Con l’avvicinarsi dell’estate la conversazione sui preparativi per i nuovi ospiti si fece più animata.
«La poltrona nel numero due è davvero malconcia», sottolineò Colette.
«È la preferita di Jerry», ribatté Henry. «Dice sempre che è il posto ideale in cui sedersi dopo una giornata di pesca.»
«Lo si capisce dall’odore», commentò lei.
Progettava di andare in città per fare provviste. Data la lunghezza del viaggio avrebbe dovuto passare la notte là.
«Vuoi venire?» mi chiese.
La guardai, orripilata.
Scoppiò a ridere. «Alloggerò in un albergo, mangerò al ristorante.» Menzionò quelle cose come se potessero risultare allettanti.
«No, grazie.»
«Sai, Emmeline, non puoi nasconderti in eterno.»
A quanto pareva aveva dimenticato di chi ero figlia.
L’indomani mattina, di buon’ora, Colette salì sul camioncino sferragliante e imboccò la strada sterrata. Tornò due giorni dopo con sacchetti di lenzuola, prodotti per la pulizia e una poltrona con l’odore di plastica racchiuso nel filato del tessuto. La mattina dopo Henry mi aiutò a sistemarla nel numero due, ma subito dopo andò sulla sua barca.
«Gli passerà», mi disse Colette. «Deve solo capire e accettare le cose. Non ama i cambiamenti, ma di questo abbiamo bisogno e lui lo sa.»
Lontano, sull’acqua sentii spegnersi il motore sputacchiante. Riuscii a stento a distinguere Henry seduto là, appena oltre la baia, il viso rivolto al cielo, la mano che penzolava vicino all’acqua. Sapevo esattamente come si sentiva.
Quando infine gli ospiti arrivarono portarono con sé il caos. I bambini correvano e urlavano, gli adulti oziavano e ridevano. Henry assunse un giovanotto della città perché si occupasse delle consegne al posto suo, e adesso la sua barca era sempre piena di persone che volevano fare escursioni a caccia di bottiglie o qualcosa che definivano giro turistico. Ogni volta che la barca rientrava, correvo in un punto da cui potevo vederle scendere ed esaminavo le loro mani in cerca di eventuali boccette con la cera rossa, ma apparentemente non ne erano rimaste altre da trovare.
Forse i sigilli di cera si erano rotti e l’acqua era entrata. Forse si erano inabissate. Forse quella nel mio cassetto era davvero tutto ciò che restava. In alcuni giorni il pensiero mi colmava di sollievo, in altri di panico. Mi tenni tutto dentro. Lì era più al sicuro.
Henry cercava di entusiasmarsi per l’attività nel resort, ma mi accorgevo che ne era logorato. Dietro le quinte, Colette era un turbine in perenne movimento. Alla fine di ogni giornata lei e Henry si sedevano sulle rispettive poltrone in soggiorno, gli occhi pesanti di stanchezza, finché qualcuno non picchiava sulla porta d’ingresso e chiedeva sapone o ghiaccio o si lamentava di qualcosa chiamato ricezione del cellulare. Colette aveva ragione: loro due non potevano fare tutto da soli.
Così mi diedi da fare con le pulizie.
A dispetto dei miei timori non era un brutto lavoro. Quando gli ospiti se ne andavano entravo nel loro cottage, chiudevo la porta e rassettavo per chi sarebbe arrivato dopo. Dodge veniva con me e restava a guardare mentre pulivo il pavimento e cambiavo le lenzuola. Non mi piaceva il detersivo che dovevo usare per i pavimenti, che non aveva affatto l’odore del pino raffigurato sul flacone, ma mi piaceva fare i letti: si trasformava in una sorta di gioco di indovinelli. Mentre toglievo le lenzuola sgualcite, l’odore della persona che vi aveva dormito si levava nell’aria. C’era l’odore di sudore rotondo e quasi dolciastro di un bambino che aveva trascorso la giornata a esplorare i dintorni tutto contento o l’afrore dai bordi più affilati di uno che invece era andato a letto infelice. Con i letti matrimoniali arrivai a capire che gli odori di due persone potevano mescolarsi come l’acqua piovana e a distinguere le occasioni in cui invece restavano divisi, gli aromi separati. A volte c’erano profumi irreali, che si agitavano e parlavano a voce troppo alta, ma sotto di essi riuscivo sempre a individuare la persona. Tristezza, come il succo violaceo di una mora. Paura, come l’odore metallico di un temporale imminente. Amore, come la fragranza del pane appena sfornato. Stranamente il gioco non era poi tanto diverso dal leggere gli odori della nostra isola. Le essenze erano sempre legate a ciò che cresceva o che moriva, ciò che avrebbe retto fino al termine della stagione seguente oppure no. Solo che l’origine erano le persone invece che alberi, fiori e terriccio. Forse potevo decifrarle, alla fin fine. Il pensiero mi dava speranza.
