LA FINE DELLESTATE

Dopo qualche giorno partimmo con la piccola barca di Henry, lunga meno di cinque metri e scoperta. Splendeva il sole e il cielo era terso, le isole minuscole in lontananza. Henry era ritto a prua, le mani sul timone, raggiante per la gioia di essere fuori in mare. Fisher gli stava accanto e io guardavo il suo corpo rilassarsi, farsi più leggero a mano a mano che ci allontanavamo dalla baia.

Seduta sul sedile, sentivo il panico lambirmi i piedi, pronto a sollevarsi e a travolgermi come un’onda. Mi ero detta che ero preparata a tornare sulle isole. Credevo di aver dimenticato il giorno in cui Henry mi aveva portato a Secret Cove, ma il mio corpo lo ricordava e quando ci infilammo nello stretto e l’imbarcazione cominciò a impennarsi fra le correnti sentii il fiato farsi corto. Colsi l’odore del gasolio, quello dell’acqua fredda, l’aroma pungente dell’aria turbinosa, e di colpo ebbi di nuovo dodici anni, raggomitolata sul fondo della barca mentre sfrecciavamo fra le onde allontanandoci da tutto quello che conoscevo.

«Andrà tutto bene, piccola», mi aveva rassicurato la voce di Henry, sovrastando il rombo del motore. «Resisti.»

“Piccola allodola”, avevo desiderato dirgli, ma non lo avevo fatto, e nessuno mi aveva più chiamato così.

piccolo fregio usato per separare

Girai la testa rispetto ai fumi di scarico, aprendo i polmoni, per farvi entrare a forza l’aria pulita, salmastra. “È questo l’odore dell’adesso”, pensai. Smisi di ascoltare la conversazione fra Henry e Fisher mentre osservavo le isole in lontananza. Si avvicinavano in maniera lenta e costante, levandosi dall’acqua, velate da sempreverdi. Sentii in fondo ai muscoli la loro forza di attrazione. Desideravo quel posto con ogni parte del mio essere, ma ne ero al contempo atterrita.

Dopo più di un’ora lasciammo la maretta dello stretto e il sobbalzare della barca si attenuò. Scivolammo in un intricato labirinto di isole grigie e verdi, dalle pareti scoscese. Uccelli bianchi volavano sopra le nostre teste, per poi curvando scomparire. L’unico suono era quello del nostro motore.

Dopo un po’ Henry svoltò a destra imboccando uno stretto passaggio e ridusse la velocità finché non procedemmo quasi per inerzia. La superficie dell’acqua si calmò e si appiattì come uno specchio, sul quale la vegetazione circostante si rifletteva: sembrava di muoversi fra due mondi. Spuntò la testa di una foca i cui occhi castani e liquidi ci guardarono passare. Riuscii a sentire il profumo della magia nell’aria e avrei voluto singhiozzare di gioia e di dolore insieme.

“È questo che sei”, dissero gli alberi.

«Oh», mormorai, così sommessamente da dubitare di aver emesso un suono.

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In seguito uscimmo ogni due settimane circa per fare le consegne e ogni volta cercavo la mia isola. Desideravo disperatamente vederla e al contempo non volevo. Mi accorsi che Henry sembrava condurci a ogni isolotto tranne che al mio, come se questo fosse una fonte di calore a cui bisognava avvicinarsi gradualmente, abituandosi alla temperatura prima di toccarlo. Talvolta questo mi colmava di frustrazione, ma ne provavo anche sollievo. Avevo bisogno di tempo.

Mi succedeva qualcosa durante quei viaggi. A scuola, persino nella baia, i miei sensi erano sempre acuti, affinati, all’erta. Riuscivo a percepire il ronzio di ogni macchina, qualsiasi sfumatura della conversazione, persino il rumore del grattare e del tagliuzzare. Quando Henry puntava la prua verso le isole e il cielo si spalancava di fronte a noi, la mia percezione si spostava su un altro livello. Sentivo la mente farsi più leggera. Non appena avevo di fronte varie miglia di sola acqua i miei pensieri si aprivano, rallentavano, salendo di altitudine senza velocità. Riuscivo a individuare una balena grazie a una lontana increspatura sulla superficie, riuscivo a sentire la giornata muoversi sulla mia pelle. E riuscivo a cogliere gli odori. Oh, ci riuscivo benissimo.

