C’era soltanto un autobus al giorno, e lasciava la cittadina alle otto del mattino. Mentre contavo i soldi per il biglietto mi tremavano le mani. Me n’ero andata di casa con trecentottantasette dollari, mance messe da parte nel corso degli anni di pulizia dei cottage. Nella baia non avevo mai avuto un gran bisogno di soldi, e mentre il pullman usciva borbottando dalla stazione le banconote mi parvero una rete di sicurezza troppo piccola.
Mi rannicchiai sul sedile, le braccia serrate con forza intorno allo zaino, guardando sfilare gli alberi, una parete di verde interrotta solo da lampi di radura oppure enclave di case, un negozietto o due. Avevo studiato le cartine sull’atlante di Colette, ma adesso quei minuscoli chilometri di carta si trasformarono in strade e montagne e negli odori degli altri passeggeri, i loro sandwich al tacchino e il caffè bruciato, gli aromi residui di gatti e cani e la cena della sera prima abbarbicati sui loro abiti.
Avevo il corpo indolenzito, reduce da una lunga notte e da un’ancora più lunga scarpinata fino alla fermata dell’autobus. Mi misi comoda sul sedile, fingendo che i braccioli e lo schienale fossero le spirali di una conchiglia che mi teneva al sicuro. Mi addormentai, notando a stento le persone che salivano e scendevano, il modo in cui gli odori stavano cambiando, acuendosi.
Fui svegliata da un forte colpo di clacson e mi ritrovai in una foresta di metallo e vetro.
Torri più alte degli alberi cercavano di ghermire il cielo. Le vetture sciamavano intorno al mio pullman, strillando mentre attraversavano gli incroci. Le persone gremivano i marciapiedi, la testa china sul cellulare stretto tra le mani sollevate come per pregare. Un uomo simile a un ammasso di foglie sedeva su uno scatolone a suonare la chitarra. Un cane non più grande di uno scoiattolo sfrecciava fra gambe fasciate di nero. Sentii gli odori pulsare contro il vetro, tentando di raggiungermi.
Avevo visto le città in TV ma non ne avevo mai percepita la forza fisica. Come si poteva rintracciare qualcuno, lì? Nello zaino avevo due cambi di vestiti, una lista di indirizzi, la maglietta di Fisher e la bottiglietta con la cera verde di mio padre. Le eroine nelle fiabe partivano con molto meno, ma avevano la magia dalla loro parte. In quel posto non c’era nessuna magia, solo una sirena sorridente sull’insegna di un negozio.
Mi intendevo di sirene.
L’autobus accostò al marciapiede e quando le sue porte si aprirono gli odori sfrecciarono all’interno. Fumi di scarico e olio bollente, caffè freddo e urina stantia. Il tanfo pungente di sudore da paura. Il livido viola scuro della brama. E sopra tutto ciò, come una nebbia sempre più bassa, il puzzo di asfalto e plastica. Scivolai sul sedile, coprendomi il naso con la felpa.
Il pullman si immise nuovamente nel traffico, chiudendo le porte. Serrai gli occhi con forza, cercai di non respirare. Immaginai l’aroma di lievito tiepido che si trasformava in pane morbido, di terriccio che si apriva alla pioggia. Infilai il naso nell’apertura del mio zaino, tentai di trovare l’odore della maglietta di Fisher, della sua pelle.
Dopo un po’ il pullman si fermò di nuovo, e stavolta il motore si spense. Aprii gli occhi e vidi l’autista guardare verso di me.
«Capolinea», annunciò.
“Cosa sto facendo?” mi chiesi.
Lui fece schioccare la lingua, impaziente.
“Vai avanti e basta, Emmeline”, mi dissi.
Rimasi ferma davanti alla stazione degli autobus, cercando di orientarmi. Gli edifici svettavano tutt’intorno a me. Sapevo che lì in città c’era un ostello, lo avevo trovato su internet nella biblioteca, ma la piantina che avevo visto sullo schermo non aveva alcun senso, in mezzo a quel caos.
«Sai dove stai andando?» mi chiese l’autista.
«Sto cercando di trovare questo posto», risposi, porgendogli il foglietto con l’indirizzo.
Lui si rivelò comprensivo, aveva una figlia più o meno della mia età. Insistette per accompagnarmi a piedi fino all’ostello, fornendomi quello che definì un orientamento lungo la strada. Mi condusse attraverso la foresta di edifici finché non si aprirono e io vidi una distesa d’acqua che avrebbe potuto contenere cinquanta, forse cento Secret Cove.
