Quella sera, quando andai in camera mia, Dodge mi seguì, accucciandosi sul pavimento accanto al letto. Lo sentii respirare, il suono riempiva lo spazio vuoto fra me e la bottiglia sulla toeletta, e mi resi conto che era la prima volta che dormivo in quella stanza in compagnia di qualcosa di diverso dai ricordi.
Ascoltai il suo respiro trasformarsi in russata. Dovevo fare una scelta: tornare indietro o andare avanti. Alla fine era semplice. Indietro era, nella mia testa, ridotto a una favola, un foglietto odoroso bruciato un’unica volta prima di scomparire. Non restava che avanti. Infilai la boccetta nel cassetto della toeletta.
L’indomani mattina io e Dodge ci alzammo e ci avviammo in cucina. Mentre passavamo davanti alla porta d’ingresso, lui andò a grattarla perché lo facessi uscire.
Sentii il calore della casa intorno a me, la bottiglietta che racchiudeva il mio passato. Dodge si voltò a guardarmi, poi grattò di nuovo. Strinsi il pomello e aprii la porta.
Dopo settimane passate al chiuso avevo dimenticato la nitidezza dell’aria dopo la pioggia. Il temporale aveva lavato il mondo riducendolo al silenzio. I sempreverdi lungo il margine della baia erano talmente fradici da sembrare neri; alle loro spalle le nubi si protendevano verso l’oceano, dove il grigio incontrava l’argento. Nel porticciolo si allungavano due pontili e ormeggiata a uno di essi c’era la barca di Henry, bianca contro l’acqua scura.
Scesi i gradini a piedi nudi e sollevai il viso verso il cielo, lasciando che la nebbia mi accarezzasse la pelle. Sentii l’odore di terriccio, di legno umido, l’accogliente verde degli alberi.
«Ehilà, padroncina Emmeline!»
Aprii gli occhi e vidi Henry al lavoro sulla sua barca. Salutò con la mano, disinvolto come se io uscissi tutti i giorni.
Dietro di me sentii Colette dirigersi in fretta verso la porta d’ingresso.
«Vecchio, l’hai lasciata aperta tu? Stai facendo entrare il freddo…» Si bloccò quando mi vide. «Be’, guardati un po’, all’aperto e tutta avventurosa.» Udii il sorriso nella sua voce.
Scomparve dentro casa e tornò con un paio di stivali e un impermeabile. «Meglio che ti metta questi, però.»
Si sedette accanto a me sul primo gradino mentre mi infilavo gli stivali, un poco grandi. «Benvenuta nella nostra baia», disse, e indicò l’insegna di legno appesa sopra il pontile: SECRET COVE RESORT. «Non è molto ma è nostro.»
Guardai lungo il molo e vidi una serie di piccoli cottage dipinti con colori brillanti: giallo e azzurro e arancione e rosso. Si stagliavano come uno scoppio di risa contro i sempreverdi che ammantavano i pendii retrostanti.
«Henry adora i pennelli», spiegò Colette.
Ma io stavo fissando le alte colline scure. Sembravano sconfinate, selvagge e capaci di ospitare qualsiasi cosa. «Orsi?» chiesi, sottovoce.
«Qui sei al sicuro.»
Mi voltai a osservare il porticciolo. Colette seguì la direzione del mio sguardo. «I pescatori sono già venuti a prendere le loro barche», disse. «Non torneranno per ore, e noi non avremo ospiti in quei cottage fino all’estate.»
Rilassai le spalle. Dodge mi raggiunse e mi diede un colpetto con il muso.
Colette ridacchiò. «Non preoccuparti. Dodge può mostrarti i dintorni, e io sarò qui, se hai bisogno di me.»
Mi posò una mano sulla schiena e mi diede una spintarella delicata.
«Vai a esplorare la zona», mi sollecitò. «Qui nulla può farti del male.»
Mio padre aveva detto praticamente la stessa cosa, molto tempo prima.
Io e Dodge ci avviammo lungo il pontile di legno. Mantenni il respiro corto, il naso all’erta per cogliere eventuali segnali di pericolo, ma lui sembrava tranquillo. Mi precedeva, zoppicando per non sforzare un’anca dolorante.
Mentre ci avvicinavamo ai cottage notai che poggiavano su pali rivestiti di cirripedi, i piedi immersi nell’acqua schiumosa dell’alta marea, i tetti pieni di muschio verde. Vedendone i colori vivaci li avevo considerati in un certo senso a sé stanti, invece capii che avrebbero sempre fatto parte della baia, del bosco.
