Il materasso era morbido, le lenzuola rigide.
“Non è il mio letto.”
Rimasi stesa lì, a occhi chiusi, trattenendo il fiato. Non appena avessi lasciato entrare gli odori, permesso alle palpebre di sollevarsi, il mondo sarebbe stato diverso, sbagliato. Sarebbe stato come l’avevo fatto diventare io, così mi dissi che non avrei aperto gli occhi. Non avrei respirato con il naso. Non avrei scoperto dove mi trovavo.
Tentai di girarmi su un fianco per raggomitolarmi in una palla stretta e scomparire, ma un peso sulle gambe mi impediva di muovermi. Inspirai e sentii l’odore di pelo animale umido. «Cleo?»
Boccheggiai, quasi sperando, ma mi rispose solo un respiro rauco. “Non è Cleo.” Mi immobilizzai, la pelle scossa da un fremito. Una zaffata di fiato tiepido mi carezzò il viso e io inalai aria colma di toni intensi, muschiati. “Orso?” Una lingua mi leccò la guancia.
Tenni gli occhi ben chiusi e urlai.
«È tutto a posto, ma chérie.» L’orrendo animale era scomparso, sostituito da una voce, le parole inclinate verso l’alto. Una donna. Il palmo di una mano mi si posò sulla guancia. Sentii odore di lievito, farina, zucchero.
«Era solo il nostro cane», spiegò. «Adesso è uscito.»
La mano mi carezzò la testa e intanto ogni mio capello rammentò le dita di papà che mi scivolavano tra i ricci mentre lui mi leggeva qualcosa. Accostai istintivamente al viso il davanti della maglietta, bramando l’ultima essenza dei foglietti odorosi, ma il tessuto nelle mie mani era morbido, sottile.
“Non è la mia maglietta.” Annusai un aroma non di fiori. Niente resina di pino e sale marino. Niente legno di melo e flanella. “No”, pensai.
«I tuoi vestiti sono in lavatrice», spiegò la donna. «Erano pieni di fumo. Presto saranno freschi e puliti, non temere.»
“No. No. No.”
Lui non c’era più. Un baratro di sofferenza si spalancò sotto di me e io vi precipitai.
Non so quanto tempo passò. Mi accorsi che la donna entrava e mi controllava, mi posava la mano sulla guancia, sulla spalla.
«Emmeline?»
Non riuscivo a rispondere.
Tornò dopo qualche ora. «Emmeline.» La sua voce suonava diversa, tranquilla ma risoluta. «Adesso devi aprire gli occhi. Devi mangiare.»
Dietro le palpebre abbassate riuscivo solo a vedere un oceano nero di bottigliette. “Lascia che mi tuffi in acqua con te, papà.” Non mi importava del freddo, di quanto sarebbe dovuto rimanere buio il mondo, se solo fossi riuscita a stare con lui.
«Qui sei al sicuro», disse la voce della donna.
Sicuro. Che parola bizzarra.
Ma agli odori non importa di cosa vogliono la mente o il cuore. Trovano il modo di aggirare il buio degli occhi chiusi, di insinuarsi oltre barricate di pensiero. Il corpo è loro complice. Possiamo sopravvivere senza cibo per settimane e senza acqua per giorni, ma provate a non respirare e i polmoni si ribelleranno.
E così, a poco a poco, in sella a quei respiri infidi, il profumo di qualcosa che cuoceva in forno sgattaiolò nella camera. La fragranza di cipolle che si ammorbidivano a fuoco lento. Tentai di tenere lontani gli aromi, ma si infilavano comunque lì dentro, tiepidi e accoglienti come l’estate.
«Le persone mentono, Emmeline, ma gli odori non lo fanno mai», mi aveva detto papà. Riuscivo ancora a vederlo, fermo accanto al pollaio, mentre mi insegnava a trovare le uova fresche.
Segui questo. Il suo dito che mi picchiettava sul naso. Segui questo.
“Non voglio lasciarti, papà.”
Ma alla fine non c’era nessun altro posto in cui andare.
Aprii gli occhi.
Non so dire come rimasi scioccata vedendo per la prima volta un autentico essere umano di sesso femminile. Avevo visto foto e illustrazioni di altre persone, ma erano esistite nei libri, avevano odorato solo di carta. Le loro voci erano state variazioni di quella di papà che leggeva ad alta voce. Se mai ci avessi pensato avrei dedotto che le altre persone fossero semplicemente versioni di mio padre più minute o più alte o più tonde.
Ma la donna di fronte a me si muoveva in modo diverso. Portava un morbido abito azzurro con un ampio grembiule. Aveva i capelli bianchi raccolti sopra la nuca e la pelle abbronzata dal sole, con una miriade di rughe sottili intorno a occhi e bocca. Sembrava vecchia e bambina insieme, le mani forti ma nodose come radici di alberi.
