Il vecchio camioncino risalì lo sterrato sferragliando e io guardai tutto quello che conoscevo scivolare via con una velocità allarmante. Le mie dita stringevano con forza la maniglia della portiera e percepivo ogni sobbalzo nei piedi, nella spina dorsale, nel cervello. Gli alberi, fitti su entrambi i lati della strada, si levavano intorno a noi come onde che si infrangono sulla scogliera. Imboccammo una curva e io trattenni il fiato mentre sentivo il corpo premersi contro la portiera.
Colette mi lanciò un’occhiata. «Scusami», disse. «Avevo intenzione di portarti in città in modo che potessi abituarti a tutto prima dell’inizio della scuola, ma poi sono arrivati gli ospiti e…»
«È così veloce», commentai, non sapendo nemmeno io se mi riferissi al camioncino o a tutto il resto.
Lei picchiettò il dito sul cruscotto. «Guarda», replicò. «Non troppo male.»
Il cerchio sul cruscotto aveva un’unica lancetta, ferma sul quindici. Quindici erano i minuti che componevano un quarto d’ora. Più ore di quelle di una mezza giornata. Più dei miei anni. Non avevo idea di cosa c’entrasse quel numero con il camioncino.
«Ci saranno meno scossoni quando avremmo raggiunto la strada principale», aggiunse mentre il veicolo passava sopra una buca con un sussulto torcibudella.
Quando arrivammo in cima alla collina i boschi scomparvero. Guardai giù verso una conca ingombra di cataste di bastoncini, o così sembrava. Quando ci avvicinammo capii che erano alberi. Centinaia e centinaia, privati dei rami, impilati. Sentii il profumo di resina e segatura che riempiva l’aria laddove un tempo c’erano stati rami, tronchi, corteccia, fogliame.
«Che cos’è?» domandai a Colette.
«La segheria», rispose. «In passato era molto più grande.»
Non riuscii a immaginare un più grande. Io e papà avevamo tagliato legna, certo, ma un albero alla volta, e solo se non ne era già caduto qualcuno da solo. Quel posto somigliava al bosco dopo il passaggio dell’orsa.
Io e Colette scendemmo nella conca, costeggiandone il bordo fino al lato opposto, dove la terra battuta lasciava spazio a qualcosa di liscio e nero, e le ruote sospirarono di sollievo. Di colpo i bordi della strada erano di nuovo occupati dagli alberi, come se ciò che avevamo appena oltrepassato non esistesse.
«Ormai non manca molto», annunciò Colette.
Raggiungemmo un altro varco fra gli alberi e lì c’era la cittadina di Port Hubbard, un insieme di sporchi edifici bianchi raggruppati come cirripedi su uno scoglio. Colette elencò i nomi mentre passavamo – supermarket, caffetteria, ferramenta – come se per me significassero qualcosa. Mi chiesi quanto ci sarebbe voluto per staccare fino all’ultimo cirripede di negozio, per lasciar tornare gli alberi.
«Eccoci qui», annunciò lei dopo qualche istante, costringendomi a tornare al mondo reale. Vidi un fazzoletto d’erba e un edificio rettangolare con finestre quadrate disposte a intervalli regolari. Era la cosa più noiosa che avessi mai visto.
«D’accordo», aggiunse, e sentii l’allegria extra nella sua voce. «Abbiamo un appuntamento presto, per poterti aiutare a sistemarti prima dell’arrivo degli altri studenti. Vogliamo andare a conoscere la preside?»
“No”, pensai, ma persino io capivo quando una domanda non era una vera domanda.
«Okay», dissi.
L’ufficio della preside si trovava al centro dell’edificio, la porta seminascosta dietro un alto bancone, come se non volesse davvero essere trovata.
«Mi spiace, ma non ci sono fondi per il sostegno», spiegò la preside a Colette. «Qui ho dall’asilo alle superiori, tutte in un solo edificio, e più tagli al budget che studenti. Dice che la ragazza ha appena compiuto tredici anni…»
“Il primo giorno di primavera”, pensai.
Una sera, dopo cena, Colette aveva tirato fuori una torta con delle candeline e mi aveva mostrato la data sul calendario. Non avevo avuto il coraggio di dirle che io e Dodge avevamo seguito i nostri nasi fino al limitare del bosco e trovato delle violette due giorni prima; vi avevo affondato il viso e avevo pianto.
«Quindi dovrebbe frequentare l’ultimo anno delle medie», proseguì la donna. «Cominceremo da lì e vedremo come va.»
