LA CENA

Una volta dentro, il padre di Fisher raggiunse il retro della casa.

«Faccio una doccia», annunciò. «Sarò pronto prima di cena.»

La madre di Fisher andò in cucina e tornò con una birra, puntando nella direzione che Martin aveva appena preso. Sentii l’acqua della doccia cominciare a scorrere, ne captai l’odore, fresco, poi tiepido e infine bollente. Mi guardai intorno nel soggiorno, osservando il divano azzurro pieno di bitorzoli, il tappeto intrecciato rosso e giallo sul pavimento, il tutto sbiadito ma pulitissimo.

Mentre riattraversava il soggiorno, Maridel mi mostrò il telefono sul tavolino accanto al divano.

«Dovresti chiamare Colette, sarà preoccupata.» Il suo sguardo guizzò su di me, sull’ingresso, sulla cucina. Era una donna fragile, simile a un uccellino, tutta capelli rossi e occhi verdi e perenni movimenti vigili.

Con riluttanza presi il telefono e composi il numero, guardando Fisher seguire la madre in cucina. Non aveva ancora aperto bocca e cercai di decifrare, mentre passava, il suo odore e la sua espressione. Sentii solo pesce e vuoto.

«Pronto?» chiese la voce di Colette attraverso il ricevitore.

«Sono io», dissi.

«Grazie a Dio», replicò lei. «Dove sei? Ha chiamato la scuola, hanno detto che sei corsa via a metà giornata. Nessuno sapeva dove fossi andata.»

«Sono a casa di Fisher.»

Il flusso di frasi si interruppe di colpo. «Cosa?»

«Posso restare qui a cena?»

Il silenzio all’altro capo del filo fu protratto e ponderato.

«Stai bene?» domandò infine Colette.

«Sì.» “No.”

«Dobbiamo parlare, Emmeline.» Aveva un tono risoluto. «Quello che è successo oggi…»

«Lo so.»

Una pausa.

«Dirò a Henry di venirti a prendere alle otto e mezzo», annunciò.

«Okay.» Riuscii quasi a cogliere il suo odore attraverso la cornetta: cannella coperta dall’afrore della preoccupazione.

piccolo fregio usato per separare

Riagganciai e raggiunsi la porta della cucina, per osservare Fisher e sua madre. Lei apparecchiava per la cena con gesti automatici e silenziosi, lui la aiutava con disinvolta efficienza. Non stupiva che si fosse rivelato tanto abile nella pulizia dei cottage. Si passavano a vicenda gli utensili senza parlare, con movimenti calibrati e meticolosi, nessun tintinnio di coltelli, nessun acciottolio di pentole. Erano una squadra in un modo che mi rese gelosa, benché sapessi di non avere alcun diritto di provare quel sentimento. Inoltre si trattava di un tipo di affiatamento diverso.

La doccia era ancora in funzione.

«Maridel!» Sobbalzammo tutti nel sentire quell’urlo. La madre di Fisher aprì il frigorifero, prese un’altra birra e scomparve.

«Tornerai a scuola?» chiesi a Fisher quando restammo soli. Avevo bisogno che parlasse con me.

Non potevo dare voce all’altro pensiero nella mia testa.

“Stai bene?”

Scosse il capo. «Non lo so.»

«Ma non è giusto.»

«No», replicò in tono piatto. «Non lo è.»

piccolo fregio usato per separare

«Facevo già il pescatore quando ho conosciuto questa donna.»

Eravamo a metà di una cena a base di pollo arrosto e purè di patate, i profumi consolatori resi fragili dalla tensione nell’aria. La madre di Fisher passava spesso le zuppiere, assicurandosi sempre che il piatto del marito fosse pieno. Il padre di Fisher era già alla quinta birra. Sembrava l’unico dei presenti a non tenere il conto.

«Maridel era la creatura più splendida che avessi mai visto», aggiunse, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Quei lunghi capelli rossi, quei grandi occhi verdi. La vidi ferma sul ciglio della strada e le diedi un passaggio in città. Mi disse che anche lei amava il mare, che poteva aiutarmi a pescare. Era la mia donna ideale, pensai, e io l’avevo trovata, come in una favola.»

Raccontò la storia con entusiasmo, muovendo energicamente mani e viso. Era difficile non fissarlo.