Per gli ospiti che si fermavano più a lungo andavo una volta a settimana a cambiare lenzuola e salviette mentre loro erano fuori. In quei bungalow si respirava un’atmosfera diversa, pieni com’erano di effetti personali. Una scarpina rossa sotto un letto, un berretto di un azzurro brillante con la scritta JUST DO IT sulla visiera. Flaconi e tubetti sparsi in bagno sul piano del lavandino. Leggevo le etichette: SCHERMO SOLARE, ANTIDOLORIFICO, SIERO ANTIETÀ; sembrava che mio padre non fosse l’unico a tenere la magia dentro le bottigliette.
C’era qualcosa di inquietante nel trovarsi fra gli oggetti personali altrui. Le vite in quelle stanze sembravano esposte. Ripensai al nostro capanno come l’avevo lasciato, con il libro di fiabe caduto accanto alla poltrona, i pezzi della macchina di papà sparsi sul pavimento, le bottiglie dei foglietti odorosi vuote. Quale storia avrebbero raccontato a uno sconosciuto?
In un pomeriggio di tarda estate ero nel cottage giallo; sollevando un cuscino per sfilarne la federa, vi trovai sotto qualcosa di rosa, accuratamente piegato. Quando lo presi per spostarlo mi si aprì fra le mani, e penzolò lungo e setoso, emanando un profumo di vaniglia e cannella. Lingerie. In TV avevo visto una donna bellissima con addosso qualcosa di simile.
Mentre tentavo di piegare quell’indumento scivoloso la porta si aprì. Una donna entrò, bloccandosi di colpo quando mi vide.
«Cosa stai facendo con quello?» chiese.
Lasciai cadere la camicia da notte, che fluttuò fino a terra come alghe che ondeggiano nell’oceano.
«Stavo solo rifacendo il letto», balbettai. Sentivo il viso in fiamme.
«Dammelo!» disse stizzita lei, il volto arrossato come il mio. Quando si avvicinò colsi l’odore del bianco burroso della noce di cocco, e una punta di sudore. Raccolsi l’indumento di seta e glielo passai, tremando. Mentre lo facevo, il mio naso inalò di nuovo, automaticamente, e percepii qualcosa. Sul tessuto non c’era nessuna fragranza umana, nessun profumo di sogni e tepore. Loro si trovavano lì da una settimana. Non aveva senso.
«Mi dispiace», dissi. «Sono sicura che è ancora pulita. Ho appena spazzato il pavimento.»
Lei mi guardò. «Ho intenzione di metterla, sai», spiegò. «Solo che non ho mai trovato il momento…» Si interruppe. «Oh, per l’amor di Dio, non intendo parlarne con te.»
Andò in bagno e chiuse la porta a chiave, poi aprì l’acqua del lavandino e la lasciò scorrere. Rimasi ferma lì per un istante, indecisa sul da farsi. Non riuscivo a capire cosa fosse successo, capivo solo l’odore di solitudine sotto la noce di cocco e il sudore sulla pelle della donna.
Terminai di fare il letto, nel modo più ordinato possibile. In seguito, quando fui sicura che lei era fuori, sgattaiolai di nuovo nel cottage per lasciare sul cuscino una rosa selvatica, rosa contro il tessuto bianco.
Il mattino dopo vidi la donna e il marito passeggiare sul molo. Si tenevano a braccetto, lui aveva la testa china su quella di lei. La rosa era infilata nel nastro del cappello di paglia della donna.
Un sorriso ebete mi si allargò sul volto. Forse riuscivo a capire le persone, alla fin fine. Forse la scuola non sarebbe stata poi così terribile.
Mi sbagliavo.