un’ondata di panico che il mio naso stava già sovrapponendo a quei ricordi olfattivi nuovi ricordi. Ricordi che non includevano mio padre.
«Una volta che modifichi un odore modifichi il ricordo», era solito ripetere. Non lo avevo capito davvero fino a quel momento.
Con ogni inspirazione, papà scompariva.
“No”, pensai. Mi alzai, lanciai un’ultima occhiata spasmodica verso la laguna, in direzione del canale, poi girai le spalle e risalii di corsa il sentiero.
Spalancai la porta del capanno e la richiusi dietro di me, tentando di sigillare all’interno i preziosi aromi. L’essenza di papà era ancora lì, nell’aria, nel tessuto delle sue camicie, persino nelle pagine dei nostri libri. Affondai il naso in qualsiasi oggetto riuscissi a trovare, sapendo che l’odore di mio padre stava già scivolando via come acqua attraverso un setaccio.
Pensai a tutti i foglietti odorosi che avevo creato di me stessa, a tutti quei rettangolini bianchi che mi cadevano sulla mano. Non ne avevo creato nemmeno uno di papà, non ce n’era mai stato motivo. Lui era mio padre, sarebbe sempre stato lì.
«Egoista», sussurrai nel silenzio del capanno. «Egoista. Egoista.»
Mi guardai intorno. I cassetti più in alto erano tutti aperti, fino a quello dove era rimasta nascosta la boccetta con la cera azzurra. La macchina era sul tavolo, la sciarpa di tessuto a terra.
Papà aveva scoperto tutto.
L’orrore della cosa era superiore alle mie forze. Presi la macchina, quell’oggetto bellissimo ed elegante. Immondizia, non magia.
Senza riflettere afferrai dal pavimento la sciarpa che l’aveva sempre protetta e la lanciai nel fuoco. Un profumo indolente e speziato si dipanò, mescolandosi agli odori della stanza, modificando ciò che era rimasto di mio padre. Chiusi con forza lo sportello della stufa, ma era troppo tardi.
Trascorsi i due giorni seguenti raggomitolata sulla grande poltrona, il libro di favole stretto con forza al seno. Una parte di me pensava che, se non avessi modificato nulla, forse tutto sarebbe tornato com’era un tempo. Mio padre sarebbe entrato dalla porta, scuotendo la testa per togliersi l’acqua dai capelli e ridendo per quella nuotata fuori stagione. Sarebbe stato l’uomo della mia infanzia, quello che interrompeva la nostra raccolta di provviste per mostrarmi la traccia scintillante lasciata da una lumaca, non l’uomo che era stato negli ultimi mesi, non l’uomo che volava nell’acqua.
Tentai di ignorare le bottigliette rimaste nei cassetti più in basso. “Se non fosse per loro avrei ancora mio padre”, pensai.
Eppure sapevo cosa c’era dentro quelle con la cera verde: la nostra vita, che mi aspettava.
Dopo tre giorni la sua mancanza divenne così sonora nella mia testa che non riuscii a sopportare oltre. Cominciai ad aprire i cassetti. All’inizio mi limitai a tenere in mano le boccette, a chiedermi quale giorno fosse stato catturato da ogni foglietto odoroso, cosa fossimo stati intenti a fare in quel momento. Il poco cibo rimasto finì, ma non mi importava più. Restavo seduta, avvolta nelle coperte del letto di papà, stringendomi al petto una delle bottigliette finché il calore del mio corpo ne scaldava la superficie fredda, poi la scambiavo con un’altra.
La mattina del quinto giorno mi svegliai sulla poltrona, il mondo freddo e inclinato intorno a me. L’odore di mio padre era quasi completamente scomparso dalla stanza. Riuscii a riaccendere il fuoco, poi mi avvicinai ai cassetti. Quando estrassi una bottiglia il foglietto all’interno si mosse e io sentii la voce di papà. Sono qui. Sono qui.
