LE STORIE

Per la prima volta in quattro anni non vedevo l’ora di andare a scuola. Pur non sapendo cosa significasse, la storia dell’usignolo era un segno. Doveva esserlo per forza, altrimenti perché mio padre avrebbe dovuto tagliarla dal mio libro? Forse stavolta avrei trovato una risposta. Dovevo solo arrivare al computer in biblioteca.

Morivo dalla voglia di raccontarlo a Fisher, ma quella mattina non venne da noi per farsi dare un passaggio fino a scuola. Quando entrai nell’aula, vidi che non era nemmeno lì. Trascorsi la mattinata in un alternarsi di ansia e impazienza. Mi preoccupavo per Fisher, poi guardavo l’orologio, cercando di far accelerare le lancette verso la pausa pranzo e la biblioteca, poi ricominciavo a preoccuparmi per Fisher.

Per una volta non mi curai degli altri ragazzi. Dylan mi passò un biglietto e io lo aprii distrattamente per trovarvi una favola scritta a mano con esplicite descrizioni di cosa faceva il principe alla principessa dopo averla destata dal suo sonno. Lessi il primo paragrafo e poi lo gettai nel cestino della spazzatura, lasciando Dylan a bocca aperta.

Quando suonò la campanella per il pranzo corsi in biblioteca e reclamai il computer. Non appena la pagina di Google comparve sullo schermo digitai Nightingale, controllando ogni lettera per non commettere errori.

L’elenco di link si rivelò lungo e ben poco utile. C’era una pagina di Wikipedia che descriveva l’uccellino in questione, con paragrafi pieni di termini polisillabici come quelli nei libri di scienze di papà. C’erano siti web relativi a un sistema di sicurezza, un ristorante e qualcosa chiamato «agenzia di marketing sperimentale». Li esaminai tutti senza trovare niente che potessi collegare a mio padre.

Trovai persino la registrazione del canto di un usignolo e premetti il pulsante START. Le note limpide e liquide riempirono la stanza come gocce di pioggia, attirandomi un’occhiata severa della bibliotecaria.

Poi passai alle immagini, una foto dopo l’altra di uccellini marroni sui rami o dentro al nido, il loro corpicino minuscolo e incantevole.

La pausa pranzo era quasi finita e l’alunna che aspettava dietro di me aveva cominciato a picchiettare la matita sul tavolo, seccata. Non stavo facendo alcun progresso. Non avendo altre idee cliccai sull’opzione AVANTI in fondo alla pagina.

Ed eccola lì. A circa due terzi della schermata c’era la foto di una lucida scatoletta d’argento, grande più o meno come un voluminoso tascabile. L’immagine era piccola ma l’avrei riconosciuta fra mille.

La macchina di mio padre! Cliccai fino a raggiungere la fonte ma, proprio quando le parole John Hartfell comparvero sullo schermo, suonò la campanella che segnava la fine della pausa pranzo. Emisi un breve gemito di frustrazione.

La bibliotecaria mi raggiunse.

«Ho bisogno di leggere questo», dissi, con voce disperata. «Altri cinque minuti.»

Lei scosse il capo. «Devi tornare in classe, ma potrei stamparti la pagina.»

«Sì, la prego», replicai, e mi misi accanto alla stampante, aspettando con impazienza che spuntasse il foglio. Lo afferrai e corsi in aula. L’insegnante non era ancora arrivata e i ragazzi stavano gironzolando per la stanza. Dylan mi guardò in cagnesco mentre raggiungevo in fretta il mio banco.

«Ho sgobbato su quella favola», si lamentò. Schivai istintivamente la mano che si allungava per palparmi il sedere mentre passavo. Avevo altre cose per la testa. Mi sedetti e cominciai a leggere.

