Guardammo il servizio sul televisore in soggiorno. Non riuscivo ancora a capacitarmi del fatto che mostrasse persone che non erano davvero lì, posti lontani.
«Dove sono gli odori?» avevo chiesto a Henry la prima volta in cui me l’aveva mostrato, e lui aveva ridacchiato.
«Ora, quello sì che sarebbe straordinario», aveva ribattuto. Avevo aperto la bocca per dirgli della macchina di papà ma poi me l’ero ricordata in frantumi sul pavimento del capanno e avevo preferito tacere.
Nei giorni successivi alla scoperta dell’edificio con gli ossi appesi, avevo esaminato ogni macchina presente nella casa di Henry e Colette. Avevo trovato quelle che catturavano visi o voci oppure suonavano musica, ma nessuna di esse somigliava a quella di mio padre.
Lo rividi in piedi nella casetta a imprimere su un pezzo di carta gli aromi della nostra vita.
«Come funziona, papà?»
«Scienza e magia, Emmeline.»
Ormai qualsiasi mio pensiero legato a papà era così: ogni ricordo trasformato in una domanda. Le mie riflessioni erano impegnate in una perenne ricerca, un riesame del passato a caccia di indizi.
«Perché mio padre è andato sull’isola?» chiesi a Henry la sera dopo aver scoperto l’edificio azzurro.
Scosse il capo. «Non lo so proprio, tesoro. Mi dispiace.»
Era la risposta che mi aspettavo, ma ciò non rese più facile accettarla. Quella era la mia ricerca, poco ma sicuro, e non avevo granché su cui basarmi a parte i ricordi e gli odori di una stanza piena di ossi.
Henry, Colette e io eravamo seduti sul divano a guardare lo schermo sfavillante del televisore, in attesa. Dodge era accucciato sul pavimento, il mento posato sul mio ginocchio.
«Eccolo!» esclamò di colpo Colette, indicando lo schermo. I nostri cottage dai colori vivaci giravano intorno all’acqua come fiori selvatici. Henry appariva burbero ma adorabile, il benvenuto riluceva negli occhi di Colette.
«In fondo a una lunga strada di terra battuta c’è un frammento di magia.» La voce di Terry sgorgò dalla scatola mentre l’obiettivo della telecamera seguiva la curva della baia, le barche nel porto.
«È magnifico», commentò Colette, baciando Henry sulla guancia. Lui sorrise e le prese la mano. Li guardai come se fossero una fiaba che potevo leggere.
Le telefonate iniziarono l’indomani mattina. Alla fine della settimana Colette stava già usando un messaggio registrato per non dover rispondere continuamente al telefono. Mi ci volle un po’ per abituarmi alla voce incorporea che fluttuava nella casa come un fantasma: «Risponde il Secret Cove Resort. Ci spiace dovervi informare che siamo al completo per l’estate ma…».
«Cosa ne sarà dei nostri clienti regolari?» chiese Henry mentre facevamo colazione.
Lei stava appuntando qualcosa sul registro delle prenotazioni, accigliandosi. «Ho tenuto liberi i loro periodi, ma non sarà facile.»
«Le cose cambieranno», annunciò lui. Si alzò e raggiunse la finestra. La baia era silenziosa e tranquilla, la nebbia tanto fitta da scoraggiare persino i pescatori. Sottili fili bianchi erano intrecciati ai rami degli alberi, smorzando ogni cosa.
Colette posò la matita e lo guardò. «Lo so, lo so… ma i soldi ci farebbero comodo.»
Lui si irrigidì ma dopo un attimo tornò al tavolo e le si sedette accanto. «Sto pensando di ristrutturare la pensione», disse. «Potrei vedere che cosa c’è da fare.»
«Sarebbe magnifico», replicò lei, la voce colma di sollievo.
Sulla cucina calò il silenzio. Dopo un po’ Henry si alzò e mise i piatti nel lavandino.
«Meglio che mi metta al lavoro», disse.
«Dovremmo procurarci una connessione internet?» chiese Colette mentre lui usciva dalla stanza. Lo vide esitare. «La gente continua a chiederla.»
«No», rispose Henry in tono fermo. Si girò a guardarla. «Hai visto cosa è successo al Big Cove Lodge, George dice che ormai è tutto un monitor. Farò qualsiasi altra cosa, ma non quella.»
Se ne andò senza aggiungere altro. Colette lavò i piatti mentre lo guardava scendere con passo pesante lungo il molo. Lo avevo fatto succedere io, pensai. Le mie bottiglie avevano attirato quella donna nella nostra baia, e adesso Henry era triste e Colette aveva l’aria preoccupata. Colpa mia. Di nuovo.
Dopo un po’ Colette venne a sedersi al tavolo, di fronte a me. «Avremo bisogno del tuo aiuto, ma chérie.»
La fissai, titubante.
«Quest’estate verranno un sacco di persone», aggiunse.
Scossi il capo.
«Lo so», disse lei, «ma puoi aiutarmi a pulire i cottage e a cambiare le lenzuola; e avrai modo di fare pratica con la gente prima di iniziare la scuola.»
«La scuola?»