Rimasi seduta sulla sedia, ascoltando a stento. Avevo imparato che a volte è meglio lasciar perdere le parole e sentire gli odori. Quelli della preside erano robusti, ordinari: uova strapazzate e sapone.
«È una ragazza fuori dal comune…» cominciò a spiegare Colette.
«Ne sono sicura», ribatté lei.
Annusai gli aromi dei cuscini del divano stinti, tè vecchio e sofferenza ancora più vecchia, ruvida e asciutta come carta vetrata. La preside picchiettò con la matita sulla scrivania, alzando gli occhi verso l’orologio.
«D’accordo, allora», disse. «Staremo a vedere.»
Colette esitò, guardandomi. Avevo sempre saputo che sarebbe andata via, ma il senso di abbandono mi assalì all’improvviso. Se l’avessi guardata uscire sarei crollata, così serrai gli occhi con forza.
«Emmeline?» disse. Li tenni chiusi. «Forse è troppo presto…»
«Ha tredici anni. Starà benissimo.» Il tono della preside era risoluto. Vi fu un lungo silenzio.
Alla fine sentii Colette alzarsi. «Tornerò a fine giornata, Emmeline. Potrai raccontarmi tutto delle tue avventure.» Mi accarezzò la testa con la mano morbida. Captai gli odori di caffè e pane appena sfornato, li sentii andarsene via con lei.
«Caroline», chiamò la preside, e udii dei passi affaccendati dietro di me. «Puoi accompagnare questa signorina nell’aula sette?»
«È cieca?» chiese con esitazione una voce femminile. Aprii gli occhi, la fissai.
«Oh!» disse lei, poi si ricompose. «Bene, okay, andiamo.»
Scendemmo lungo un corridoio che odorava di olio bollente e patate. Era ampio almeno il triplo dei sentieri fra i boschi della nostra isola, ma sentii comunque le pareti richiudersi sopra di me.
Dopo una quarantina di passi la donna aprì una porta sulla destra e mi fece entrare in una stanza quadrata e bianca, con strette finestre lungo un lato e una grande scrivania nera sul davanti. Di fronte alla scrivania c’erano file di tavolini, ognuno collegato a un sedile, simile al guscio di un granchio paguro.
«Siediti dove preferisci», disse lei. «Gli altri arriveranno presto.» Posò un foglio di carta sulla scrivania nera e uscì.
Raggiunsi l’ultima fila e scivolai su un sedile nell’angolo, aspettando. Dopo pochi minuti sentii delle voci rimbalzare l’una sull’altra e cominciare a riempire i corridoi. La porta si aprì per lasciar entrare una marea di rumore e corpi. Ragazzi dalle membra lunghe e che odoravano di sudore ed energia. Ragazze fradice di limone o fiori o fragola. Erano come i colori saturi che avevo visto sulle riviste. Troppo dolci, troppo forti. Mi spinsero a sfregarmi il naso.
«Cosa fai?» Un ragazzo era fermo accanto al mio banco. «Ti levi le caccole?»
Non sapevo cosa volesse dire, ma l’odore che emanava somigliava alla fiamma di un cerino, contratto ed eccitato. Mi sembrò quasi di sentire il basso ringhio ammonitorio di Dodge.
La stanza si riempì, ragazze e ragazzi sgomitavano per i posti. Il ragazzo-cerino si sedette davanti a me, spingendo indietro il suo banco tanto da costringermi a ritrarre i piedi, ma la sedia accanto alla mia rimase vuota. Arrivò l’insegnante, una donna magra e vivace dagli occhi scuri.
«Benissimo», disse, inspirando sonoramente. «Bentornati. Ormai ci conosciamo tutti. Siamo pronti per un altro anno di scuola?»
Sentii alcuni gemiti soffocati. L’insegnante prese il foglio lasciato sulla cattedra dall’altra donna e scrutò la stanza.
«Emmaleen?» chiese. Guardai gli altri, in attesa. «Emmaleen», ripeté lei, percorrendo una delle corsie fra i banchi e fermandosi accanto a me. «Non abbiamo tempo per i giochetti, dovresti rispondere quando chiamo il tuo nome.»
«Quello non è il mio nome», replicai, sconcertata.
«Come ti chiami, allora?».
«Emmeline. Come Once upon a time, Emmeline.» Rividi il sorriso di papà, sentii la sua voce che rotolava intorno alla rima.
Vi fu uno scoppio di risa. Mi guardai intorno, sbalordita dai visi larghi e increduli dei ragazzi seduti intorno a me.
«Svitata», disse quello davanti a me. Le parole invasero il ricordo, facendone arricciare i bordi.