«Così ci siamo sposati», disse, «ma quando uscivamo con la barca lei vomitava ogni volta che lasciavamo la baia. L’unica cosa che quella donna abbia mai pescato sono io. E i pesci andavano in malora. Capiscono quando c’è un bugiardo sulla barca.»

«Martin…» disse con tono calmo la madre di Fisher.

«È vero», sottolineò lui. Strinse gli occhi. Il suo labbro superiore si sollevò, soltanto da una parte. Disprezzo.

Sapevo cosa cercare, Fisher me lo aveva insegnato. Non scaturisce mai nulla di buono da un mezzo sorriso.

«E sai qual è la cosa più divertente?» Il padre di Fisher spostò il peso in avanti, colmando la distanza fra noi due. «Anche mio figlio ha sempre detto di odiare l’oceano. Una volta l’ho portato fuori in mare e si è comportato per tutto il tempo come se stessi cercando di ucciderlo. Fisher, vuol dire pescatore», aggiunse, ridendo. «Ma evidentemente la scelta del nome non ha funzionato.»

Bevve una lunga sorsata dalla lattina che stringeva. Noi tre restammo in attesa.

«Com’è andata la scuola oggi, Emmeline?» chiese Maridel. Fisher le lanciò un’occhiata fugace.

«A volte ho persino dubitato che fosse figlio mio», aggiunse Martin, come se lei non avesse parlato. «Insomma, guardatelo.»

La madre di Fisher raddrizzò la schiena sulla sedia. Fisher si immobilizzò. Erano l’uno l’immagine speculare dell’altra, su quello Martin aveva ragione: Fisher non aveva preso nemmeno un pizzico dei suoi occhi e dei suoi capelli scuri.

Martin tenne lo sguardo fisso su di me mentre estraeva un pacchetto di sigarette, ne prendeva una e la accendeva. Inalò il fumo e poi lo soffiò sopra il tavolo.

«Ma un giuramento è un giuramento», affermò. «Inoltre si è scoperto che Fisher adora l’acqua. Ora che abbiamo chiarito la questione, mi sono finalmente procurato un vero aiutante.» Volse lo sguardo verso di lui, e l’occhiata fu talmente gelida da scricchiolare.

Fisher si irrigidì.

«E la scuola?» chiesi di getto. Il padre di Fisher riprese a fissarmi e io rimpiansi di non aver tenuto la bocca chiusa.

«I pescatori non hanno bisogno di andare a scuola», dichiarò. Inspirò un’altra boccata. «Hanno solo bisogno di conoscere il pesce.»

«Martin…» Era di nuovo la madre di Fisher.

«Cosa?» La parola schioccò come un ramo spezzato durante il temporale.

Fisher si allungò verso di me. «Colette non ti vuole a casa entro le otto?» chiese.

Annuii, grata per la bugia.

«Puoi accompagnarla tu con il camioncino, Fisher?» domandò sua madre.

«C’è poca benzina.» Il viso di Martin era contratto.

«Non possiamo mandarla nel bosco da sola», mormorò lei.

Fisher si alzò. «La accompagno io a piedi», annunciò. Martin fece per alzarsi. «Fisher», disse, e vidi la sua mano destra flettersi, una volta sola.

Fisher lo guardò, gli occhi ardenti. Sua madre si piegò in avanti, la sedia grattò sulle assi del pavimento. Lui indietreggiò.

«Andiamo, Emmeline», disse, e mi tirò verso la porta.

Mi voltai verso la madre di Fisher mentre lui mi trascinava via. Lei teneva gli occhi fissi sul marito.

piccolo fregio usato per separare

Restammo fermi sul vialetto, Fisher armeggiava con una torcia elettrica cercando di farla funzionare. Mentre eravamo in casa, all’esterno l’aria si era fatta fredda e il cielo nero di nubi.

«Mi dispiace», dissi. «È tutta colpa mia.»

«Non è vero», replicò.

Dalla sala da pranzo giunse il rumore di un piatto che cadeva a terra.

«Meglio che ce ne andiamo», commentò. Diede una botta alla torcia, che prese vita di colpo.

Scendemmo in silenzio lungo la stradina. Gli alberi si stagliavano su entrambi i lati, piegati verso di noi, fitti e scuri. Di sicuro io non avrei trovato l’inizio del sentiero, ma lui lo imboccò senza bisogno di guardare. Dopo meno di un metro ci ritrovammo nella totale oscurità e Fisher puntò il fascio della torcia alle sue spalle per illuminarmi il tragitto.