JOHN HARTFELL SCOMPARE

«The Daily Sun»

26 settembre 1999

Il creatore del fenomeno dell’anno scorso, Nightingale, è svanito nel nulla. John Hartfell si è ritrovato al centro di infinite controversie…

Una mano mi strappò via il foglio a metà di una frase. Alzai gli occhi, sbalordita, per scoprire il viso di Dylan accanto al mio. Il suo fiato puzzava di prosciutto cotto e patatine.

«Che cos’hai qui?» chiese. Sollevò il foglio, pronto a leggerlo.

“No”, pensai. “No. No. No.” Non sapevo cos’altro dicesse l’articolo, sapevo solo che Dylan non poteva averlo. Mi guardai intorno. L’insegnante non c’era ancora.

«Ridammelo!» gli intimai, alzandomi.

Anche lui si alzò. Gli altri studenti si voltarono in contemporanea a guardarci. Dylan mi si avvicinò, il suo alito mi assaliva.

«Altrimenti?» chiese, e sogghignò. Sollevò il foglio in aria, riuscendo a sfiorarmi il seno mentre lo faceva.

Sentirmi addosso la sua mano fece scattare qualcosa dentro di me. Odiavo quelle mani. Odiavo i suoi stupidi messaggi, i suoi odori orribili, la sua convinzione che qualsiasi cosa fosse mia fosse anche sua. Avevo sopportato tutto per quattro anni. Mi feci avanti e gli sferrai un’energica ginocchiata dritta sul prezioso pacco che a suo dire mi stava aspettando.

«Merda!» urlò, piegandosi in due.

«Fottiti, Dylan», dissi io.

«Emmeline?» L’insegnante era arrivata.

Dylan si accasciò sul suo banco. Gli strappai di mano il foglio, sfrecciai accanto a lui e alla professoressa e al resto dei ragazzi rimasti a bocca aperta. Uscii dall’aula e girai a sinistra. Sentii lo scalpiccio arrabbiato delle scarpe dell’insegnante. Se mi avesse raggiunto mi avrebbe spedita nell’ufficio della preside oppure di nuovo in aula. Avrebbero letto l’articolo. Mi avrebbero costretto a chiedere scusa a Dylan. Il solo pensiero mi rese furibonda. Raggiunsi l’uscita, aprii la porta e corsi via.

piccolo fregio usato per separare

Secret Cove distava tredici chilometri ma continuai a correre fino a sentir bruciare i polmoni. Dovevo andarmene da lì.

Alla fine mi resi conto che le persone a bordo delle auto di passaggio mi stavano guardando e rallentai. Quando raggiunsi la strada sterrata, sentii il rumore distintivo del camioncino di Colette. Dovevano averle telefonato, pensai. Scesi dalla strada e mi nascosi fra gli alberi. Le avrei raccontato tutto più tardi, mi ripromisi, ma prima dovevo capirlo io.

Dopo aver lasciato passare Colette corsi verso il resort, mantenendo un passo leggero e smorzato. La baia era deserta, le barche dei pescatori ancora fuori, anche quella di Henry. Dodge era sdraiato sulla veranda e alzò la testa quando sentì il mio odore. Mi guardai intorno ancora una volta, poi andai ad abbracciarlo, percependo il tepore del suo corpo. Era il primo momento di calma da quando avevo visto l’immagine della macchina di mio padre sullo schermo del computer.

«Cosa sto facendo, Dodge?» chiesi. Presi il foglio dalla tasca in cui lo avevo ficcato e stavolta lessi tutto l’articolo.

Il creatore del fenomeno dell’anno scorso, Nightingale, è svanito nel nulla. John Hartfell si è ritrovato al centro di infinite controversie da quando, all’inizio del mese scorso, si è diffusa la notizia che Nightingale non conservava gli odori come si era invece sostenuto.

Nightingale, definita la Polaroid delle essenze, è basata su un’invenzione rivoluzionaria chiamata Headspace Technology che ha reso possibile catturare un odore in natura e riprodurne in laboratorio la formula chimica.

