L’indomani era sabato, l’inizio di novembre. E il tempo cominciava a farsi freddo e umido. Quando andai in cucina mi stupii di trovare la madre di Fisher seduta a tavola a bere un caffè con Colette, le loro teste vicine. Non l’avevo più vista dopo quell’ultima volta in ospedale.
“È colpa tua se se n’è andato”, pensai, irritata.
Colette si voltò verso di me. «Eccoti, Emmeline», disse. «Ora che sei guarita dalla gastroenterite è arrivato il momento di dare una bella sistemata ai cottage. Hanno bisogno di una nuova mano di pittura, e le tende vanno lavate. Maridel verrà ad aiutarti nei weekend.» La sua voce era affettuosa come sempre ma non lasciava spazio a obiezioni. Evidentemente la mia punizione per aver rubato la barca di Henry era stata solo posticipata, non cancellata.
«Io e Dodge stiamo diventando un po’ troppo vecchi per il lavoro pesante», aggiunse lei, allungando una mano per dare al cane qualche buffetto sulla testa. Lui si voltò a guardarmi. Era più vigile, da quando ero tornata. Di notte veniva ancora in camera mia, ma invece di stendersi accanto al letto si accucciava vicino alla porta, come per impedirmi di uscire.
«Per te va bene?» chiese Maridel. Sembrava stanca e, se possibile, ancora più magra del solito. Viveva ancora con il marito, anche se non ne capivo il motivo, e sapevo che nemmeno Fisher lo capiva. C’erano ancora molte verità nascoste.
Ma quando osservai le sopracciglia di Colette, inarcate e in attesa, risultò chiaro solo che, volente o nolente, avrei lavorato con Maridel.
«Certo», risposi.
Colette ci fece cominciare dal cottage azzurro. Non c’ero più entrata dopo l’ultimo giorno d’estate, quando mi ero sforzata strenuamente di non pensare a Fisher. Da allora erano successe parecchie cose eppure ero di nuovo lì, a pulire lo stesso villino e a chiedermi se lui stesse bene. A quanto pare, alcune cose non cambiano mai.
Faceva freddo, così io e Maridel ci muovemmo rapidamente finché il radiatore a muro non si accese. Puntammo verso il letto per togliere le coperte e lei si diresse istintivamente verso il lato che avevo sempre occupato io quando cambiavo le lenzuola con Fisher.
«Oh», disse, indietreggiando dopo che rischiammo di scontrarci. «Scusami.»
Un tempo anche Maridel lo aveva fatto con lui, capii. Per un attimo me la immaginai in quella casa a passare da un angolo di letto all’altro, da sola. Non capivo come riuscisse a sopportarlo.
«Nessun problema», replicai, e mi spostai sul lato di Fisher. Togliemmo lenzuola e coperte e tirammo giù le tende prima di spingere tutti i mobili al centro della stanza.
Henry entrò, scrollandosi di dosso la pioggia. Ci portò alcuni barattoli di vernice giallina, nastro adesivo per i bordi e due pennelli a rullo dal lungo manico.
«Questo farà felice Colette», disse, rivolgendomi un’occhiata eloquente mentre si dirigeva verso la porta. Non ero ancora fuori dai guai nemmeno con lui.
Mentre Maridel attaccava il nastro lungo le cornici ornamentali, io preparai i pennelli e coprii il pavimento con un telo di plastica. Lei si rivelò molto precisa e meticolosa, staccando pezzi di nastro e riapplicandoli per assicurarsi che la copertura fosse perfetta.
«Quella parte rimarrà nascosta dal letto», sottolineai a un certo punto.
Trasalì, spaventata, e le dita corsero a toccare il bordo del nastro.
«Scusa», aggiunsi. «Voglio solo dire che non si vedrà poi molto.»
