FISHER

Durante la seconda settimana di scuola comparve il ragazzo con i capelli rossi.

«Guardate chi è uscito dai boschi!» esclamarono in coro gli altri studenti vedendolo entrare nell’aula.

Lui piegò la testa e raggiunse rapidamente l’unico posto disponibile, quello accanto a me. Si sedette e io notai che portava le maniche lunghe nonostante la giornata calda. Sentii l’odore del nervosismo su di lui, ma sotto c’era l’aroma di fumo di legno di ontano, pulito e sincero.

Mi guardò e vide che lo stavo osservando. Per un attimo ricambiò la mia occhiata, poi piegò la testa di lato. I suoi occhi erano di un verde smeraldo, come gli alberi in primavera.

«Mi chiamo Fisher», sussurrò.

«Emmeline.»

Lui non rise. Io sorrisi. Fu tutto molto semplice.

piccolo fregio usato per separare

Come me, Fisher era una presenza quasi silenziosa nell’aula, ma il suo silenzio era il più attivo che avessi mai conosciuto. Lui somigliava a uno scoiattolo o a un topo, osservava tutto ciò che lo circondava, ovunque andasse. Sapevo che cosa voleva dire, anche se io usavo il naso invece degli occhi.

«Cosa vedi?» chiesi un giorno mentre sedevamo sul margine del parco giochi durante la pausa pranzo. Avevamo scoperto che era più semplice rimanere fuori; ovunque, in realtà, tranne che nel bar, che sembrava una spiaggia piena di gabbiani affamati. Era lì che avevo scoperto che Fisher stava ripetendo un anno.

«È talmente lento che non riesce quasi mai ad arrivare a scuola», aveva scherzato Dylan. Fisher era diventato rosso. Mi era dispiaciuto per lui, ma avevo anche tirato un sospiro di sollievo nel trovare qualcun altro strano come me.

Fisher indicò le altalene nel parco giochi. Una bimba ce la metteva davvero tutta con le gambe ma non riusciva a darsi molto slancio. Un bambino più o meno suo coetaneo aspettava e spostava il peso del corpo da un piede all’altro.

«Quel bambino laggiù sta per dare uno spintone alla bambina sull’altalena.»

«Come fai a saperlo?»

«Guarda la sua bocca.»

Il labbro del bambino aveva un angolo rivolto all’insù.

«Ora controllagli la mano.»

Guardai. Il bambino la teneva accanto al fianco, stretta a pugno. Captai una folata di qualcosa, qualcosa di pungente e avido.

«Ne sento l’odore», dissi. «Cioè… lo vedo, volevo dire.»

Il bambino diede uno spintone alla bambina facendola finire a terra. Lei cominciò a piangere e l’insegnante la raggiunse, spazzolandole i vestiti con la mano e portandola via. Il bambino si sedette sull’altalena e cominciò a muovere le gambe a stantuffo.

«La maestra ha paura di lui», spiegò Fisher. «Cosa ti dicono gli odori?» domandò di colpo.

Ascoltai, ma nella sua voce sentii solo curiosità.

«Tutto», risposi alla fine.

Lui annuì.

«Sai, una volta ho trovato una di quelle bottiglie», aggiunse. «Quelle sulle spiagge, hai presente?»

Non mi mossi.

«Sul foglietto ho sentito l’odore di qualcosa, ma nessuno mi ha creduto.»

I battiti del mio cuore si fecero rapidi e insieme pesanti. «Di cosa sapeva?»

«Di un posto in cui non ero mai stato.» Un accenno di sorriso gli balenò sul volto.

“Cera rossa”, pensai.

Cercai di rallentare il ritmo dei miei palpiti. Lui era riuscito a captare un profumo che nessun altro aveva saputo cogliere. Non potevo raccontargli come le bottiglie fossero finite in acqua, non senza spiegargli un sacco di altre cose che preferivo nessuno sapesse, ma mi crogiolai al pensiero che esisteva qualcuno che ragionava come ragionavo io.