Presi un coltello e ruppi il sigillo. L’odore era ancora là, ma quasi impercettibile, come alberi tra la nebbia. Una visione fugace, fioca, non qualcosa grazie al quale ci si potesse orientare, e io avevo bisogno di orientarmi. Attraversai la stanza, aprii lo sportello della stufa e gettai dentro il foglietto.
Ci volle un istante. Pensai quasi che non sarebbe successo e che quella sarebbe stata la punizione per tutto ciò che avevo fatto, ma poi eccolo. Mi ritrovai nel bel mezzo di un tiepido pomeriggio di sole, la fragranza della tarda estate drappeggiata intorno a me. Sentii il profumo di un cestino di mele mature sul tavolo. Rammentai il coltello, la liscia spirale di buccia mentre papà la separava dalla polpa.
Tieni, piccola allodola. Lasciava cadere la buccia nelle mie manine minuscole. Un giocattolo che puoi mangiare. Stava sorridendo.
Crollai in ginocchio. Riuscii a sentire le sue braccia, a percepire l’odore del suo tepore animale, dell’acqua salata e della resina di pino nella sua barba.
Allungai la mano verso la boccetta seguente ancor prima che la fragranza scomparisse.
Dopo quell’abbuffata iniziale cercai di impormi il razionamento, ma a mano a mano che i miei muscoli si indebolivano la mia resistenza fece altrettanto. Una boccetta al giorno lasciò il posto a due, poi a tre, infine a cinque. Non me ne sarei mai andata. Anche se fossi riuscita a escogitare il modo di chiedere aiuto o di superare quell’orrendo canale, ormai era troppo tardi. Volevo solo stare di nuovo con mio padre.
Così aprii le bottiglie e bruciai i foglietti, uno dopo l’altro. In uno di essi trovai persino Cleo, e fu proprio quello a farmi singhiozzare.
I giorni passarono. Mi sentivo trasformarmi in aria. Le fragranze dei foglietti divennero i miei polmoni, il sangue nelle mie vene. Mi riusciva sempre più facile perdermi dentro di essi. Papà mi aveva insegnato a seguire le tracce di un aroma, ma adesso mi addentravo negli odori, vagandovi in mezzo come fossero alberi di una foresta sconosciuta.
“Once upon a time, Emmeline”, sussurravano.
Volevo vivere nelle storie raccontate da quelle fragranze. Quando mi resi conto che sarebbe stato troppo faticoso continuare ad alzarmi per prendere le bottigliette, le tirai giù tutte. Avevo bisogno di risparmiare le forze per tenere acceso il fuoco.
Giacevano intorno a me, un campo di vetro e frammenti di cera verde. Stringevo già quella seguente benché i mormorii del precedente foglietto odoroso indugiassero ancora nell’aria: una giornata qualsiasi, all’apice della primavera, le violette in attesa sotto il terreno. I miei capelli erano stati appena lavati, la legna nella stufa era leggermente verde. Particolari di cui all’epoca non mi ero curata. Assorbii la fragranza, poi la sentii allontanarsi, sbiadire. Inspirai più forte.
«Emmeline!»
La voce arrivava da molto lontano. Non era la prima voce che sentivo sgorgare dai foglietti, ma stavolta aveva qualcosa di sbagliato. La spinsi via, mi immersi più a fondo nel profumo di nuova crescita e legna umida.
«Emmeline!» Risuonò di nuovo, più vicina; fuori dal capanno, capii. Mi drizzai a sedere, sapendo che non era la voce di mio padre, ma sperando comunque. La stanza traballò e la fragranza ricominciò a tirarmi verso di sé.
«Non andartene», sussurrò.
Dei passi risuonarono sulla veranda. La porta si aprì e gli odori all’interno vennero spazzati via da una raffica d’aria fresca, quasi gelida. Vidi entrare l’uomo-sirena, ma stavolta non aveva una cassa di plastica nera. E non aveva nemmeno mio padre.