Erano silenziosi, carichi di aspettativa, e i miei stivali producevano un sommesso scalpiccio sulle larghe tavole consunte. Il mio respiro si fece più regolare. Sbirciai dentro da una delle finestre e vidi una vecchia sedia a dondolo e un letto con una trapunta rossa e bianca. Ripensai al nostro capanno sull’isola, ormai solo e in attesa. Qualcun altro lo avrebbe scoperto? Avrebbe trovato i nostri cassetti sulle pareti, captato l’odore del tabacco del fuggiasco?
“Vai avanti, non indietro”, mi dissi.
Continuai a camminare.
Io e Dodge proseguimmo sul molo ricurvo che girava intorno alla baia fino al punto in cui si interrompeva accanto all’ingresso del porto. Lì sorgevano due vasti edifici, uno rosso e l’altro azzurro. Henry non doveva ancora essere arrivato fin lì perché la loro pittura era così sbiadita da risultare quasi invisibile. L’edificio rosso era molto semplice, lungo e a due piani. Un paio di piante puntute che non riconobbi crescevano spontanee in due botti di legno sistemate ai lati della porta. La fragranza verdeazzurra strattonò la mia memoria ma non riuscii a identificarla, così passai oltre.
Anche l’edificio azzurro era spoglio, le sue finestre nude. Guardai dentro una di esse e nel buio vidi qualcosa di bianco che fluttuava sotto un soffitto alto.
“Un fantasma”, pensai. Saltai indietro e cercai Dodge per vedere la sua reazione, ma lui stava fissando l’ingresso del porto. Sentii il suono di un motore che si avvicinava e colsi l’odore di benzina, pungente e giallo. C’era soltanto un pescatore che usava la benzina invece del gasolio, quello a cui Dodge non andava mai incontro. Adesso la barca sarebbe passata proprio accanto a noi mentre entrava nel porto. Dodge fece un ringhio sommesso, di petto.
Non me lo feci ripetere. Abbassai la maniglia e la porta dell’edificio azzurro si aprì scricchiolando.
«Vieni, Dodge», dissi. Sgattaiolammo all’interno e io richiusi l’uscio dietro di noi.
I miei occhi impiegarono un attimo per adattarsi all’oscurità. Gli ossi comparvero per primi, enormi curve bianche appese al soffitto che formavano archi aggraziati. Lì accanto c’erano creature più piccole, con il cranio minuscolo e le zampe dalle dita lunghe, lunghissime, e un tavolo occupato da altri scheletri ancora, ordinati in base a forma e dimensioni.
Mi resi conto di avere trattenuto il fiato. Quando inspirai mi immobilizzai, sbalordita. Conoscevo quell’odore.
Era la fragranza del mare prosciugato, tutto sale e niente alghe. Polvere e pelle vecchia e legno ancora più vecchio. Una vaga traccia di profumo verdeazzurro proveniente dalle piante nelle botti esterne. A un tratto mi ritrovai immersa nel ricordo, in piedi accanto a mio padre mentre estraeva un foglietto odoroso da una bottiglietta con la cera rossa e noi entravamo in un altro mondo.
Un giorno, tanto tempo fa, Emmeline, Jack incontrò un mago capace di trasformare l’oceano in ossi.
E ora ecco di nuovo quell’odore. Non uscito da una boccetta, ma sedimentato in quella stanza. Viveva lì.
Per anni avevo desiderato diventare una cacciatrice di odori, avevo voluto conoscere lo sfuggente Jack e vedere i luoghi in cui si era recato. E adesso, per la prima volta, ecco un posto che corrispondeva a una fragranza da cera rossa.
«Ti ho trovato, Jack», dissi nel buio.
Ma poi me ne rammentai: Jack non era l’unica persona di mia conoscenza a essere stata lì a Secret Cove.
«Chi eri, papà?» domandai alla stanza vuota.
Io e Dodge tornammo sui nostri passi lungo il molo, intanto il mio cervello vorticava. All’inizio non notai le figure che venivano verso di me e, quando lo feci, era ormai troppo tardi per nascondersi.
Erano in due, un uomo e una donna. I pantaloni della donna la fasciavano a tal punto che all’inizio pensai che avesse le gambe blu; mentre camminava le sue scarpe ticchettavano sulle tavole di legno. L’uomo accanto a lei era alto. Sulla spalla teneva uno strano congegno nero con un unico occhio che fissava il mondo.
“Ciclopi”, pensai.
La donna si accorse di me. «Ciao!» gridò. «Abiti qui?»
