DODGE

Passò quasi una settimana prima che uscissi da quella stanza. Colette sistemò accanto al letto un secchio per i miei bisogni e rimasi sbalordita dall’energia che serviva per arrivare anche solo fin lì. Per lo più dormivo, ma non saprei dire se ne avesse bisogno il mio corpo o la mia mente. Ricordo soltanto che piano piano la camera parve diventare più luminosa, e le mie braccia e le mie gambe rammentarono di essere fatte di ossa e muscoli. Le persone sono così: all’occasione torniamo indietro, volenti o nolenti.

Quel nuovo mondo, però, era un posto strano. Sull’isola avevo letto favole di case fatte di dolciumi e di animali parlanti. Le nostre pareti erano state piene di bottigliette che racchiudevano il tempo. Papà mi aveva spiegato come le radici degli alberi comunichino fra loro, in profondità sotto il terreno.

Tutto ciò risultava ben più credibile di quello che vidi allora.

«Ti piacerebbe fare un bagno?» chiese un pomeriggio Colette.

Per me bagno significava una pezzuola fredda e bagnata, una saponetta e una salvietta ruvida con cui asciugarmi. Il lavaggio dei capelli era raro e implicava una brocca d’acqua e una bacinella: la prima per bagnarmi i capelli, la seconda per raccogliere l’acqua in eccesso. Quanto all’acqua in sé… be’, arrivava da un pozzo o dal tetto.

Colette mi accompagnò invece in una stanza di un bianco vibrante, con le pareti scintillanti. Scostò una tenda per mettere in mostra una vasca da bagno liscia e candida. Mi guardai intorno cercando un secchio, ma lei girò una maniglia e un interminabile scroscio di acqua fresca e poi bollente uscì dal muro. Lo osservai, affascinata e terrorizzata, mentre riempiva la vasca. Non riuscivo a capire come tutta quell’acqua restasse dentro le pareti o cosa poteva succedere se le foravi per errore.

«Vuoi entrare?» chiese Colette, sorridendo. «Non vorrai certo che si raffreddi.»

La guardai.

«Aspetto fuori», aggiunse. «Chiamami se ti serve qualcosa.»

La porta si chiuse dietro di lei e io rimasi lì a fissare l’acqua. Ero già entrata in una pozza così profonda, ma l’acqua era sempre stata fredda e piena di sale. Quella aveva un aspetto diverso: vapore e lo stesso profumo pungente e bianco che avevo sentito sulle mani di Colette. E anche qualcos’altro. Seguii il mio naso fino a una saponetta sul bordo della vasca e la presi. Era dolce e un po’ triste. Mi rammentò qualcosa che avevo annusato su uno dei foglietti nelle bottiglie con la cera rossa, ma aveva un che di stonato: era fioco, non era nemmeno vivo.

Non volevo quegli odori sconosciuti ma sapevo a cosa servivano acqua e sapone. Mi spogliai, il corpo ancora tremante dopo tutti quei giorni di digiuno seguiti da una settimana di riposo forzato. Mi sedetti sul bordo della vasca e intinsi un piede nell’acqua. Il calore diede il benvenuto alle mie dita, poi alla gamba. Scivolai giù fino ad avere solo il naso sopra il pelo dell’acqua. Circondata dal tepore non riuscivo a credere a quanto fosse piacevole quella sensazione. Guardai il mio corpo, pelle chiara in una vasca bianca, quasi invisibile. Desiderai rimanere lì in eterno.

L’acqua si era raffreddata quando Colette venne a bussare alla porta.

«Tutto bene lì dentro?» chiese.

«Sì», risposi.

Mi asciugai e andai in cucina, dove lei mi fece sedere su una sedia a dondolo. Guardai le pentole appese ai ganci, i piatti e le ciotole sugli scaffali, le mele in un cestino di fil di ferro. Sapevo cos’erano tutte quelle cose.

«Ti andrebbe un goccio di tè?» domandò Colette.

Annuii. “Puoi farlo”, mi dissi. “Non è poi così strano.”