«Guarda!» dicevo a Fisher, indicando ora il nido di un’aquila quasi in cima a un albero ora un gruppo di stelle marine abbarbicate a uno scoglio sott’acqua. L’istante dopo il mio naso captava l’odore di fumo di legno di cedro in lontananza oppure notavo una ripida scogliera grigia che sembrava la mia e sprofondavo nei ricordi: papà che lavorava sul nostro tavolo, guardava l’orsa fuori dalla finestra, si allontanava a nuoto da me. Uscivo dal mio corpo, e il mondo scompariva.

Fisher e Henry mi lasciarono elaborare la cosa da sola. Henry insegnò a Fisher come orientarsi nelle maree, come capire dal rumore quando il carburante cominciava a scarseggiare o il motore stava perdendo colpi. Lo spettacolo di loro due fermi l’uno accanto all’altro al timone era la mia stella polare.

«Stai bene, Emma?» chiese un giorno Fisher mentre ormeggiava.

Perché stava succedendo qualcosa anche fra noi due. Quando eravamo fuori in mare comunicavamo a gesti più che a parole, la sua mano sul mio braccio, il suo fiato sulla mia guancia. Là fuori, in mezzo a tutta quell’aria, i nostri aromi si intrecciavano fra loro e conversavano. Sembrava che con l’ampliarsi dell’orizzonte diminuisse il nostro bisogno di tenere le distanze. Ricordai il tono di voce di Colette quando aveva raccontato del suo primo incontro con Henry: l’amore è semplice e facile. Allora avevo pensato che non avrei mai conosciuto nulla del genere, e invece…

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Fu solo nel penultimo giorno d’estate che Henry ci portò oltre l’imbocco di un canale stretto e dalle sponde scoscese che ben presto curvava, scomparendo.

«Eccola», disse, guardandomi attentamente. «La tua isola.»

«Come la si raggiunge?» chiese Fisher, osservando l’acqua schiumante.

«Devi calcolare i tempi con estrema precisione», rispose Henry, voltandosi. «Riesci a passare soltanto durante l’apice della bassa marea, con la luna piena, e non puoi farlo con una barca più grande di questa.» L’orgoglio per la propria riuscita gli scaldò la voce. «Hai solo una chance al mese, forse due in estate quando le giornate sono più lunghe. In inverno è quasi impossibile.»

Ripensai a mio padre che tentava di nuotare attraverso quel caos – sempre che fosse almeno riuscito a raggiungere il canale – e sentii le parole di Henry sferrarmi un involontario pugno allo stomaco.

“Colpa mia.”

Fissai l’imbocco e pensai alla laguna all’interno, alla spiaggia su cui nessuno correva da anni. Ai frutti di bosco che crescevano abbondanti sui cespugli. Al capanno in attesa in fondo al sentiero.

«È come una fortezza», commentò Fisher, meravigliato.

«Ci abita qualcuno?» Le mie parole suonarono incrinate e bizzarre.

«No», rispose Henry. «Nessuno l’ha toccata.»

“Poverina”, pensai, “lasciata qui tutta sola.” Ne percepii la forza di attrazione, come una mano che ghermisse la mia.

«Mancano solo un paio di giorni alla luna piena», disse Fisher. Mi rivolse un’occhiata interrogativa.

«Un’altra volta», asserì Henry con un sorriso. «Per allora sarete a scuola.»

Persino dopo così tanti anni la prospettiva della scuola continuava a colmarmi di terrore. Guardai la mia isola e a un tratto il mio unico desiderio fu di trovarmi laggiù, nascosta fra gli alberi.

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Era più tardi del solito quando ci decidemmo a tornare verso il resort. Henry aveva descritto un lungo e lento cerchio intorno all’arcipelago che circondava la mia isola, capendo che avevo bisogno di tempo.

Ma Fisher divenne sempre più inquieto a mano a mano che la luce pomeridiana si affievoliva. Quando Henry gli passò il timone, puntò l’imbarcazione verso la baia e la fece sfrecciare fra le onde.

