Era quasi troppo da metabolizzare: da un lato, il sollievo per il fatto che Martin non ci avesse trovati e, dall’altro, la consapevolezza che adesso dipendeva da noi riuscire a sopravvivere per almeno un mese, e forse un intero inverno. Tornammo nel capanno a fronteggiare i dodici scaffali vuoti della dispensa. Tentai di dimenticare l’ultima volta in cui li avevo visti così.
«Cosa facciamo?» chiese Fisher, ora un po’ meno entusiasta.
A parte le poche provviste che avevo portato io e alcuni pacchetti di lievito, zucchero e fiammiferi che la madre gli aveva infilato in tasca, partivamo da zero. C’erano una miriade di cose da fare: raccogliere vongole, molluschi, alghe e frutti di bosco, sistemare la catasta di legna, tagliare altri ceppi, ripulire i sentieri.
Per quanto quella mole di lavoro risultasse sconfortante, erano compiti abbordabili, attività che si potevano svolgere con le mani, con i muscoli. Dovendo scegliere tra affrontare il padre di Fisher o la scuola o quello, la decisione era scontata. Presi un cestino per le provviste dall’angolo accanto alla stufa e lo passai a Fisher.
«Tieni», dissi. «Cominciamo.»
Spinsi i ricordi in un angolino della mente, afferrai l’altro cestino e uscimmo.
Avevo passato tutti gli anni di scuola nascondendo il mio talento olfattivo. Adesso non dovevo preoccuparmi di essere presa in giro e seguii le indicazioni del mio naso. Sfruttai le mie capacità per scovare funghi e cespugli di mirtilli americani, e riuscii persino a ritrovare la strada del capanno quando ci smarrimmo su un sentiero invaso dalla vegetazione. Captai l’odore secco dei ceppi ancora utilizzabili nella catasta di legna, l’aroma umido e scivoloso di quelli marci. Negli ultimi cinque anni ogni inspirazione era stata venata dal timore che mi cogliessero in flagrante. Sull’isola ricominciavo a sentirmi me stessa. In quei momenti, con il naso accostato alla corteccia di un albero o sollevato verso il cielo, mi sentivo insieme a mio padre, in un modo pulito e facile. Il meglio di me. Il meglio di lui. Tutto ciò faceva scomparire quanto avevo letto su di lui nell’articolo.
«Qui sei diversa», sottolineò Fisher.
Lo era anche lui. Guardai il suo perenne stato d’allerta sciogliersi. Prima lasciò i suoi occhi, rendendoli vivaci e interrogativi. La bocca si rilassò, il passo si fece più fluido. Quando sollevava l’accetta per spaccare la legna i muscoli delle braccia liberavano un’energia repressa che sembrava scintillare nell’aria. Aveva sempre odorato di alberi, ma adesso il suo era il profumo di nuova crescita, delle gemme verdi che compaiono in primavera.
«Hai intenzione di darmi una mano o stai solo a guardare?» Sorrise, porgendomi l’ascia. La presi, mi misi in posizione e la sollevai sopra la testa per abbassarla poi sul ceppo, sentendo l’energia del colpo risalirmi lungo le braccia. Da bambina avevo spaccato legna, ma adesso era diverso. Ero più alta, più forte. Affondai la lama dell’accetta nell’incavo che avevo appena creato e il ceppo si spezzò a metà.
Quella sera accendemmo il fuoco, il suo calore e la sua luce riempirono la stanza. Preparammo uno stufato di molluschi e vongole, insaporito con cipolle selvatiche e asparagi di mare, e lo mangiammo in ciotole di legno che si adattavano alle nostre mani come promesse. Preparai un tè con aghi di pino e osservai Fisher mentre il vapore gli raggiungeva il naso.
«Possiamo farcela, forse», disse, sorridendo.
«Forse sì», confermai.
Mi tenevo impegnata; dovevamo lavorare per sopravvivere, mi dicevo. Lasciavo che i miei muscoli gestissero la giornata, ma la sera arrivavano i pensieri. Dopo quella prima notte nei boschi dormimmo nel capanno, io sul soppalco e Fisher nel letto di mio padre. Restavo stesa lì, ascoltando un respiro che non era quello di papà, aspettando i familiari sussurri di foglietti odorosi che non c’erano più. Cosa mi avrebbero detto, se allora avessi saputo ascoltare? Chi era l’uomo dietro quei pezzetti di carta? Uno di loro aveva racchiuso l’aroma di mia madre?
Mentalmente disposi l’una accanto all’altra le storie di mio padre, pagine in un libro senza senso. Papà era un eroe. Era un bugiardo. Era il mio salvatore. Era il mio rapitore. Era morto per colpa mia. L’ultima cosa era l’unica di cui fossi sicura.
Non capivo come ci si potesse sentire a proprio agio e al contempo a disagio nello stesso luogo. L’isola era immutata, le sue regole e le sue bellezze identiche a com’erano e sarebbero sempre state. Ero io a essere cambiata, a non riuscire a decidere come o dove stare. Volevo essere la bambina che aveva vissuto lì ma volevo anche capire mio padre, il che significava lasciarsi l’infanzia alle spalle. Volevo raccontare a Fisher cosa avevo fatto ma non sapevo da dove cominciare. Forse, alla fine, non volevo farlo.