«Non ne hai bisogno per vedere?» chiesi.

«Sono a posto», replicò.

Per un attimo lasciai che le parole restassero sospese fra gli alberi, bugie intrecciate ai rami.

«Davvero?» domandai.

«Sì. No.»

«Qual era il problema, a casa tua?»

«Mio padre.»

I pezzi del rompicapo stavano andando al loro posto, molto più tardi di quanto avrebbero dovuto. Le maniche lunghe di Fisher, le sue assenze da scuola, i suoi accessi di rabbia. «Ma non puoi fare niente? E la polizia?»

Spinse via un ramo. «Lei non si ribellerà mai, Emmeline.»

«Ma…»

«Lascia che ti porti a casa», disse.

Il desiderio celato nell’ultima parola mi spezzò il cuore.

Camminammo in silenzio, la mia mente vorticava. Avevo costretto Fisher a uscire in barca con me e Henry; non avevo ascoltato quello che stava cercando di dirmi; ero andata a casa sua perché avevo bisogno di lui e pensando solo a me stessa: tutto ciò aveva sortito l’effetto di avvicinare un fiammifero a una catasta per il fuoco che non sapevo esistesse.

Eppure avrei dovuto saperlo, era quello il problema. Ero stata cresciuta a forza di favole, storie su padri che abbandonano i figli nel bosco e madri malvagie che parlano agli specchi. Le tessere del rompicapo erano tutte là. Ma, nonostante quello che avevo visto da quando avevo lasciato l’isola, non avevo avuto abbastanza fantasia per far uscire i personaggi dalle pagine e portarli nella vita reale. Non avevo voluto saperne.

«Eccoti qua.»

La voce di Fisher si insinuò nelle mie riflessioni. Alzai lo sguardo per scoprirlo intento a fissare la baia sottostante. A casa di Henry e Colette c’erano tutte le luci accese. Le nubi erano scomparse mentre noi eravamo nel bosco e la luna illuminava le increspature dell’acqua. Una luna piena, vidi di colpo. Mi sembrò quasi di sentire la forza di attrazione della marea.

“Vieni da me.”

Fisher si voltò per risalire la collina. Non potevo permettergli di tornare in quella casa. Adesso sapevo cosa lo aspettava.

“Colpa mia.”

«Non tornare là», dissi.

«In quale altro posto potrei andare?» La sua voce suonò fredda, ironica. Adulta.

E all’improvviso mi venne l’idea.

«Sull’isola», risposi. Pronunciai le parole in fretta, senza riflettere, come se la velocità potesse condurle oltre la logica o le conseguenze.

«Cosa?»

«Possiamo andarci insieme», spiegai. «Possiamo badare a noi stessi. So come fare.»

Esitò. Mi accorsi che stava riflettendo, vidi un anelito nascere dentro di lui. Guardò la luna e sgranò gli occhi.

«Il canale…» disse.

La speranza nelle sue parole mi indusse a proseguire. «Potremmo farlo, Fisher.»

«E la barca?»

Mi bloccai. Le mie riflessioni non si erano spinte così in là, ma ormai non potevo fare marcia indietro. Trassi un bel respiro.

«Prenderemo quella di Henry», decisi. «La usa solo per le consegne, e le abbiamo appena fatte.»

Era successo soltanto due giorni prima. Il mondo era cambiato così drasticamente da allora. Per un attimo pensai a quell’altra vita, fuori in mare con Henry. Pensai al modo in cui mi aveva fatto rivedere la mia isola, me l’aveva restituita.

«Lo faresti?» chiese Fisher. Mi guardò dritto negli occhi. «Prenderesti la barca?»

Non mi stava chiedendo di scegliere, ma era comunque una scelta. “No”, pensai, “non posso fare una cosa del genere a Henry.” Ma annuii.

«Okay», disse lui. I suoi piedi erano piantati saldamente sul terreno. «Ma prima devo tornare a casa. Devo avvisare mia madre.»

«No», replicai, «non abbiamo tempo.» Dovevo continuare ad andare avanti, sapevo che altrimenti non l’avremmo più fatto.

«Sarò veloce», promise, poi corse su per la collina.