Quando eravamo più giovani, Fisher mi aveva insegnato a leggere un viso per individuare una menzogna. Con il passare del tempo scoprii che anche le menzogne hanno un odore. Ne hanno sempre uno un po’ troppo dolce, come se avessero bisogno di una dose supplementare di persuasione olfattiva. Eppure quella domenica, mentre la madre di Fisher parlava, non captai l’aroma di una bugia, nemmeno una volta. Quello che disse – i suoi motivi per non andarsene, per non informare Fisher – non aveva alcun senso per me eppure lo aveva per lei. Credeva in ciò che affermava. Stava dicendo la verità, anche se era solo il suo punto di vista. Lo capii dall’odore.
Ripensai alle lettere di Fisher e agli articoli che avevo trovato sul computer della scuola e stampato. Se soltanto quelle pagine avessero somigliato ai foglietti profumati e fossero state in grado di emanare insieme alla loro storia l’odore di bugia o il contrario, io avrei potuto capire, così come avevo capito la madre di Fisher. Ma forse non avrebbe avuto importanza. Forse le storie sarebbero state proprio come quelle di Maridel: una verità parziale, che non necessariamente avrebbe coinciso con la mia. Non lo avrei mai saputo, finché non mi ci fossi trovata in mezzo. Finché non avessi trovato Fisher. E mia madre.
Eppure era impossibile trovare Fisher senza avere un’idea più precisa di dove vivesse. Continuai a sperare in un’altra lettera, un indizio, un indirizzo. Le settimane passarono. La preoccupazione mi serrava lo stomaco come una fascia addominale, mi aggrovigliava i pensieri. La notte restavo stesa a letto, sicura che lui mi odiasse o che mi avesse dimenticato. La mattina odiavo me stessa per aver dubitato di lui. Ogni giorno i medesimi stati d’animo.
Decisi che se non avessi ricevuto una lettera prima del nuovo anno sarei andata in città comunque. Lo avrei rintracciato. Avrei trovato mia madre.
Il giorno del Ringraziamento arrivò e passò. Tagliammo un abete per farne l’albero di Natale. Aiutai Colette a preparare tortini ripieni di carne e mescolai la cioccolata calda che lei amava preparare con ingredienti freschi. Controllai la cassetta della posta. Feci i compiti, fingendo di prepararmi per il diploma. Portai Dodge a fare brevi passeggiate che ormai erano l’unica cosa che le sue vecchie zampe potessero reggere. Controllai la cassetta della posta. Io e Maridel finimmo di pulire i cottage ma lei continuò a venire nella baia, per aiutare Colette con le prenotazioni. Controllai la cassetta della posta. L’ultimo giorno di vacanza ero ormai così agitata che Colette mi mandò fuori ad aiutare Henry a riparare la balaustra della veranda del ristorante.
Faceva molto freddo e le nuvole erano basse, soffiava il genere di brezza che si intrufola sotto qualsiasi indumento. Non so nemmeno come mai stessimo lavorando sulla balaustra in quel periodo dell’anno, ma era piacevole picchiare su qualcosa. Per lo più Henry restava in disparte e indicava, io martellavo. Sentivo nelle braccia l’onda d’urto dei colpi che mi rilassava.
«Attenta al chiodo», disse a un certo punto. Ne avevo piantato uno storto. Henry sorrise e si chinò, ne afferrò la testa con il suo martello e lo estrasse. «Riprova.»
Continuammo così per un po’. Era in quel modo che avevamo sempre lavorato insieme, senza molte parole. Era Colette la chiacchierona. Forse è per questo che lo raccontai a Henry.
«Ho scoperto chi sono», dissi, senza guardarlo.
«Davvero?» Non mi subissò di domande, e nello spazio vuoto che lasciò trovai un posto per le mie parole. Cominciai a raccontargli cosa avevo letto su internet ma, quando arrivai alla parte sulla macchina di mio padre, lui mi posò una mano sul braccio.
«Pensi che dovrebbe sentirlo anche Colette?» chiese, e capii che aveva ragione.
Tornammo verso casa, ascoltando i nostri piedi che parlavano alle assi di legno mentre camminavamo. Colette stava finendo di preparare la cena quando entrammo.
«Un perfetto tempismo», commentò, disponendo su un vassoio le fette di arrosto di maiale. Il profumo aveva reso l’aria dorata.
«Emmeline vuole dirci qualcosa», annunciò Henry. Lei posò sul tavolo una zuppiera di purè e si sedette, guardandomi al di sopra del tavolo.