Si avvicinarono. Lei aveva labbra rosse che sembravano sanguinare, e ciglia spesse come ramoscelli. La circondava una fragranza complessa e piena di fiori che non erano mai stati vivi. Gli odori si arrampicarono uno sull’altro, permeando l’aria finché non provai il desiderio di scacciarli con le mani. Accanto a me Dodge si era immobilizzato.
«Stiamo realizzando un servizio su Secret Cove», spiegò lei. L’uomo sollevò il congegno che aveva sulla spalla, il cui occhio perlustrava la baia. Mi chiesi se potesse catturarmi, come la macchina di mio padre. Indietreggiai.
Dietro di me, la porta di uno dei cottage si aprì. Mi voltai e vidi Henry venire verso di noi, un martello stretto mollemente nella mano. «Chi siete?» domandò alla coppia.
La donna si fermò, un’espressione di imbarazzo in viso, poi toccò la spalla dell’uomo e lui abbassò la macchina. Mi spostai rapidamente su un lato del molo, osservando.
«Mi scusi», disse lei, allungando una mano verso Henry. «Sono Terry Anderson della CTV. Produciamo uno show chiamato Hidden Hideaways. Forse lo conosce?»
Henry scosse il capo. La donna aggrottò la fronte, ma poi sorrise.
«Comunque», aggiunse, «ci presentiamo senza preavviso in posti che secondo noi potrebbero diventare il prossimo luogo di villeggiatura alla moda. Ho visto una foto della vostra baia – nell’articolo del “Daily Sun” sulle bottiglie – e ho capito che dovevamo dedicarle un sevizio. Mi ci è voluto un po’ per organizzarlo, siete parecchio isolati.»
«Sì», confermò Henry.
«Lei dev’essere Henry, il proprietario, giusto?» Vedendolo annuire, la donna aggiunse: «E questa bellissima bambina è sua figlia?». La vidi spostare lo sguardo fra me e lui, notando i capelli bianchi di Henry e assumendo un’aria scettica.
«Una parente», disse lui.
«Sarei felice di poterla includere nelle riprese.» Terry fece un cenno al cameraman, che cominciò a ruotare la macchina verso di me. «Se non vi dispiace, naturalmente.»
«Non ama molto mettersi in mostra», sottolineò Henry, piazzandosi di fronte.
«Ne è sicuro?» chiese Terry. «È davvero incantevole.»
«Sicurissimo.»
«Bene.» Terry strinse le spalle. «In tal caso dovremo approfittare della luce e riprendere quegli adorabili cottage. Non le dispiace, vero?» Gli rivolse un sorriso disarmante. «I nostri spettatori se ne innamoreranno. Cambieremo la vostra vita. Anche se forse dovrete sistemare un po’ la strada, prima; la nostra auto è tutta ricoperta di fango.»
Fu un lungo pomeriggio. I due intrusi percorsero l’intero molo e Terry insistette per intervistare sia Colette che Henry. La sua voce era come il suo profumo: piena di attività, frenetica.
«Quindi ha ristrutturato da solo tutti questi cottage?» chiese. L’uomo girò verso Henry l’occhio nero della macchina. Fino a quel momento non ne era uscito nessun foglietto, notai.
Henry annuì. Lei aspettò ma lui non disse altro.
«E i vostri clienti?» domandò Terry, rivolgendosi con nonchalance a Colette. «D’estate questo deve essere un posto magnifico.»
Gli occhi di Colette erano affettuosi e invitanti. «Abbiamo alcuni ospiti meravigliosi, vengono ogni anno.»
«So che siamo fuori stagione, ma arrivano cacciatori di bottiglie?» volle sapere Terry, eccitata. «Continuiamo a leggere di quelle che spuntano sulle spiagge qui nei dintorni. Sigilli di cera, foglietti di carta all’interno ma niente messaggi. Un vero mistero, non trova?»
Io ero ferma in disparte, seminascosta da uno dei pali della veranda.
“Ti prego no, ti prego no, ti prego no”, pensai.
Colette mi rivolse un’occhiata fugace, poi sorrise a Terry.
«Non abbiamo mai avuto bisogno di clamore per fare affari», dichiarò.
«Be’, non ne avrete di certo bisogno adesso», asserì Terry. Si voltò a parlare direttamente alla macchina. «Prenotate oggi stesso, perché Secret Cove non è più un segreto. Questo è tutto da parte di Terry di Hidden Hideaways su CTV. Vi auguro di passare delle vacanze da favola.»