«Cosa ne è stato della bottiglia?» domandai.

«L’ha presa mio padre.» Fisher si strinse nelle spalle. «Ha detto che aprendola le avevo fatto perdere valore.»

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Stava diventando evidente che la mia frammentaria preparazione accademica avrebbe causato parecchi problemi agli insegnanti. Inoltre non ero molto partecipe, e quasi tutti loro trovavano più facile ignorarmi, il che mi andava benissimo. L’unica eccezione era l’insegnante di scienze, la signorina Boyd, che sembrava essersi assunta la missione di farmi sentire speciale, il che in verità peggiorava le cose con gli altri ragazzi.

Un lunedì entrò in classe, l’odore dell’eccitazione le ronzava sulla pelle.

«Oggi andremo in Francia», annunciò, «per studiare alcuni animali davvero straordinari.» Guardò verso il fondo dell’aula, trovò i miei occhi e sorrise.

«Hanno un naso che è fra i migliori del mondo», aggiunse. «Riescono a scovare i tartufi, nascosti sotto terra.»

«Cos’è un tartufo?» chiese uno dei ragazzi.

«Una specie di fungo.»

«Abbiamo funghi ovunque.» Dylan sembrava ben poco colpito.

«È un tipo di fungo speciale», spiegò la signorina Boyd. «Proprio quest’anno un unico tartufo da nove etti è stato venduto per trecentotrentamila dollari statunitensi. Capite com’è importante un buon naso?»

Gli alunni inspirarono rumorosamente all’unisono. Lei mi sorrise di nuovo. Afferrai il tepore di quella affermazione, lo tirai verso di me.

«Che tipo di animali?» chiese Dylan, inclinandosi all’indietro con la sedia.

La signorina Boyd aprì un grosso libro e lo tenne sollevato. Non riuscii a vedere l’illustrazione.

«È un maiale?» domandò la ragazza-fragola, voltandosi a guardarmi a bocca aperta, estasiata. Avevo sperato che dimenticasse il nostro breve incontro nel parco giochi, ma evidentemente non era stato così.

La signorina Boyd si rese conto del proprio errore ma non poteva farci niente. Da quel momento divenni Miss Piggy. Sniffamerda. Grugniti e sonore inspirazioni mi seguivano lungo il corridoio e assediavano la mia sedia in aula. Alla fine della settimana mi sembrava di non avere scampo.

«Conosco un buon posto», annunciò Fisher quel venerdì.

All’ora di pranzo mi guidò lungo il corridoio e aprì una porta con la scritta BIBLIOTECA. Vidi varie file di libri che salivano fino al soffitto come cassetti di segreti.

«Oh», dissi, rilassandomi per la prima volta da quando Miss Piggy era entrata nella mia vita, e lui sorrise.

«Ti mostro il computer», annunciò, accompagnandomi fino a una fila di tre scatole con lo schermo simile a quello di un televisore. Si sedette di fronte a una delle tre e le sue dita digitarono una serie di lettere. La parola Google comparve di fronte a noi.

«Guarda», disse. «Magia.» Scrisse gatto e poi mi mostrò immagini e filmati di gatti e micini finché una donna non venne a dirgli che i computer servivano per le ricerche e noi ci lasciammo accompagnare fuori con riluttanza.

Quel weekend pensai solo al computer. Una macchina più magica e più potente di quella di papà. Non aveva odori, ma poteva condurmi ovunque, e diversamente da quanto succedeva con gli odori o il televisore potevo scegliere dove andare.

Avevo quasi rinunciato all’idea di poter scoprire qualcosa di più su mio padre o sul mio luogo d’origine, ma a quel punto intravidi una chance di riuscirci.

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Lunedì mattina Fisher non venne a scuola. Non mi ero accorta di quanta importanza avesse per me l’armatura emotiva della sua amicizia finché non venne a mancarmi, e a mezzogiorno ero già sopraffatta. Gettai il mio pranzo nel bidone della spazzatura e scappai in biblioteca.