Lei ruotò il polso e le fiamme schizzarono fuori dalla sommità di una grossa scatola bianca. Urlai e tornai di corsa al mio letto. Rimasi stesa lì per un bel po’, stringendo al petto la bottiglietta di papà con la cera verde. Finsi che io e lui fossimo di nuovo nel capanno, ma era una consolazione racchiusa nel vetro. Non sarebbe mai stata la stessa cosa, e io non sarei mai potuta tornare indietro.

piccolo fregio usato per separare

Nei giorni seguenti imparai molte cose. In quel posto le stufe non avevano bisogno di legna e il calore non aveva bisogno del fuoco. Gli orologi suddividevano la giornata in parti uguali, e i barometri trasformavano il clima in numeri. Colette e Henry premevano degli interruttori e la notte scompariva; tenevano accostata alla testa una scatoletta e parlavano con persone che non erano lì.

Anche gli odori di quelle nuove cose erano diversi: appuntiti e agitati, come se si muovessero troppo rapidamente per permettere alla vita di accumularsi. Alla fine di ogni giorno sentivo un bisogno disperato della fragranza del terriccio dell’isola sotto i miei piedi, dell’odore di fumo di legno di melo e porridge e tabacco del fuggiasco.

Quello non era il mio posto. Lì non c’era alcun bisogno di saper raccogliere provviste o usare archetti per il fuoco. Colette preparava il tè con una bustina, non con aghi di pino. Tutte le capacità di cui ero andata così fiera non contavano affatto, e quelle necessarie mi risultavano indecifrabili. La sera andavo a dormire e mi rifugiavo nell’isola nei miei sogni, sperando di trovare casa mia, solo per svegliarmi urlando.

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Henry, l’uomo-sirena, aveva i capelli bianchi ma si muoveva con l’agile energia di una persona molto più giovane. Passava il tempo lavorando nelle vicinanze, e il suono del suo martello imprimeva un ritmo costante alla giornata. Quando rimaneva in casa era una presenza silenziosa. Lo avevo visto osservarmi, in attesa delle mie domande. Papà faceva così con le galline quando erano irrequiete, restando fermo nel pollaio finché non si tranquillizzavano. Il ricordo mi punse, affilato e crepitante; mi sarei mai abituata a quell’assenza?

«Come mi hai trovato?» chiesi infine a Henry dopo avere rimandato a lungo, sospettando di conoscere la risposta.

Mi guardò come se stesse prendendo una decisione, poi ribatté: «Il vecchio Jenkins vive anche lui sulle isole. Ha trovato tuo padre, il suo…».

Colette, uscita dalla cucina, gli rivolse un lieve cenno di dissenso. Lui tossicchiò con aria imbarazzata.

«Mi dispiace, Emmeline», aggiunse.

“Colpa mia. Colpa mia. Colpa mia.”

«Ho dovuto aspettare la marea giusta per percorrere il vostro canale», spiegò Henry. «È stato difficile aspettare, sapendoti là tutta sola.»

Mi concentrai sulle mie mani, appoggiate sul grembo. Non volevo ripensare a quei giorni. Sentii la mano di Colette sulla spalla.

«Ricordo quando tuo padre ti ha portato qui», disse.

Le sue parole mi spinsero ad alzare gli occhi. «Cosa?»

Annuì. «Eri molto piccola, camminavi a stento. Lui stava lottando con qualcosa, ce ne siamo accorti, ma questo vale per molte delle persone che vengono alle isole, sai. La cosa evidente», aggiunse con più foga, «era che ti voleva bene. E sapeva anche prendersi cura di te, altrimenti non gli avrei mai permesso di portarti laggiù.»

Henry annuì. «Comprendiamo il forte desiderio di solitudine, ma non tolleriamo la crudeltà», dichiarò. «E dopo che arrivaste sull’isola capivamo che stavate bene grazie a ciò che chiedevate.»

«Cosa vuoi dire?»

«Lui mi lasciava dei messaggi nelle casse vuote. Mi avvisava quando volevi qualcosa di speciale.»

“L’impermeabile azzurro. I libri e la cioccolata. Cleo”, pensai, e guardai fuori in modo che non potessero vedere i miei occhi.

«Credo possa bastare, per oggi», disse Colette.