«Quello è il porto», disse, indicandolo. Era bordato da enormi palazzi con torrette e portoni imponenti.
«Quelle sono regge?» chiesi, e lui rise.
«Solo per i ricchi.»
Mi accompagnò su una passerella che correva fra il molo e una lunga fila di edifici di stinti mattoni rossi. Le nostre scarpe produssero, sul legno vecchio, un sommesso ticchettio che mi ricordò casa, e non potei fare a meno di assorbire quella musica, come fosse uno scudo contro tutti gli altri rumori. Oltrepassammo ristoranti affacciati sull’acqua, gemiti di persone sulle terrazze bellissime e ridenti. Il mio stomaco si ridestò per il profumo di formaggio fuso e aglio arrostito, limoni freschi e cioccolato tiepido, ma la mia mente si chiuse quando vidi i prezzi scritti con il gesso sulle lavagnette accanto alle porte. Non potevo permettermi di mangiare in nessuno di quei locali.
Tornammo verso la città imboccando una complessa serie di svolte a destra e a sinistra, prima di percorrere uno stretto vicolo di mattoni costeggiato di minuscoli negozietti da cui fuoriuscivano odori densi, troppo dolci, troppo intensi. Una fiumana di turisti armati di macchine fotografiche venne verso di noi, le voci rimbalzavano fragorosamente sui muri. Ci aprimmo un varco, pagaiando controcorrente.
“Come potrò mai trovarti qui, Fisher?”
«Eccoti arrivata», disse l’autista del pullman quando sbucammo dal vicolo. Trasalii, pensando per un attimo che si riferisse a Fisher, ma poi vidi che stava indicando, sul ciglio opposto della strada, uno stretto edificio giallo infilato come la farcitura di un sandwich fra un ristorante e una scuola di lingue. «Te la caverai?»
«Certo», risposi, senza credervi affatto.
Lui mi diede una pacca sulla spalla e poi andò via.
Con dita tremanti pigiai il campanello e un cicalino mi aprì la porta. Pagai una settimana anticipata, dando i soldi a una giovane donna con i capelli troppo neri e quelli che sembravano ami da pesca infilati nei lobi delle orecchie. Lei mi consegnò una chiave e disse: «Numero dieci».
Dopo due rampe di scale e un lungo corridoio trovai la stanza: tre letti di metallo e un lavandino bianco, tanto spartani quanto caotica era ogni cosa all’esterno. Le finestre erano alte e il pavimento di legno graffiato. Un tempo poteva essere stata bella, ma non pulita quanto il cottage di Colette. Comunque era economica. Se stavo attenta avevo soldi sufficienti per quasi due settimane.
Tornata nell’atrio, spesi alcuni preziosi quarti di dollaro per chiamare Henry e Colette dal telefono pubblico.
«Dove sei? Stai bene?» Colette suonava quasi frenetica.
«In città», risposi. «Sto benissimo. Alloggio in un ostello.»
«Mi hai spaventata.»
«Lo so. Mi dispiace.»
«Vuoi tornare a casa? Henry può venirti a prendere.» In sottofondo sentii il tintinnio della medaglietta metallica di Dodge contro la ciotola dell’acqua e per un attimo temetti di non resistere.
«No», risposi, «non ancora.» Non avrei rinunciato già il primo giorno.
Parlammo per qualche altro minuto, ma i soldi finirono troppo presto e ascoltai il lungo ronzio sordo quando la comunicazione si interruppe. Una ragazza che passava alzò gli occhi dallo schermo sfavillante del suo cellulare.
«Quell’aggeggio funziona ancora?» chiese.
Rimasi ferma lì, il ricevitore in mano. Il mio unico desiderio era tornare in quella spoglia e tranquilla camera al piano di sopra e nascondermi. Non sapevo bene cosa mi ero aspettata che succedesse dopo il mio arrivo in città, forse di vedere il rosso dei capelli di Fisher brillare come un faro sul ciglio opposto di una strada affollata. O forse avevo sperato che un istinto amoroso guidasse i miei passi. Ma la città non era affatto come l’avevo immaginata. Faceva sembrare piccoli gli oceani. L’istinto vi annegava. Mi serviva un piano, qualcosa a cui tenermi aggrappata.
Sentii la voce di mio padre nella testa. “Valuta la situazione, Emmeline. Elimina le variabili. Stabilisci qual è la linea di condotta migliore.”
Mi costrinsi a uscire. Dietro l’angolo c’era un minimarket dove comprai un vasetto di burro di arachidi, un filone di pane e una piantina della città. Tornata all’ostello trovai una serie di opuscoli con tragitti e orari degli autobus. Portai tutto sul mio letto, mi preparai un panino e aprii la piantina. Contrassegnai con inchiostro verde tutti i vivai mentre sbocconcellavo il pane appiccicoso e fragrante. Non smisi prima di averli individuati tutti e quarantanove.