E così, ogni sera, mentre ci dirigevamo verso i rispettivi letti dopo avere spento e pulito la stufa, passavo accanto ai suoi occhi interrogativi e salivo nel mio soppalco da sola.
Eravamo sull’isola da quasi due settimane quando sentii arrivare la prima burrasca autunnale, piuttosto precoce. L’aria si fece densa, poi acuta, il vento picchiava come pugni sulle assicelle di cedro del tetto. Le grondaie di legno gemevano. Fisher cominciò a camminare nervosamente avanti e indietro, pestando i piedi sul pavimento.
«È solo un temporale», dissi. Non rispose. Un ramo si staccò da un albero vicino e piombò sulla veranda con uno schianto. Lui sobbalzò, sollevando istintivamente un braccio per ripararsi il viso.
«Merda!» esclamò.
Continuò a camminare per ore, trasalendo a ogni rumore improvviso, le mani strette a pugno lungo i fianchi. Quando finalmente la tempesta cessò, lui si lasciò cadere sulla poltrona e chiuse gli occhi, sfinito come gli alberi sferzati dal vento. Mi sedetti sul pavimento, posandogli la testa sul ginocchio.
«Dimmelo», lo sollecitai. «Ti prego.» Allungai le parole verso di lui come mani aperte.
Ci volle un po’, la storia saliva lentamente da un luogo bizzarro e sotterraneo, passando dalle crepe della stanchezza di Fisher.
«All’inizio non picchiava nessuno di noi», raccontò, «ma sentivi che era nell’aria. Persino da piccolo lo capivo.»
Pensai a papà, alle sue braccia che mi cingevano mentre leggevamo. Nemmeno in seguito, quando tutto era andato a pezzi, avevo mai temuto che potesse farmi del male.
Fisher si dimenò sulla sedia. «Mia madre aveva un orto e mi insegnò a curarlo. All’inizio era solo un modo per tenermi sott’occhio, ma a cinque anni ero già un bravo aiutante. Adoravo rimanere lì con lei. La mamma mi dava la sensazione di poter coltivare le cose.»
Si interruppe. Captai un aroma che si addensava, una macchia scura come il terriccio che vive sotto i funghi.
«Ricordo ancora i miei primi pomodori», continuò lui. «Li avevo raccolti tutti da solo. Erano così tanti che dovetti tenere sollevato l’orlo della maglietta per tenerceli dentro. Ne ero così orgoglioso…» Lo udii scuotere la testa. «Mio padre era fermo sui gradini della veranda e mi chiese cosa avevo lì. Per un attimo pensai che volesse vedere, così allungai la maglietta verso di lui, e c’erano tutti quei magnifici pomodori, e dissi: “Guarda cosa abbiamo fatto io e la mamma”. E lui mi colpì. In pieno volto.»
Calò il silenzio. Rimasi in attesa.
«Lei non se ne andrà mai», affermò Fisher. «Gliel’ho chiesto un sacco di volte.»
Ripensai a mio padre, che si era rifiutato di lasciare l’isola persino dopo che l’orsa aveva divorato tutto quello che avevamo.
«Perché non è voluta venire con me?» chiese Fisher.
Salii sulla poltrona e lo abbracciai. Non sapevo la risposta e dubitavo che l’avrei mai saputa.
In seguito fu come se una porta si fosse aperta. Non del tutto, ma abbastanza per intravedere qualcosa. Cose che non ci eravamo mai raccontati cominciarono a scivolare fuori mentre preparavamo la cena o sgombravamo un sentiero o camminavamo sulla riva sabbiosa della laguna.
«Mio padre mi raccontava storie su Jack il Cacciatore di Odori…»
«A volte ho dormito nel garage…»
«Avevo una capretta…»
«Non permette a mia madre di guidare…»
«Le sirene non esistono…»
«Voglio uccidere mio padre.»
Mi fermai, non riuscii a costringere le parole a uscire. “Io l’ho fatto.” Non sapevo come raccontargli cosa significasse fare quello che lui stava immaginando, come spiegargli che non prendevi mai soltanto una vita ma due: quella della persona che uccidevi e quella della persona che credevi di essere.
“Diglielo!” pensai.
«C’era un’orsa», dissi invece.
Mentre le nostre menti seguivano le nostre storie avvicinandosi l’una all’altra, i nostri corpi le imitarono. La mano di Fisher si posava sulle mie reni mentre preparavo il tè, le mie dita affondavano fra le onde dei suoi capelli rossi per estrarre un frammento di ramoscello. Una sera sentii il suo aroma sui polpastrelli, il modo in cui incontrava il mio e creava un profumo che risultava completo.
“Sono stata io a gettare le bottiglie nell’acqua”, avrei voluto rivelargli. “Tutto è andato a pezzi a causa mia.” Ma poi lui mi prese il viso fra le mani e mi baciò.
“Diglielo!” mi intimai. “Non è giusto, se non glielo dici.”
Ma ero una diciassettenne sola su un’isola con un ragazzo che amavo sin dalla prima volta in cui si era seduto nel banco accanto al mio, così chiusi gli occhi e ricambiai il bacio, poi salimmo insieme sul soppalco.