«Basta così, Dylan», lo interruppe bruscamente l’insegnante. Si rivolse a me. «D’accordo, Emmeline», ed estrasse l’ultima sillaba come se fosse una patata incastrata nel terreno, «ora che abbiamo concluso la lezione di dizione possiamo dare inizio al nostro anno scolastico?»
Scivolai ancor più giù sul sedile, fissando la sua schiena mentre tornava alla cattedra.
Avevo pensato che forse sarei riuscita a gestire la scuola, che avrei letto gli odori delle persone come leggevo le lenzuola nei cottage e che sarebbe andato tutto bene. Ma quella stanza era troppo satura di effluvi, di bisogni, di timori e segreti. Gli insegnanti si susseguirono – matematica e inglese e storia – e io cercai di ascoltare quello che dicevano ma le parole dovevano aprirsi un varco fra tutti gli altri messaggi che fluttuavano nell’aria e che mi deconcentravano. Gli insegnanti mi fecero alcune domande e la gioia del ragazzo di fronte a me aumentò a ognuna delle mie risposte maldestre. Alla fine rinunciarono.
«Ti lasceremo il tempo di ambientarti», dissero uno dopo l’altro, e persino nel clamore degli aromi riuscii a cogliere quello della loro delusione.
All’ora di pranzo, quando gli altri ragazzi corsero urlando lungo il corridoio verso l’odore di olio bollente e patate, io girai la testa nella direzione opposta. Captai il profumo dell’erba e lo seguii all’esterno. Vidi da una parte dei bambini piccoli arrampicarsi su qualcosa di simile a un albero metallico, dall’altra una fila di piante verdeazzurre uguali a quelle che crescevano davanti alla pensione: rosmarino, mi aveva insegnato Henry. Andai a sedermi lì accanto, lasciando che la loro fragranza spazzasse via la mattinata.
“Ti prego non farmi tornare dentro. Ti prego non farmi tornare dentro.”
Volevo scappare, trovare la strada, una barca, tornare all’isola. Non mi importava cosa c’era o non c’era là. Volevo solo il silenzio degli alberi, il conforto del mio soppalco.
Una delle mie compagne di classe si avvicinò attraversando il parco giochi, con mezzo sandwich stretto in mano.
«Ciao», mi salutò, sedendosi sorridente, «da dove vieni?»
Non riuscii a sentirla bene; era una delle ragazze fragola, l’odore sembrava arrivare dalle sue labbra. La dolcezza stucchevole pervase l’aria come un’ondata di polline.
«Secret Cove», risposi.
«Prima di quello», mi sollecitò lei.
Non ottenendo risposta, abbassò la voce.
«Tutti sanno che vieni dalle isole. Com’era là?» Le brillavano gli occhi mentre si allungava in avanti, ma non sembrava pericolosa. Inalai a fondo, cercando la sua vera essenza.
«Cosa stai facendo?» chiese, ritraendosi.
I miei pensieri divennero caotici. In preda al panico, staccai un rametto di rosmarino.
«Tieni», dissi, porgendoglielo.
«Cosa?»
«Puoi strofinarlo fra le mani», farfugliai. «Bilancerà il rosa.»
«Cosa?»
«La fragola…»
«Mi stai dicendo che ho un cattivo odore?» La ragazza si alzò.
“Strano: anche la rabbia rappresentava un efficace contrappeso al rosa.”
«Scusa se ho cercato di essere gentile, difetto di natura», disse.
Poi se ne andò.
Rimasi seduta lì, tremando, finché la campanella suonò e l’insegnante radunò i bimbi.
«Sai dove devi andare, tesoro?» mi chiese, e la morbidezza nella sua voce mi fece venire voglia di piangere.
Mi portò via con sé, lasciandomi davanti alla mia aula. Non mi resi conto del mio errore finché non vidi gli altri studenti alzare gli occhi dai banchi e notare i bambini sulla soglia. Vidi la ragazza-fragola allungarsi verso il ragazzo accanto a lei per dirgli qualcosa. Sentii i bisbigli correre avanti e indietro lungo le corsie fra i banchi come sabbia granulosa fra le dita. Vidi i sogghigni.
«Com’è andata?» chiese Colette quel pomeriggio, quando venne a prendermi.
Guardai il suo viso, ancora stanco dopo l’estate. Colsi l’odore di lana umida della preoccupazione. Non potevo tornare sull’isola, lo sapevo; Colette e Henry erano tutto ciò che avevo. Cosa sarebbe successo se fossi diventata troppo impegnativa per loro?
«Benissimo», risposi. «È andata benissimo.»