«Eccoti qua, ma chérie», disse sorridendo. Poi, come intuendo che forse mi serviva un istante di riflessione, aggiunse: «Vado a prenderti del cibo. È ora che tu mangi qualcosa».
Non appena uscì, mi guardai intorno. Le pareti della stanza erano lisce e azzurre. Niente cassetti. Niente boccette. Niente legno scintillante. La finestra di fronte al letto affacciava sull’acqua, e la luce che entrava racchiudeva l’argento del tardo inverno, brillante come lo era stata sulla scogliera. Mi sentivo esposta, lontana dalla protezione del bosco. Accostai le ginocchia al petto, ignorando la camera, fissando la porta.
Il profumo di cardamomo precedette la donna nella stanza, soffice e confortante. Un ricordo si spalancò: uno dei foglietti, uscito da una bottiglia con la cera rossa, con la fragranza di un luogo assolato che mi aveva avviluppato, baciato la pelle. «Cardamomo», aveva spiegato papà. «Si nasconde come un tesoro.» Mi aveva mostrato immagini di baccelli a forma di minuscole barchette, da cui sgorgavano semi neri.
«Tieni», disse la donna, porgendomi con una mano un piatto e con l’altra un bicchiere pieno di una sostanza bianca. «Nessuno ha mai rifiutato una delle mie brioche.»
Il profumo che si levava dal piatto mi diede le vertigini. Sull’isola avevamo fatto il pane, ma quell’aroma era più rotondo, più tenue, con intrecciato qualcosa di pesante eppure setoso. Presi una delle brioche. Era marrone e appiccicosa, e quando diedi un morso mi riempì la bocca di dolcezza. Avevo già assaggiato lo zucchero in passato, ma solo come una rara leccornia uscita dalle casse delle sirene. Nemmeno in un’intera stagione ne avevo mai mangiato così tanto. I miei denti vibrarono, la saliva mi scivolò sulla lingua.
Alzai lo sguardo, con gli occhi sgranati, verso la donna e lei sorrise.
«Sono felice che ti piacciano», disse. «E ora che ci stiamo guardando lascia che mi presenti. Sono Colette. Mio marito si chiama Henry, è lui che ti ha trovato. Questa è casa nostra.»
Mi passò il bicchiere. Lo portai alla bocca e bevvi un sorso, poi ebbi un conato di vomito. Ero abituata all’acqua e al verde limpido e brillante del tè agli aghi di pino. Quel liquido era denso e freddo, morbido come la schiuma che si raccoglieva ai margini della laguna.
«È latte», spiegò la donna.
“Quindi è questo il suo sapore.” Il bicchiere di latte dato a un bambino all’ora di coricarsi era stato un’immagine ricorrente in uno dei miei libri di fiabe. Era sembrato una prelibatezza.
«Mi dispiace», dissi. Avevo lo stomaco in subbuglio e temevo di vomitare.
Colette uscì e tornò con un bicchiere d’acqua. Sapeva di metallo, un aroma totalmente diverso rispetto a quello delle pietre fresche che cingevano il nostro pozzo, ma era meglio del latte. Mentre bevevo lei si sedette sul letto, rimanendo lì anche dopo che finii. Mi guardai intorno, tentando di evitare il messaggio che indugiava nel sapore dell’acqua e nella vista di quel cielo aperto fuori dalla finestra.
“Non sei a casa.”
Girai la testa dall’altra parte. Alla mia sinistra c’era una toeletta con sopra una piccola lampada accanto alla quale vidi una boccetta con un sigillo di cera verde. Non appena la vidi, trasalii.
«Non volevi separartene», spiegò la donna. «Henry dice che era l’ultima rimasta nel capanno.» Mi osservò attentamente. «La gente sta trovando queste bottiglie su tutte le spiagge. Tutti si chiedono da dove arrivino, c’è stato persino un articolo sul “Daily Sun”. Ma per lo più hanno un sigillo rosso.»
Rammentai tutte le boccette di papà che avevo lanciato dalla scogliera. Rammentai il viso di papà che mi guardava dalle onde.
«Non dirlo», chiesi a Colette. «Ti prego.»
Abbassò lo sguardo. Le mie dita le stringevano il polso, ma se le stavo facendo male non se ne lamentò.
«Okay», replicò.
Allentai la presa. Lei andò a prendere la bottiglietta e me la passò.
«Tieni», disse.
Lasciò la stanza – per preparare il pranzo a Henry, spiegò – e io rimasi stesa lì con la boccetta fra le mani. Il desiderio di aprirla, di bruciare il rettangolino di carta e sentire l’odore di mio padre era quasi travolgente, ma quel foglietto odoroso era tutto ciò che mi era rimasto. Era la prova di quello che eravamo stati, e di quel che avevo fatto a noi due. Racchiudeva insieme il meglio e il peggio di me.