Con la HST, Hartfell ha visto la possibilità di realizzare un congegno in grado di catturare e riprodurre un aroma all’interno della stessa macchina, preservandolo per i posteri, proprio come le Polaroid scattano e insieme sviluppano una fotografia. Sfortunatamente per le migliaia di fruitori di Nightingale, però, l’obiettivo non è stato raggiunto. Laddove una Polaroid sbiadisce nel corso di anni, le foto degli odori di Nightingale hanno dimostrato di sbiadire nel giro di una decina di mesi.

L’ondata di sdegno generale è stata fortissima.

Tamara Lewis ha citato in giudizio la società madre, Scentography. «Ho perso tutto il mio matrimonio», ha raccontato ai giornalisti. «Mi avevano promesso che avrei mantenuto quei ricordi per sempre. Adesso non ho niente.»

Si parla anche di un’imminente class action.

Hartfell è scomparso tre giorni fa insieme alla figlioletta. La moglie e socia di Hartfell, Victoria Wingate, è apparsa in televisione martedì, implorandolo di tornare.

«Non mi importa cosa hai fatto, John. Ti perdono. Riporta solo a casa nostra figlia.»

Il capo della polizia Marlin Stern sostiene che stanno cercando in ogni direzione, ma finora non hanno trovato niente.

piccolo fregio usato per separare

Posai il foglio. La macchina magica della mia infanzia era un’invenzione scientifica difettosa. Mio padre era un fallito. Avevo una madre.

Era come con le sirene: nulla di quanto avevo saputo era vero. Nulla era reale.

Dodge mi guardò con i suoi enormi occhi marroni. Mi avrebbe perdonato qualsiasi cosa, pensai. Sotto quel punto di vista, i cani sono migliori delle persone.

Alzammo entrambi lo sguardo nel sentire l’odore di gasolio, il suono di un motore. La barca di Henry, lo sapevamo. Non potevo parlare con Henry, non ancora. Mi avrebbe ascoltato, forse non avrebbe nemmeno fatto domande, ma in quel momento c’era soltanto una persona con cui volevo stare, ed era Fisher. Non sapevo dove fosse casa sua, ma lui aveva sempre imboccato il sentiero che da Secret Cove risaliva la collina. Se lo avessi seguito, forse avrei avuto fortuna.

Abbassai lo sguardo su Dodge. Stava diventando molto vecchio, il pelo sul muso era quasi completamente bianco. Avrei voluto portarlo con me su per il sentiero, ma sapevo che non poteva farcela. Gli diedi un bacio sulla testa.

«Non dirlo a nessuno», gli chiesi, prima di incamminarmi.

piccolo fregio usato per separare

Il sentiero era tutto in salita e quando lo imboccai avevo già le gambe stanche. Non mangiavo dalla colazione, ma entrare in casa in cerca di cibo avrebbe probabilmente significato incontrare Henry e qualcosa mi diceva che lui non avrebbe approvato la mia destinazione. Respirai a fondo, invece, lasciando che l’ossigeno mi ritemprasse i polmoni.

Non mi ero mai spinta così in là sul sentiero. Mi imbattei in un capanno deserto; al centro, sotto il tetto crollato, giovani alberelli iniziavano a crescere. Qualcuno aveva tentato di piantare un orto, un tempo, ma il bosco si riprendeva a poco a poco anche quello spazio.

“Continua a camminare, Emmeline”, mi dissi. “Trova Fisher.”

Mi rimisi in marcia ma gli odori erano tutt’intorno a me, colmi di inizio settembre. Il bosco intorpidito, denso di pioggia, terriccio bagnato e foglie umide, cominciava a pensare al sonno.

Quando ero piccola papà mi rimboccava le coperte ogni sera. Saliva la scaletta fino al mio soppalco, cingendomi con le sue grandi braccia tiepide, e me le rincalzava. Ho sempre pensato l’autunno così: la natura che rimbocca le coperte a ogni cosa. Nulla mi aveva mai dato una simile sensazione di sicurezza.