«Sì. Ti piacerà. Ci saranno ragazzi della tua età, libri…»
Scossi il capo. Il pensiero di un gruppo di ragazzi mi paralizzò. Mi ero a malapena abituata a Henry e Colette. E cosa avrei fatto senza Dodge che mi mostrava di chi potevo fidarmi? Qualcosa mi diceva che i cani non andavano a scuola.
Colette sorrise, ma il suo sguardo era comprensivo. «Non abbiamo altra scelta, temo. Ho parlato con i tizi del distretto scolastico. Possiamo tenerti a casa questa primavera, ma in autunno dovrai andarci.»
Tentai di nascondere il panico che provavo.
«Non temere», aggiunse lei, «andrà tutto bene.»
Il telefono squillò di nuovo.
Benché ci fosse parecchio da fare prima dell’arrivo dei villeggianti estivi, ogni mattina Colette mi riservava un paio d’ore per darmi lezioni. Non le rivelai che era proprio così che papà era solito iniziare le giornate e che ogni qual volta io e lei ci sedevamo al tavolo della cucina e aprivamo un libro mi si spezzava il cuore.
«Sai parecchie cose», mi disse in modo incoraggiante, «soprattutto sulla scienza. Tuo padre è stato bravo.»
“Solo che non mi ha mai spiegato la cosa più importante”, pensai io.
Il pomeriggio lavoravo con Henry nella pensione mentre Dodge ci teneva compagnia. Là faceva freddo, ma mi piaceva il ritmo costante del lavoro fisico. Imparai a tenere in mano un pennello, a togliere dalle finestre ottant’anni di sudiciume, a piantare una fila di chiodi diritti. Era un sollievo sentire la solidità di un martello o un pennello, sapere che l’oggetto nella mia mano esisteva e l’indomani sarebbe stato ancora lì, che era ciò che era e nulla più.
In genere restavamo in silenzio, ma a volte riuscivo a convincere Henry a raccontarmi storie sulla baia.
«Quelli sono ossi di balena?» domandai un giorno, indicando con il pennello l’edificio azzurro adiacente. Un paio di gocce di cremosa vernice bianca caddero sul pavimento. Afferrai uno straccio per toglierle prima che si asciugassero.
«Ah», ribatté. «Il museo delle balene. Sono del professore. Le persone gli portavano gli scheletri che trovavano e lui li ripuliva e li donava ai musei.»
“Il mago.” «Adesso dov’è?» chiesi in fretta. Forse il professore poteva rispondere alle mie domande.
«Non lo so.» Henry si voltò a guardarmi, incuriosito. «Veniva qui ogni estate, ma ormai non lo fa da anni. Era anziano… Ho conservato gli ossi, per sicurezza, ma...»
Mi sembrò quasi di sentire chiudersi la porta dell’occasione. “Un altro indizio perso.” Ogni chance di ottenere una storia vera che mi si presentava scompariva in breve tempo. Alla fine la verità sembrava inafferrabile come il profumo di violette. Papà mi aveva spesso mostrato come la loro fragranza potesse essere lì, nitida e meravigliosa, e poi svanire, solo per riaffiorare pochi minuti dopo più forte che mai. Non potevi controllarla, non potevi tenertela stretta. All’epoca mi era sembrata una cosa magnifica.
Henry intinse il pennello in un barattolo di pittura di un bianco acceso e cominciò a verniciare la cornice ornamentale della finestra. Ascoltai il sommesso fruscio delle setole sul legno.
«Tu perché sei venuto qui?» chiesi dopo un po’.
Inclinò il pennello intorno a un angolino difficoltoso. «Ero stanco della gente», spiegò, lo sguardo fisso sul suo lavoro. «C’era la guerra. Ero stato costretto a fare alcune cose di cui non andavo fiero e che non volevo rifare, mai più.» Si voltò a guardarmi. «Questo posto può guarirti, se glielo permetti.»
Ignorai il suo commento, volevo il genere di guarigione che scaturisce dalle informazioni. «Chi altro vive là sulle isole?» chiesi.
«Pensavo avessimo finito con le interviste.» Ma sorrise mentre lo diceva. Mi tolse di mano il pennello e mi diede un martello. «Ci sono alcune tavole allentate. Controlleresti i chiodi, per favore?»
«Ti prego», replicai.
Sospirò, riprese il pennello e parlò mentre dipingeva. «Be’, c’è Old Man Jenkins. A vent’anni ha comprato una canoa e ha cominciato a esplorare la zona. Ha acquistato una vecchia casa galleggiante da un pescatore per quaranta dollari. Vive ancora lì, solo che è troppo vecchio per pagaiare fino in città. Gli porto le provviste una volta ogni tanto.»
«Abitavamo vicino a lui?» domandai. Le mie mani vagavano sulle assi del pavimento, tastandole in cerca del bordo affilato di un eventuale chiodo sporgente. Ne trovai uno. Aspettai una risposta.
«No», disse Henry, e mi sembrò quasi di sentirgli calcolare mentalmente le distanze. «La più vicino a voi era Mary, che abitava a un paio di isole di distanza. Ha perso il marito a causa di un incidente durante un taglio degli alberi, ma è rimasta comunque sulla sua isola. Ha anche tre figli.» Scosse la testa, ammirato.
“C’erano altri bambini. Avrei potuto avere degli amici. Adesso non sarei così spaventata.”
E poi… “Avremmo potuto sopravvivere.”
Picchiai il martello sul chiodo rialzato, con forza.