Davanti ai computer c’erano altri ragazzi, quindi dovetti aspettare. Gironzolai nelle corsie fra i volumi, fermandomi nella sezione bambini, dove vidi diversi libri di favole posati su un lungo tavolo. Controllai ogni copertina, cercando scritte dorate, cercando la principessa e l’omino gobbo, ma nessuno di essi era quello con cui ero cresciuta. Trovai comunque tranquillizzante stare vicina a quei volumi, pur sapendo che se qualcuno della classe mi avesse vista avrei avuto altre prese in giro contro cui combattere.

Quando un computer si liberò andai a osservarne lo schermo vuoto. Mi fece ripensare al giorno in cui papà mi aveva dato un foglietto odoroso tutto mio. All’epoca non sapevo cosa significasse, cosa fosse in grado di fare. Avevo imparato ciò che avevo bisogno di sapere giocando allo scienziato.

Elimina le variabili, Emmeline.

Digitai il mio nome. La prima cosa che vidi fu il titolo di un libro, Emmeline, l’orfana del castello, ma era stato scritto centinaia di anni prima. C’era l’immagine di una donna con il mento severo e gli occhi scuri, ma era vissuta anche lei molto tempo prima, in un altro paese.

L’unica cosa rimasta era il significato del mio nome, lavoro, il che non mi stupì affatto.

Cos’altro potevo provare? Jack? John? Digitai foglietto profumato ma non ottenni altro che qualcosa chiamato «idee per il bricolage», idee che comportavano il lasciare a bagno la carta in foglie di tè e acqua. Tentai con ossi di balena ma si trasformò ben presto in una lezione di scienze.

Mi serviva qualcosa di più. Un indizio. Un’unica parola utile, ma non l’avevo.

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Quel pomeriggio Fisher venne a scuola. Pensai di raccontargli cosa avevo fatto, ma mi resi conto che sarebbe stato difficile riuscirci senza rivelargli che cosa stavo cercando. Non ero pronta a correre il rischio che lui trovasse tutto troppo bizzarro e smettesse di essere mio amico.

Era più taciturno del solito e mentre prendeva appunti vidi che teneva la mano in modo strano.

«Dove sei stato?» gli chiesi mentre uscivamo dalla scuola. «Cosa ti è successo alla mano?»

«L’ho picchiata contro lo stipite di una porta», rispose. «Stupido, eh?»

Nella sua voce c’era qualcosa che suscitò in me il desiderio di fargli altre domande, ma prima che potessi iniziare sentii dei passi dietro di noi.

«Ciao, Miss Piggy», disse Dylan, affiancandomi. Grugnì e grattò sul terreno con la punta della scarpa.

«Smettila», disse Fisher con voce tesa.

Dylan mi tirò un ricciolo. «Somigliano a codini di maiale.»

Non mi mossi.

«Vuoi annusare la mia merda, Piggy?» chiese lui tirando di nuovo, più forte.

«Non toccarla!» Le parole di Fisher erano talmente bollenti che l’aria circostante parve fumare.

«Wow», disse Dylan, indietreggiando.

«Lasciatela in pace, cazzo. Tutti.»

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Qualsiasi cosa si fosse impossessata di Fisher si ritrasse rapidamente, e anche se ne rimasi spaventata di fatto nessuno mi toccò più, in seguito. Non fisicamente, almeno. Ma niente poteva fermare i grugniti e le inspirazioni sonore e i bisbigli. Ero un bersaglio troppo allettante, persino con Fisher al mio fianco.

Nemmeno le dicerie cessarono, cambiarono semplicemente. Mio padre divenne un politico caduto in disgrazia; un assassino in fuga con un debole per i bambini; io ero stata rapita, scambiata nella culla; ero un clone che lui stava proteggendo da malvagi ricercatori governativi.

I ragazzi lanciavano le voci come fiammiferi accesi, per vedere cosa avrebbe attecchito. Io rimanevo zitta ascoltando lo sfrigolio e la scintilla delle loro parole, fingendo di essere acqua per poterle spegnere.