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C’era stato un periodo della mia vita in cui mi ero sentita adulta, capace. Adesso avevo troppa paura del mondo esterno per uscire di casa. Rimanevo per lo più nella mia stanza, raccontandomi storie tratte dal libro di fiabe di papà. La bambina con il cappuccio rosso che correva fra gli alberi, il genio che aspettava nella lampada diventando sempre più potente, i bambini smarriti nel bosco e le loro briciole di pane. Pronunciavo le parole nella mia mente, quasi potessero dirmi come orientarmi nel posto in cui mi ero ritrovata, ma al massimo potevano aiutarmi a dimenticare. Tornavo comunque alle storie, sperando in qualcosa che non sarebbe mai arrivato. Un finale che si era già verificato.

Fu il cane, Dodge, a riportarmi indietro. All’inizio ero troppo spaventata per restare vicina al suo pelo ruvido e ai suoi denti affilati: era troppo simile a un orso, pur avendo una pelliccia dorata, il muso bianco e gli occhi di un tranquillo marrone liquido. Restavo ferma sulla soglia della cucina o del soggiorno, incapace di entrare finché Colette non lo faceva alzare e lo conduceva fuori in veranda.

Poi, un giorno, quando mi avvicinai alla cucina, lui si alzò e raggiunse la porta d’ingresso, in attesa che lo facessero uscire. Come se capisse. Colette aprì la porta e io sentii Dodge lasciarsi cadere con un tonfo sul pavimento di assi dipinte della veranda.

Andai alla finestra per guardarlo. Si riaddormentò, il respiro fluido e regolare. Poi, di colpo, alzò la testa, il naso in stato d’allerta. Ritta dall’altra parte del vetro impiegai un istante prima di sentire anch’io l’odore di un motore e vedere la barca di Henry entrare nel porticciolo. Mentre mi irrigidivo nel captare l’essenza, Dodge si alzò, raggiunse con calma il molo e aspettò che Henry ormeggiasse la barca. Rimasi a guardare mentre lui si chinava per accarezzare il dorso del cane.

Tornarono insieme verso la casa. Quando la raggiunsero Henry aprì la porta, ma Dodge non entrò. Henry si voltò a guardarlo, piegando la testa di lato.

«Resti fuori, vecchio mio?» chiese. Dodge alzò gli occhi e mi vide alla finestra, poi si sdraiò davanti alla porta. Proteggendomi, compresi.

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In seguito cominciai a osservare Dodge. Notai come capiva dal solo profumo quando il pane di Colette finiva di cuocere o uno scoiattolo si trovava a una trentina di metri di distanza o il vento aveva cambiato direzione. Prima ancora di vederli riconosceva ognuno dei cinque pescatori che tenevano la barca nella baia. Andava a salutarli, scodinzolando, ma da uno si teneva sempre alla larga.

Nei giorni seguenti divenne il mio traduttore del mondo al di fuori della casa. Attraverso il suo naso quel mondo divenne più sicuro, e ben presto mi ritrovai a voler annusare l’aria intorno a me come faceva lui, come qualcosa di puro e vivo, colmo di messaggi.

Un pomeriggio guardai fuori e lo vidi ritto sulle zampe a fissare qualcosa oltre l’acqua, ogni muscolo del corpo teso. Pur trovandomi in casa, riuscii a cogliere l’odore del mutamento. Un pizzico di metallo, un che di greve nell’aria. Rammentai la sensazione, il modo in cui gli alberi sembravano ritrarsi in sé stessi, la fragranza di resina.

“Temporale”, pensai.

«Dovresti far entrare Dodge», dissi a Colette, che mi guardò stupita. «Sta arrivando una tempesta.»

«Davvero?» Il cielo era terso.

«Lui lo sa. Guardalo.»

Lei osservò Dodge e controllò il barometro.

«Be’, siete davvero due bei tipi», commentò. Aprì la porta e stavolta, quando Dodge entrò, non me ne andai.

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Quella sera la pioggia sferzò le finestre. Henry e Colette parlavano in tono sommesso in cucina, la loro conversazione era un brusio indistinguibile, mentre io ero seduta in soggiorno accanto al fuoco con Dodge. Colette mi aveva dato un grosso libro che chiamava «atlante». Diceva che mi avrebbe mostrato il mondo intero. Quello che vedevo io erano pagine piatte, forme suddivise in colori.

