L’indomani tornai a scuola. Quando aprii la porta dell’aula sentii iniziare i brusii, ma erano diversi. Non mi si avviluppavano intorno cercando una crepa in cui infilarsi per allargarla, mantenevano le distanze.
«Quell’isola…»
«Un mese intero…»
«Lui ha rischiato di morire…»
Le voci erano sommesse, carezzavano la storia come fosse qualcosa di entusiasmante, di pericoloso.
Mentre mi avvicinavo al mio banco, Dylan allungò le gambe attraverso la corsia e alzò gli occhi, lo sguardo fisso nel mio. Gli altri ci osservavano. Mi fermai di fronte a lui, ricambiando l’occhiata.
“Continua”, pensai. “Guarda cosa succede.”
Rimasi lì finché non ritrasse le gambe sotto la sedia.
Adesso che Fisher se n’era andato non avevo amici, ma ero ammantata da una nuova fiaba ambientata su un’isola, colma di coraggio e audacia e, probabilmente, sesso. Le ragazze non vedevano l’ora di venirmi a cercare nel bar della scuola.
«Cosa avete fatto laggiù?»
«Dov’è andato?»
L’ultima domanda, tremula e bramosa: «Lui ti manca?».
Non rispondevo mai, ma sembrava non importasse. Forse la storia risultava più bella senza i dettagli concreti. Spesso le fiabe lo sono.
Ma io avevo chiuso con la fiction. L’unico motivo per cui ero tornata a scuola volentieri era il computer. Durante la pausa pranzo andai in biblioteca. Per prima cosa cercai i vivai in città. Ce n’erano quarantanove. Quarantanove. Comparve una piantina, indicatori di un rosso acceso sparsi su una griglia di linee e colori che sembrava più vasta dell’oceano.
Rammentai Jessie, la nostra collaboratrice estiva, forte e avventurosa, che parlava della città.
Ci sono moltissime persone, è facile perdersi. In senso positivo.
Non riuscivo a immaginare un senso positivo. E sapevo che non potevo limitarmi ad andare là, non in quella griglia sconfinata. Mi serviva qualcosa, un indizio. Ma come ottenerlo? La mia vita somigliava a una serie di porte chiuse, serrate con chiavi nascoste chissà dove.
Cambiai rotta, spostai di nuovo la ricerca su mio padre. Mi feci insegnare dalla bibliotecaria come mettere gli esiti delle ricerche in ordine cronologico, poi digitai John Hartfell e cliccai sull’occorrenza più vecchia.
LA COPPIA DI POTERE DELL’OLFATTO
«Lifestyle»
12 marzo 1999
L’odore della pipa di vostro nonno, il profumo della vostra maestra di prima elementare: un’unica zaffata vi riporta indietro nel tempo. Ora immaginate di poter accedere a quei ricordi ogni volta che volete. Pensate a una Polaroid per gli odori.
John Hartfell e Victoria Wingate sono comparsi sulla scena olfattiva l’anno scorso con Nightingale, un congegno elegante e portatile che cattura gli aromi dei nostri ricordi e li conserva in eterno. All’improvviso la Wingate e Hartfell hanno rivoluzionato il nostro modo di pensare agli odori ma, come abbiamo scoperto andandoli a trovare nella loro modesta casetta, prestare attenzione all’aroma non è certo una novità, per loro.
Sono l’esempio per eccellenza del connubio dello yin e dello yang. John è lo scienziato tranquillo, Victoria la vivace donna d’affari. Si sono conosciuti nell’azienda di profumi, in cui John aveva l’invidiabile compito di girare il mondo per trovare nuove essenze da utilizzare in prodotti di ogni genere, dai profumi ai detergenti per i piatti. Victoria era quello che si definisce un «naso», incaricata di creare quelle fragranze.
«Avevamo un rapporto molto tradizionale», racconta con una risata. «Lui cacciava e raccoglieva, io cucinavo.»
Al progetto di Nightingale hanno pensato una sera, quando si trovavano in un ristorante e un giovanotto si è offerto di fotografarli con una Polaroid.