Avevamo quasi raggiunto l’ingresso della baia quando vidi entrarvi una barca da pesca, l’odore di benzina pesante sul vento. Fisher le lanciò un’occhiata rapida e accelerò, ma risultavamo perfettamente visibili dalla barca. Scorsi Martin al timone, lo stupore e la rabbia sul suo viso mentre fissava il figlio.

«Fisher, lui sapeva…» chiesi.

Fisher scosse il capo.

Arrivammo per primi al punto d’ormeggio. Fisher scese dall’imbarcazione e si diresse su per la collina prima che potessi anche solo salutarlo. Henry lo guardò andare via, con la preoccupazione negli occhi.

L’altra barca ormeggiò.

«Martin», disse Henry mentre il padre di Fisher risaliva il molo venendo verso di noi. Lui ci passò accanto senza dire niente, ma io sentii che si lasciava dietro una scia di odore acre come il caffè bruciato.

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L’indomani Fisher non venne al resort. Colette telefonò a casa sua ma non ebbe risposta.

«Probabilmente è solo confinato in casa», disse, ma percepii la sua esitazione.

Era l’ultimo giorno della stagione, l’indomani sarebbe iniziata la scuola. Gli ospiti e i ragazzi che durante l’estate lavoravano nel resort erano già andati via, lasciando a Colette e a me l’insormontabile compito di chiudere i cottage per l’inverno.

«Non possiamo certo finire tutto oggi», constatò lei, «ma vediamo cosa riusciamo a fare.»

Senza Fisher avevo parecchio lavoro. Non ebbi molto tempo per pensare e, comunque, preferivo non farlo. L’odore di caffè bruciato e benzina indugiava in un angolino della mia mente, persino mentre passavo la giornata immersa in una foschia di detergenti al profumo di pino e di detersivo per il bucato. Rassettai un cottage dopo l’altro, cercando di concentrarmi solo sulle incombenze da sbrigare. Non volevo pensare alla scuola. Non volevo pensare a Fisher. Se si trovava nei pasticci era per colpa mia. Ero stata io a costringerlo a uscire in barca. Lui non aveva voluto farlo e aveva cercato di dirmelo, ma io non avevo ascoltato.

Terminai con il cottage rosso e passai a quello azzurro. Gli ospiti avevano lasciato il genere di disordine che escludeva qualsiasi possibilità di mancia nella busta sul cassettone. C’erano stati dei bambini piccoli e trovai del dentifricio su ogni superficie del bagno, e persino sulla parete della camera. Sui fornelli della cucina c’erano pentole con pasta al formaggio vecchia di due giorni incrostata sul fondo. C’erano piatti sporchi nel lavandino e in camera. Calzini spaiati erano nascosti sotto il cuscino della poltrona e lasciati fradici nella vasca. Avevo imparato che non dovevo buttarli via, quello era il tipo di persone che chiamava sempre l’indomani. Figlio disperato. Calzini preferiti. Prego spedire. Spese postali a carico nostro.

Ma avevano lasciato anche qualcos’altro.

Passando lo spazzolone sotto il letto con più vigore del dovuto colpii qualcosa che scivolò dall’altra parte. Girai sul lato opposto e notai l’angolo di un libro rilegato, con un ampio abito bianco sulla copertina. Con il cuore che batteva forte mi chinai e lo raccolsi. C’erano raffigurati la principessa e l’omino gobbo. La scritta in lettere dorate: FIABE DA TUTTO IL MONDO.

“Il mio libro.”

Ma mentre passavo le mani sulla copertina mi resi conto che era una copia più recente. Lo sfogliai, facendo scorrere i bordi delle pagine sul cuscinetto carnoso del polpastrello. Un’imprecisata memoria muscolare, percependo un cambiamento, parve urlare dentro di me.

Non mancava nessuna pagina.

Rimasi immobile, come se il libro fosse un coniglio che rischiava di spaventarsi e fuggire. Lo riaprii con cautela, controllando ogni fiaba fino a trovare quella che non avevo mai visto prima. Mi sedetti sul pavimento con la schiena appoggiata al letto e cominciai a leggere.