I segni sembravano un branco di pesci in un oceano sconfinato. Mentre li osservavo, la scarica di adrenalina che mi aveva condotto fin lì scemò. Erano soltanto le otto di sera, ma mi lavai i denti e mi stesi, tirandomi le coperte fin sopra il naso.
Il sonno non arrivò. Ero sola nella stanza e il suo vuoto echeggiava tutt’intorno. Le uniche notti che avessi mai trascorso da sola erano state quelle nel capanno, dopo la morte di papà. I ricordi si insinuarono e mi fecero tremare. Desiderai avere Fisher nel mio letto, o almeno Dodge accanto alla porta. Sentii dei rumori nel corridoio, la rozza risata di ragazzi, voci che parlavano in una lingua che non capivo. Fuori per strada il traffico era un rombo costante. Un uomo urlò, un suono aspro, lamentoso. Un’ambulanza passò strillando e sfrecciò via nella notte con un gemito.
Le mie compagne di stanza entrarono ore dopo, le loro voci forti ed eccitate come quelle delle lavoranti estive a Secret Cove. Le ridussero a un sommesso ridacchiare ubriaco quando si accorsero della mia presenza. Mi girai su un fianco, tirando lo zaino verso di me, gli occhi serrati con forza, mentre imploravo il sonno di raggiungermi.
Le mie giornate divennero una routine fissa di sandwich al burro di arachidi, autobus e vicoli ciechi. Ogni sera tornavo all’ostello e al mio mutevole gruppo di compagne di stanza, che una certa sera profumava di patchouli e un’altra di lime e sale. I miei sogni erano pieni di lingue che imparai a identificare ma che non capivo. Ascoltavo le risate, le battute e i piani ambiziosi delle mie compagne di stanza e mi ritrovavo a invidiare il fatto che quella città rappresentasse solo una tappa sul loro cammino, un posto in cui collezionare ricordi o ragazzi prima di ripartire. Restavo stesa a letto, cercando di immaginarmi mentre rintracciavo Fisher e lo sorprendevo con un bacio.
“Ti ho trovato”, avrei detto.
Non successe. Ottenni solo duri sedili di autobus e i volti inespressivi di proprietari di vivai. Al sedicesimo tentativo scoprii di avere difficoltà a descrivere Fisher: stava sfumando fra le centinaia di facce che vedevo ogni giorno.
«Capelli rossi, occhi verdi», dicevo, dimenticando il modo in cui riusciva a inarcare leggermente il sopracciglio sinistro quando voleva inviarmi un segnale. La piccola cicatrice bianca sul pollice destro, procurata raccogliendo molluschi nella laguna. Quella città era troppo grande, troppo veloce, per assorbire in modo disteso quei dettagli.
“Anche tu non ricordi più come sono fatta, Fisher?”
Alla fine del sesto giorno di ricerche tornai all’ostello nel tardo pomeriggio. Ero stanca eppure troppo irrequieta per rimanere al chiuso, così andai sul molo per sentire l’odore dell’acqua salata. Ma il profumo di acqua salmastra si perdeva nella foschia di auto e barche e idrovolanti. Il cemento sigillava il terreno, gli effluvi della terra chiusi saldamente a chiave sotto di esso. Proseguii, ignorando il mio naso, con l’unico desiderio di camminare fino a sentir bruciare le gambe e ritrovarmi in un altro posto, un posto qualsiasi.
Quando alzai gli occhi ero sul limitare di una distesa di erba e alberi. Non era una foresta ma quando mi spinsi all’interno, seguendo un sentierino di cemento dalle lievi curve in pendenza, sentii gli aromi cambiare. Benché fosse ancora inverno, lì c’era vita. Notai un abete Douglas e lo raggiunsi, infilando il naso nella sua corteccia.
«Ehi, tu», sussurrai. Sentii il mio fiato scaldare il tronco, circondarmi il viso. Passai di albero in albero, salutandoli uno dopo l’altro, annusando abete rosso e cedro, ciliegio e melo, e alcuni che ancora non conoscevo.
Al calare del buio ritrovai il sentiero e tornai verso l’ostello. Nel mio futuro avevo altri autobus ma portavo con me, sui polpastrelli, il profumo della resina.