«A quel punto mi è balenata l’idea», spiega Victoria. «Ci piace catturare i ricordi della nostra vita in bellissime fotografie, ma se riuscissimo a farlo con gli odori?»
Si interrompe, guardando per un attimo verso un mondo che noi altri non riusciamo a vedere.
«Gli odori racchiudono memorie», aggiunge. «Per un breve istante ti permettono di viaggiare nel tempo. Volevamo creare qualcosa capace di far riprovare una sensazione in qualsiasi momento lo si desiderasse.
«Una volta avuta l’idea, dipendeva tutto da John», dice, e gli rivolge un sorriso affettuoso. «È lui lo scienziato.»
Nightingale è stato immesso sul mercato per Natale e ha trasformato la minuscola azienda di Victoria e John, la Scentography, in un enorme successo. Le vendite nei primi tre mesi sono state pari al triplo delle proiezioni iniziali. Si è già sparsa la voce di un ampliamento della società, di qui a pochi mesi. Se Nightingale proseguirà il suo incredibile volo, qualcosa ci dice che torneremo a visitare questa coppia di successo per un articolo sul nostro allegato «Case dei ricchi e famosi».
L’articolo era accompagnato da una foto. L’uomo era così giovane e ben rasato che era difficile riconoscervi mio padre. La donna al suo fianco era bellissima, con lunghi riccioli scuri e la pelle chiara. Il suo sorriso era luminoso, quello di lui imbarazzato. Riuscivo benissimo a immaginare quanto poco papà avesse apprezzato tutta quell’attenzione.
Ma osservando meglio notai un’altra cosa: una sciarpa argentea legata con un nodo morbido ed elegante intorno al collo della donna. Conoscevo quella sciarpa. L’avevo bruciata.
Rimasi seduta lì a lungo, poi tornai all’elenco e passai di link in link. La storia che raccontavano non era certo bella. Un turbine di articoli strabiliati lasciava il posto a rapporti investigativi e resoconti impregnati di rabbia su proposte di matrimonio e nascite e vacanze perdute per sempre. Apparentemente i ricordi avevano un prezzo, e gli avvocati erano più che felici di menzionarlo. Victoria Wingate era citata negli articoli ma sempre più spesso come una delle persone ingannate, e denunce al vetriolo di John Hartfell cominciarono a balzare sullo schermo. Poi lui scompariva e lei andava in televisione implorando che le restituissero la figlia. La stampa riferiva con dovizia ogni minimo particolare.
Come i reporter amavano dire: «Hartfell era svanito nel nulla, al pari degli odori che la sua invenzione aveva promesso di catturare». Le macchine Nightingale vennero ritirate dal mercato, la Scentography andò in bancarotta e dopo un po’ le ricerche di Hartfell si fecero meno serrate e in fine parvero cessare.
Sentii suonare una campanella e guardai l’orologio. Le tre. Ero rimasta in biblioteca per ore. Nessuno era venuto a cercarmi; la bibliotecaria sedeva alla sua scrivania, apparentemente ignara della mia presenza, ma mentre uscivo si allungò in avanti, facendo leva sui gomiti.
«Solo per stavolta», disse, e io mi chiesi cosa diavolo pensava che avessi cercato.
Non sapevo cosa fare delle informazioni che avevo trovato. Quando tornai alla baia, controllai la cassetta della posta. Era vuota, così risalii il pontile fino al ristorante che aveva preso il posto del museo di ossi di balena. Ormai era vuoto, buio e chiuso con assi a porte e finestre durante la bassa stagione.
Sgattaiolai dentro da un ingresso laterale e mi sedetti in uno dei séparé di pelle rossa. Chiusi gli occhi, cercando di ricordare quale odore aveva avuto quel primo giorno, quando avevo trovato gli ossi sospesi nell’aria, ma non ottenni altro che il lezzo viscoso di olio di frittura, un persistente sottotono di pesce. Una storia ne copriva un’altra.