«Che cos’è?» chiese.
Trassi un bel respiro, tenendo dentro di me tutti gli aromi di quella cucina, poi raccontai loro di mio padre e mia madre, di Nightingale e delle boccette che papà conservava nei cassetti.
«Ricordo di aver letto di quella macchina quando arrivò sul mercato», disse Colette, «ma poi scomparve nel nulla. Mi sono sempre chiesta cosa fosse successo.»
Henry mi guardava, annuendo lentamente. «Quindi è per questo che volevi tornare indietro a prendere la bottiglietta», affermò. «Quella che hai lasciato sull’isola.»
«Sì», confermai. «Sospetto che le bottigliette di mio padre fossero i test della macchina, per vedere quanto a lungo potessero durare i foglietti o simili. Quella riguardava il capanno. E noi.»
«Ah», disse Henry.
«Ma quello che ho letto su internet non quadra del tutto», sottolineai. «Voglio scoprire la verità.»
«Certo», replicò Colette in tono pieno di supporto, ma vidi come mi osservava, nello stesso modo in cui lo aveva fatto al mio arrivo lì, cinque anni prima: come se fossi una marea che poteva andarsene con la stessa facilità con cui era arrivata.
«Sei stata un dono del tutto inaspettato», diceva sempre.
Ormai avevamo finito di mangiare. Dodge, che nell’ultima mezz’ora aveva implorato pezzetti di carne di maiale dalle mie dita, andò a grattare sulla porta d’ingresso. Henry venne con me quando andai ad aprirgliela. Restammo sulla veranda, nell’aria invernale frizzante.
«Colette ti ha mai raccontato come siamo finiti quassù?» mi domandò.
«Ha detto che vi siete conosciuti in un parco di New York. Tu avevi saputo di un lavoro qui e le hai chiesto di venire con te.» Ricordavo la storia persino dopo tutti quegli anni.
«Ti ha detto che ha risposto di no?»
Lo guardai, stupita. «No.»
Rise sommessamente. «Lo ha fatto, ha detto che non poteva attraversare l’intero paese con un tizio appena conosciuto. Io partii comunque. Mi trovavo qui da una settimana, avvilito e depresso, quando un pomeriggio eccola lì sullo sterrato, che veniva verso di me. Disse che non sapeva cosa le era passato per la testa, quando mi aveva lasciato andare via.» Sorrise. «Il più bel momento della mia vita.»
Sopra la baia le nubi si diradarono abbastanza per lasciar filtrare la luce della luna.
«È piena», disse Henry, indicandola. «Domani ci sarà alta marea.» Pensai alla notte in cui io e Fisher eravamo scappati. Gli afferrai il braccio e mi piegai verso il suo odore di vernice e segatura.
«Henry», spiegai, «non volevo abbandonare te e Colette quando…»
«Lo so», replicò, posando la sua mano callosa sulla mia. «E non vorrai farlo nemmeno la prossima volta. Stai tranquilla, è tutto a posto.»
L’indomani non c’era nemmeno una nuvola in cielo e quando tornai da scuola scoprii che Henry aveva approfittato del bel tempo per fare le consegne sulle isole. Di solito rientrava prima delle quattro, ma in quel caso arrivò quando faceva buio già da tempo e Colette stava per chiamare la guardia costiera.
Non appena sentimmo finalmente il suo motore gli andai incontro sul molo.
«Colette sta avendo un attacco», gli dissi.
Ridacchiò. «Naturalmente.» Recuperò una sacca di tela dal fondo della barca. «Questa è per te.»
La presi con dita esitanti. Sentii qualcosa di cilindrico e non troppo pesante al suo interno. Lo tirai fuori e lo fissai incredula. La mia bottiglietta!
«Grazie», dissi.
«Ho pensato che potesse servirti.»
La porta della casa si aprì.
«Sei ancora tutto intero, vecchio?» chiese Colette dall’alto.
Henry mi strizzò l’occhio. «Puoi mettere quella sacca in un posto meno evidente? Colette ha detto che se avessi attraversato ancora quel canale mi avrebbe ucciso.»
Quella notte, mentre Henry e Colette dormivano, feci i bagagli. Stavolta scrissi un biglietto.
Vado a cercare la verità. Vi chiamerò, lo prometto.
Con affetto, Emmeline.
Infilai per la seconda volta la boccetta nel mio zaino. Mi chinai per abbracciare Dodge, gli diedi un bacio sulla testa.
«Tornerò», dissi. Non aprì gli occhi ma si spostò per lasciarmi passare.