«Noi siamo qui», aveva spiegato indicando il margine di un ammasso di verde che spiccava in una vasta distesa di azzurro. «Io sono nata qui.» Picchiettò un dito sul nome MONTREAL, sul lato opposto. «Ho conosciuto Henry qui.» Il suo dito scivolò giù, attraverso un boschetto di sagome minuscole, fino alla parola NEW YORK. «Stavo camminando in un grande parco, e lui era lì.»

Sorrise, sprofondando nel ricordo. «Disse che voleva andarsene da tutto. Gli avevano offerto un posto come custode in capo al mondo. Mi chiese di accompagnarlo. Ero pronta per una nuova avventura e volevo stare con lui, così risposi di sì, ma solo per l’estate.»

Scoppiò a ridere. «Immagino di essere rimasta, eh?»

Avevo sentito l’affetto nella sua voce, avrei desiderato potermici addormentare dentro e non svegliarmi mai più. Un amore come quello sembrava semplice e reale, diverso dal mio, lo sapevo. L’amore di mio padre era stato intricato e pieno di segreti, chiuso su un’isola.

«Dove vivevo?» avevo chiesto, e lei aveva girato le pagine fino a trovarne una simile alle altre ma in cui tutto era più grande, più dettagliato. Un puzzle di azzurro e verde: isolotti e isole, aveva spiegato indicando una macchiolina al centro della pagina, persa fra le altre non appena lei aveva tolto il dito.

Non sarei mai riuscita a ritrovare la via di casa, avevo pensato. E, anche se ce l’avessi fatta, là non c’era niente per me.

Quella sera sedevo davanti al fuoco, l’atlante aperto sulle ginocchia, fissando il punto in cui poteva trovarsi la mia isola. Ai miei piedi, Dodge russava. Odorava di aria aperta, di lana bagnata, di alberi e pioggia. Mi sedetti sul pavimento e gli sfiorai piano la schiena. Aprì gli occhi e sollevò il mento, posandomelo sul piede. Restammo lì a lungo, formando una cerchia tutta nostra, mentre il vento danzava nei pluviali e i ceppi crepitavano nel caminetto.

Durante un momento di calma nel temporale sentii delle voci giungere dalla cucina.

«Cosa dovremmo fare?» La voce di Henry.

«La teniamo.»

«E se qualcuno la sta cercando?»

«Come potremmo trovare questo qualcuno, Henry? Non conosciamo nemmeno il loro cognome, erano solo Emmeline e John. Lui ti pagava in contanti. Lei dice che compie gli anni il primo giorno di primavera.»

«Potremmo mettere un annuncio.»

«Per attirare qui ogni pazzoide e pedofilo del paese? No, grazie.»

«Un investigatore privato, allora.»

«Non abbiamo tutti quei soldi, Henry.»

Il silenzio calò sulla cucina. Sentii lo scalpiccio di Colette che attraversava la stanza, lo spostarsi della sedia di Henry. In tono più pacato lei disse: «Sono passati più di dieci anni dal loro arrivo qui, e nessuno è mai venuto a cercarli. Forse c’è un motivo».

«Cosa diremo alla gente?»

«È una nostra parente, venuta in visita. Tutto qui. Prende il nostro cognome.»

Vi fu una lunga pausa. Trattenni il fiato. Colette stava mescolando qualcosa sul fornello, il cucchiaio di legno picchiava ritmicamente contro i lati della pentola.

«È una bambina, Henry.» Colsi l’ansia nella sua voce. «Ne ha già passate abbastanza. Lasciamola tranquilla.»

«Okay», disse alla fine lui.

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Rimasi seduta in soggiorno accanto a Dodge, le dita piegate fra il suo pelo morbido, ripensando a cosa avevo appena sentito. Quando vivevo sull’isola, Emmeline era il solo nome di cui avevo bisogno. Papà era stato la sensazione delle sue braccia intorno a me. Il mio compleanno era il profumo delle violette. Ormai niente di tutto ciò era abbastanza.

“Chi sono io, papà? Tu chi eri?”

Ma poi sentii la domanda cambiare, irruvidirsi lungo i margini.

“Perché non mi hai mai detto nulla?”