Scosse il capo – tentai di non notare quanto il gesto mi ricordasse Fisher – e proseguì con i suoi aggiustamenti. Quando terminò intingemmo i pennelli nella vernice, passandoli più volte sulle pareti. Maridel lavorava velocemente, senza fermarsi. All’inizio pensai che, per quanto esile, avesse una grande resistenza alla fatica, ma poi capii che non le importava di essere stanca. Era come se la cura del suo corpo non la riguardasse.
«Hai avuto notizie di Fisher?» chiesi alla fine. Non potevo non domandarlo, pur sapendo che lui non le avrebbe mai mandato una lettera che il padre avrebbe potuto intercettare.
Lei annuì. «Tramite Colette.» Non lo sapevo. «Ha scritto una lettera anche a te?»
Annuii.
«Ti ha detto dov’è?» Non potei fare a meno di notare quanto le riuscisse difficile chiederlo.
«No», risposi. Poi ci guardammo, e probabilmente capimmo entrambe che, se anche lo avessi saputo, non glielo avrei detto. Non potevo correre il rischio che Martin lo scoprisse.
Non dicemmo granché, dopo quel primo weekend. Stavamo trovando un modo nostro di comunicare, una domanda alla volta. Mi fece ripensare ai giorni d’ospedale in cui eravamo rimaste sedute sui due lati opposti del letto di Fisher.
«Potresti passarmi quello straccio?»
«Sei pronta per il pranzo?»
Più la guardavo e più sonore diventavano le domande che sentivo nella mia testa, ma che non pronunciavo ad alta voce. “Perché rimani con Martin? Come hai potuto permettere che Fisher se ne andasse?”
Se dovevo lavorare con Maridel, pensai, forse potevo almeno arrivare a conoscere una storia vera. Non sarebbe stato semplice, lei era misteriosa come lo era stato Fisher durante il primo violento temporale sull’isola. Gli avvenimenti delle ultime settimane avevano solo aggravato la situazione.
Mio padre mi aveva insegnato che il modo migliore per indurre un animale selvatico a parlarti era rimanere in silenzio, così cercai di pazientare. Lasciai che le ore si dipanassero intorno a noi. A fine giornata Maridel si dileguava su per il sentiero come una nuvola di fumo. Sapevo però che sarebbe tornata. Lo aveva promesso a Colette, e avrebbe mantenuto la parola.
La settimana successiva passai tutte le pause pranzo nella biblioteca della scuola, ma non scoprii molto di più su mia madre. Negli ultimi cinque anni la Inspire Inc. aveva riscosso un enorme successo. La lista di clienti, ormai di dominio pubblico, includeva alberghi e negozi di prestigio che promuovevano il proprio legame con l’azienda, ma non c’era niente sulla vita privata di Victoria Wingate, e niente su mio padre.
Tutto quel leggere di profumi, però, mi fece riflettere. Nel bene o nel male l’odore aveva sempre rappresentato una parte enorme della mia vita, eppure non avevo mai pensato di usarlo, almeno non nei modi illustrati in quegli articoli. Quando citavano le parole di Victoria, il profumo sembrava una bacchetta magica da brandire in qualunque momento.
Cominciai a interrogarmi. Se le essenze potevano indurre i clienti a perdere la cognizione del tempo o a scommettere denaro che magari non avevano, li si poteva usare anche per spingere qualcuno a rivelarti un segreto?
Quel giorno, tornando a casa, trovai una lettera di Fisher nella cassetta della posta.
Il vivaio è bellissimo. I tizi con cui abito sono okay. La città è grande.
Le parole erano piatte, le informazioni centellinate. L’intera missiva somigliava a brevi frasi scritte da uno studente riluttante sul tema: «Cosa ho fatto durante le mie vacanze in città». Desideravo avere notizie di Fisher, ma mi spezzò il cuore ricevere una lettera che non diceva tutte le cose di cui avevo bisogno, tipo: Ti amo. Mi manchi. Di lettera in lettera lui sembrava sempre più distante, come se qualsiasi cosa avesse mai provato per me stesse sbiadendo lentamente ma inesorabilmente. Mi scriveva solo perché si sentiva in dovere di farlo? Non avevo modo di saperlo.