Dopo quel pomeriggio nel parco raddoppiai i miei sforzi per cercare Fisher. Mi dissi che non potevo permettermi di fare altrimenti, ed era vero. Passai da un vicolo cieco all’altro. Il mondo era cemento e sedili troppo vicini e palazzi che sembravano tutti uguali.
La decima mattina entrai nel quarantasettesimo vivaio, molto periferico. Ormai avevo imparato a non interpellare la direzione: tutte le informazioni valide arrivavano dalle persone con il terriccio sulle mani. Trovai una giovane donna, i capelli infilati in un berretto da baseball, che portava un grembiule con il logo del vivaio. Restammo in piedi nella serra, l’aria gravida di fiori che non avrebbero dovuto ancora sbocciare. «È arrivata la primavera», annunciavano, contraddicendo il tempo all’esterno.
«Lavora qui un ragazzo di nome Fisher?» chiesi. Ormai avrei potuto fare quella domanda anche nel sonno.
Lei scosse il capo, spostando di vaso in vaso il tubo per annaffiare.
«Capelli rossi?» insistetti io. «Occhi verdi?»
«Oh», replicò, «ti riferisci a Jack.»
Mi balzò il cuore in gola. “Certo”, pensai, “naturale che abbia scelto quel nome.”
«Oggi c’è?» chiesi, il tono reso acuto dall’eccitazione.
«Oh. No. Lo hanno licenziato circa tre mesi fa. C’è stata questa faccenda con una ragazza…» Notò la mia espressione. «Oh, diavolo, sono una scema. È un tuo amico?»
Annuii, ma avevo smesso di ascoltarla.
“Ha trovato un’altra.”
Non sapevo cosa fare di quel pensiero. Io e Fisher non eravamo mai stati come gli altri ragazzi della scuola, che sceglievano e scartavano partner come fossero conchiglie sulla spiaggia. Eravamo le due metà di un intero, lo eravamo sempre stati, sin da quando ci eravamo conosciuti. Potevamo venire separati ma mai sostituiti. Ci avevo creduto, come non avevo mai creduto a nient’altro dopo la morte di papà. Era stata la mia stella polare per quasi cinque anni.
Dopo la partenza di Fisher avevo immaginato una miriade di scenari diversi, una miriade di cose diverse che avrebbero potuto succedergli lì in città, ma non quella. Non avevo mai pensato alla cosa più ovvia del mondo.
Quanto ero stupida? Logico che lui avesse trovato un’altra, una ragazza che non l’avrebbe tradito. Avrei dovuto immaginarlo.
«Cosa è successo?» domandai alla giovane donna con il terriccio tra le mani.
«Senti, non dovremmo nemmeno parlarne. È stato un po’ un casino.» Andò verso il rubinetto cui era fissato il tubo. La seguii.
«Sai dov’è andato?»
Chiuse il rubinetto, poi mi guardò in faccia e si impietosì. «Ho sentito dire che non ha nemmeno ritirato il suo ultimo stipendio.»
Rimasi ferma, circondata da quei fiori ingannevoli, e contai mentalmente a ritroso. Tre mesi. Quando le sue lettere avevano smesso di arrivare.
Mi ero preoccupata e avevo aspettato e cercato un ragazzo che non voleva nemmeno essere trovato. Mi ero sbagliata sin dall’inizio, risucchiata in una fiaba. Di nuovo. In fondo ero proprio come le erbacce in quel vivaio, da estirpare e sostituire con qualcosa di migliore, di più gentile.
Ero la metà di niente.
“Vai al diavolo, allora”, pensai, ma le parole erano liquide. Non sapevo nemmeno se le stavo dicendo a Fisher o a me stessa.
Quando tornai nella mia camera mi chiusi la porta alle spalle. Mi erano rimasti solo trenta dollari, non bastavano nemmeno per tornare a Secret Cove in pullman. Fisher se n’era andato, era scomparso quando le cose si erano messe male, aveva tagliato i ponti con la sua vecchia vita e ne aveva iniziata una nuova, proprio come aveva fatto mio padre.
«I salmoni tornano sempre nello stesso fiume», aveva detto la madre di Fisher. Mi ero vantata di essere diversa, di avere scelto meglio, ma forse nessuno di noi è in grado di farlo.
Lasciai cadere lo zaino sul pavimento accanto al mio letto. Si rovesciò e il vasetto di burro di arachidi rotolò fuori, insieme alla mia piantina. Le pieghe nella carta si erano lacerate, ormai, e i quarantanove segni verdi erano tanto sbavati da mimetizzarsi con lo sfondo. Li fissai per un istante.
Poi presi una penna rossa e trovai un altro indirizzo. Lo cerchiai: Inspire Inc.