Pensai al padre che avevo conosciuto, a quanto teneva alle bottigliette nei cassetti, come se racchiudessero il mondo intero. Se era un truffatore, come molte persone sembravano pensare, allora perché quell’amore per i foglietti odorosi? Perché un tale strazio personale quando i loro effluvi avevano cominciato a scomparire? E se la sua invenzione era un fallimento che lo aveva trascinato a fondo, perché non odiava quella macchina, perché non l’aveva distrutta come avevo fatto io? Ne sarebbe stato giustificato, se non di più. Nulla di tutto ciò aveva senso.
Poi c’era l’altra questione. Perché non mi aveva mai parlato di Victoria Wingate, se l’amava tanto quanto quell’articolo sembrava indicare?
Ripensai a quando, da bambina, gli avevo chiesto perché non avevo una madre. «Perché hai me», aveva risposto.
Non gliel’avevo più domandato. Adesso volevo saperlo.
Non appena riuscii a tornare sul computer cercai Victoria Wingate. Dopo la bancarotta della Scentography c’erano cinque anni di vuoto, ma poi le occorrenze ricominciavano ad accumularsi, spesso legate a un nuovo profumo.
Ma fu solo nel 2010 che trovai un articolo interamente dedicato a lei.
VICTORIA WINGATE CON LA INSPIRE INC.
SI SPINGE IN UN NUOVO TERRITORIO
«Daily Sun»
28 ottobre 2010
Victoria Wingate è più di una classica storia di successo. Dieci anni fa la sua società, la Scentography, è colata a picco fra accuse di frode. Lei ha passato il decennio seguente a lottare per tornare a essere uno dei «nasi» più rispettati dell’industria profumiera.
Ora con la sua nuova azienda, la Inspire Inc., sta riportando il branding dei profumi al centro del retail marketing creando ambienti olfattivi unici per negozi, alberghi, persino ristoranti.
«L’olfatto è il più potente dei nostri sensi. È direttamente collegato alle nostre emozioni», ha dichiarato in una recente intervista. «Perché non utilizzarlo per potenziare, a livello subliminale, l’esperienza del cliente? Alla Inspire Inc. ci preoccupiamo anche del più minuscolo dettaglio.»
Gli studi hanno dimostrato che l’olfatto è un efficace strumento di marketing. Volete che un cliente si trattenga in un negozio? L’aggiunta di mandarino e vaniglia nell’aria può indurci a sottovalutare del ventisei per cento il tempo da noi dedicato allo shopping. Una disamina dei casinò di Las Vegas ha rivelato che spargere un profumo gradevole nelle zone riservate alle slot machine ha aumentato di uno sbalorditivo quarantacinque per cento la somma spesa dai giocatori.
Si stima che il branding dei profumi rappresenti un’industria da più di trecento milioni di dollari, e la Wingate sostiene di avere una lista di clienti famosi, pur appellandosi alla tutela della privacy quando le si chiede di nominarli. Ha chiesto discrezione anche quando le abbiamo domandato del suo ex socio e marito, John Hartfell, scomparso più di dieci anni fa con la loro figlioletta.
«Non ho avuto altra scelta se non quella di andare avanti», dice. «La Inspire è il mio modo di concentrarmi sul futuro.»
Rimasi seduta a fissare lo schermo, cercando di metabolizzare tutto quello che avevo appena letto. Ma soltanto una cosa mi si era impressa nella mente: “Ha smesso di cercarmi. Non ha nemmeno menzionato il mio nome”.
Pensai a Fisher. A mio padre. Sapevo cosa significava veder scomparire dalla tua vita qualcuno che amavi. Come aveva potuto rinunciarvi, mia madre?
La campanella suonò e la bibliotecaria mi guardò.
«È ora di andare», disse.
Chiusi la pagina e spensi il computer. Lo schermo si oscurò e io mi vidi riflessa. Riccioli neri, pelle chiara: la figlia di mia madre.
La differenza fra noi due era che io non avrei mai smesso di cercare.