E nessun indirizzo del mittente nemmeno stavolta. Nessun modo di rispondergli.
Non c’era niente che io potessi fare, il che serviva solo a rafforzare la mia determinazione a scoprire il segreto di Maridel. Progettavo di portarlo a Fisher, di consegnarglielo come un dono.
“Vedi? Ti amo. L’ho fatto per te.”
Sapevo di avere soltanto un’unica possibilità, così aspettai, tenendo gli occhi aperti. Con il passare del tempo vidi Maridel rilassarsi, prendere confidenza, come aveva fatto Fisher quella prima estate nella baia. Quando arrivava, il sabato mattina, i suoi movimenti erano tesi, contratti, ma con il trascorrere delle ore si facevano più distesi. I suoi occhi cessavano di essere guardinghi, lei smetteva di fare e rifare le cose. A ogni nuovo weekend il passaggio nel nostro mondo avveniva sempre più agevolmente, e ogni pomeriggio lei sembrava più restia a tornarsene a casa.
Aspettai il momento giusto e un’altra lettera di Fisher, ma nessuno dei due arrivò. Erano passate più di due settimane dall’ultima.
“Dove sei, Fisher?” continuavo a chiedermi. “Mi ami ancora? Mi hai mai amato?”
Pensai a tutti i motivi per cui avrebbe potuto volermi dimenticare. Oppure era ferito, sofferente, in un luogo in cui non riusciva a comunicare e in cui non l’avrei mai trovato. Non sapevo se sentirmi arrabbiata, triste o angosciata. Il mondo era pieno di cose che non sapevo.
Il sabato dopo Colette ci chiese di pulire a fondo il cottage rosso, quel genere di pulizie con lo spazzolino da denti nelle fessure e lo sgrassatore nel forno.
«Ti dà una sensazione così piacevole», commentò mentre ci mandava via.
«Facile per lei dirlo», ribatté Maridel, incamminandosi sul pontile. Vidi un sorriso guizzarle sulle labbra. Il primo.
Era arrivato il momento.
Avevo conservato la maglietta che indossavo l’ultimo giorno sull’isola con Fisher, quella con il suo odore. All’epoca non potevo sapere come sarebbe finita quella giornata, ma dopo il nostro ritorno nella baia avevo nascosto la maglietta in fondo al cassettone. Ogni tanto la tiravo fuori e la annusavo, in quel modo mi sembrava di essere con Fisher, giusto un attimo prima di rimetterla via.
«Dove sei, Fisher?» chiedevo al suo odore. «Scrivimi. Ti prego.»
La domenica mattina la presi e la indossai. L’odore mi catapultò di nuovo sull’isola. Sopra ci misi una felpa pulita, mascherando così gli effluvi.
«Mi devi aiutare, Fisher.»
Io e Maridel stavamo lavorando nella cucina del cottage rosso. Rimasi in silenzio, tentando di adeguare i miei movimenti ai suoi, come avrebbe fatto Fisher. Dopo circa un’ora la mia pelle cominciò a scaldarsi e l’odore sulla maglietta a intiepidirsi e a espandersi. Senza guardare Maridel, mi sfilai la felpa e lasciai che l’aroma di Fisher si espandesse nella stanza.
Sapevo per esperienza personale come i profumi possano raggiungerti obliquamente, di soppiatto, inducendo la tua mente e il tuo cuore a vagabondare attraverso i ricordi. Mentre osservavo Maridel il suo viso cambiò, si aprì. La sua mano rallentò il movimento circolare sulla superficie che stava pulendo. Lei guardò fuori dalla finestra, verso l’acqua. Quando parlò non si rivolse a me, ma a un indefinito mondo esterno. O forse tentava di farle giungere fino a Fisher.