“Chi eri, papà?”

L’articolo mi aveva fornito un nome, ma adesso domande più circoscritte mi stavano martellando nel cervello. “Perché mi hai portata via? Mi volevi bene? Perché mi hai tenuto lontana da mia madre?”

Ero talmente assorta nelle mie riflessioni che rischiai di incespicare quando il sentiero si interruppe di colpo al margine di uno sterrato, largo quanto il nostro ma dalle buche più profonde.

“Da che parte devo andare?”

Rimasi ferma, volgendo lo sguardo a destra e a sinistra, nella speranza di trovare un indizio. Vidi soltanto una massa di alberi e una strada che avrebbe potuto condurmi nella direzione giusta come in quella sbagliata.

“Segui il tuo naso, Emmeline.”

Erano le parole di mio padre, ma la voce che sentivo nella testa era la mia.

Inspirai, prima piano e poi profondamente, lasciando che i profumi del bosco e della strada mi raggiungessero. Colsi l’odore del fumo di legno di ontano. Arrivava dalla mia sinistra, così puntai in quella direzione. Camminavo sulla strada zigzagando tra una buca e l’altra.

Passarono dieci minuti prima che scorgessi la casa, un edificio dall’aria desolata, l’intonaco un tempo giallo ormai scrostato e stinto, la veranda inclinata da una parte. Nel cortile laterale c’era un’auto arrugginita, gli alberi circostanti crescevano vicino alle portiere e al tetto, come se cercassero di nasconderla. Il fumo che usciva dal camino racchiudeva l’aroma di legno di ontano. Mi trovavo nel posto giusto, anche se l’atmosfera era sbagliata.

Mentre imboccavo il corto vialetto d’accesso sentii il rumore di un’auto che risaliva lo sterrato alle mie spalle. Quasi nello stesso istante la porta d’ingresso si aprì e una donna uscì sulla veranda. Era troppo magra e troppo pallida, ma capii che un tempo doveva essere stata bellissima. Gli occhi erano dello stesso verde incredibile di quelli di Fisher, i capelli una versione sbiadita di quelli rossi di lui. Mi vide e si fermò, indecisa. Intrappolata fra il suo sguardo e l’auto che si avvicinava, non avevo modo di nascondermi.

Lei non disse niente. L’auto percorse la curva e io vidi che in realtà era un grosso camioncino rosso. Al volante c’era il padre di Fisher, e Fisher era accanto sul sedile del passeggero. Lo shock sul suo volto mi fece rimpiangere di non essere rimasta nella baia con Dodge. Ero andata lì per me stessa, senza pensare a quali conseguenze la cosa potesse avere su di lui.

Entrarono nel vialetto.

«Cosa succede?» chiese Martin, scendendo dal camioncino.

La madre di Fisher scosse il capo. «Non lo so», rispose. «L’ho vista un attimo fa, quando sono uscita.»

Martin si voltò verso di me e mi osservò attentamente.

«Sei l’amica di Fisher, vero?» chiese.

Annuii. Era inutile mentire, ci eravamo già incontrati.

Fisher era fermo accanto al padre. Odorava di pesce.

«Maridel», disse Martin, «ti lamenti sempre che non abbiamo compagnia ed eccola qui, consegnata a domicilio. Dovresti invitare la ragazza a rimanere a cena.»

«Colette mi starà aspettando, è tardi», sottolineai, lanciando un’occhiata all’espressione tesa di Fisher.

«Telefoneremo a Colette, sono sicuro che non ci saranno problemi», affermò Martin. Entrò in casa, convinto che l’avrei seguito.

Lo sguardo di Fisher incrociò il mio.

«Mi dispiace», dissi muovendo solo le labbra.

Lui si strinse nelle spalle, e in quel gesto rividi mio padre che si ripiegava su sé stesso con il giungere dell’inverno.