«Mio padre era un giocatore di baseball», cominciò a raccontare, mentre la sua spugna continuava a sfregare un punto in particolare. «Gli piaceva colpire le cose. Non avevamo mai molto, e se chiedevi qualcosa di più lui ti buttava fuori di casa a calci. Viaggiava con la squadra, quindi non c’era sempre, ma ogni volta che tornava mia madre restava incinta. E se lei non era disponibile…» A quel punto mi guardò, un’occhiata rapida. «Be’, lui sceglieva qualcun altro.»
Rimasi ferma accanto a lei, immobile. Un pozzo tranquillo, in attesa delle pietre delle sue parole.
«Toccava sempre a mia sorella maggiore», aggiunse dopo un po’, «finché una notte non fu così. Avevo appena compiuto sedici anni. La mattina dopo mi alzai presto e me ne andai quando tutti stavano ancora dormendo. Feci l’autostop per uscire dalla città. Fu Martin a raccogliermi, era venuto a comprare un po’ di attrezzatura per la pesca. Era così gentile. Sembrava un segno del destino. Mi chiese dove ero diretta e io risposi: “Dove nessuno può trovarmi”, e lui disse che conosceva il posto giusto per me.» Rise, più una scrollata di spalle che un suono. «Bisogna dargliene atto, Martin non mente.»
«Ma lui…» Le guardai involontariamente le braccia, dove talvolta comparivano lividi.
«Lo so, ma non è sempre stato così.»
«Perché non te ne vai?»
«Dove potrei andare?» Scosse il capo.
«Sai», aggiunse dopo una breve pausa, «Martin è stata l’unica persona che mi abbia mai detto “sei bella”. Quando ci siamo conosciuti mi teneva il viso fra le mani e mi guardava. Sono stata io a mentire. Gli ho fatto credere che potevo uscire in barca con lui, che potevamo essere felici.»
Avrei voluto contraddirla, spiegarle che aveva raccontato bugie solo a sé stessa, ma non riuscii a parlare. Mi lanciò un’occhiata. «Martin mi ha spiegato che i salmoni tornano sempre a deporre le uova nello stesso fiume, ha detto che è l’odore a fargli risalire la corrente. Forse siamo più simili ai pesci di quanto crediamo. Tutto quello che so è che quando l’ho conosciuto mi sono sentita a casa.»
Scoppiò di nuovo in quella strana risata. «Immagino che questo avrebbe dovuto mettermi sull’avviso, eh?»
Mi sembrava di affogare. Mi concentrai sull’odore di Fisher, pur sentendolo già svanire dalla maglietta.
«Perché non hai raccontato nulla di tutto questo a Fisher?» chiesi.
«Per proteggerlo.» La sua risposta fu rapida, le parole limpide, lucidate da anni di riflessioni.
«Da cosa?» Pensai a Fisher steso su quel letto di ospedale, all’orma di stivale sul suo petto, allo sguardo nei suoi occhi. Lei non lo aveva protetto da niente, per quanto mi era dato di vedere.
«Da me», rispose.
Riuscii solo a fissarla, sbigottita. Sforzò di trovare i termini giusti, come se non ci fosse bisogno di tradurre la logica a parole.
«Quando è nato Fisher», aggiunse alla fine, «era avvolto nella copertina. Prendendolo tra le braccia ho pensato che era così perfetto, così pulito. E ho pensato che se non avesse saputo da dove arrivavo la cosa non avrebbe potuto toccarlo. Forse non potevo fermare Martin, ma potevo tenere lontano Fisher dal mio passato.»
«Ma lui voleva sapere. Te lo ha chiesto.»
Il viso di Maridel era triste ma risoluto.
«Non sai cosa farai finché non ti trovi nella situazione, Emmeline. E tu ne sei ancora lontana.»
Prese la spugna e ricominciò a pulire.