INSPIRE INC.

La società di Victoria era situata in un palazzo di vetro verde, piazzato fra i suoi vicini di mattoni come un fiume che scorre fra rive fangose. Quando entrai la receptionist al bancone d’ingresso mi rivolse un’occhiata scettica, esaminandomi dalla testa ai piedi. A un tratto mi sentii molto consapevole del mio aspetto fisico. Un paio di vecchi jeans, uno stinto zaino rosso con le cinghiette sfilacciate. Non mi lavavo i capelli da una settimana perché non potevo permettermi i soldi per una doccia. Sull’autobus non se n’era accorto nessuno, ma lì non ero su un autobus.

La donna posò la mano sul telefono ma poi un uomo con un rigido completo nero raggiunse il bancone, il viso di lei si aprì come un fiore e io venni dimenticata.

Colma di sollievo scivolai fino a un divano di pelle senza schienale, nascosto da due piante simili a salici in alti vasi neri. Da lì potevo tenere d’occhio sia l’ascensore che l’ingresso. Volevo vedere mia madre prima di dirle chi ero.

Era quasi l’ora di pranzo. Uomini e donne eleganti sciamavano attraverso l’atrio. Li guardai e inspirai. Il profumo nell’aria intorno a me era un mix artificiale ma sofisticato, un miscuglio di verdi freschi: erba, acqua e qualcos’altro.

“Soldi”, capii, e quasi scoppiai a ridere, per la prima volta dal mio arrivo in città.

Ci preoccupiamo anche del più minuscolo dettaglio, riportava l’articolo.

Un uomo di una certa età entrò dalle porte girevoli. I suoi jeans, la maglietta semplice e i capelli bianchi raccolti in una corta coda di cavallo erano in netto contrasto con la raffinatezza di ciò che lo circondava. Mentre passava colsi una zaffata di quello che sembrava fumo di pipa. Mi ricordò così intensamente il capanno che mi trattenni a stento dal seguirlo. Rimasi dov’ero e aspettai.

Adesso che ero lì mi resi conto che non sapevo bene cosa pensavo, o speravo, che potesse succedere. Stavo cercando una donna che era andata in televisione per implorare il mio ritorno, ma anche una donna che aveva smesso di cercarmi. Non sapevo quale delle due avrei trovato, se lei mi avrebbe anche solo voluto.

Dopo quanto avevo appena saputo di Fisher, forse la mia unica vera speranza era avere la possibilità di decidere se io volevo lei oppure no.

piccolo fregio usato per separare

Osservai l’atrio per quasi tre ore. Cominciò a brontolarmi lo stomaco. Avevo un ultimo sandwich nello zaino ma preferivo non attirare l’attenzione della receptionist.

Stavo quasi per rinunciare quando le porte dell’ascensore si aprirono di nuovo per lasciar uscire due donne. Una era giovane, con i capelli di un biondo chiarissimo tagliati in una linea molto netta all’altezza delle spalle. L’altra aveva il viso girato nella direzione opposta rispetto a me, ma notai il taglio elegante dei suoi abiti, tutti semplicità bianca e nera. Aveva i capelli raccolti sulla nuca, qualche ricciolo scuro sfuggito. Un profumo mi raggiunse: miele e ambra.

“Vieni da me”, lo sentii sussurrare.

Mi alzai e le seguii attraverso l’atrio, evitando lo sguardo della receptionist. Raggiunte le porte girevoli, la donna dai capelli neri e ricciuti si voltò verso quella bionda.

«Pensi di poterlo gestire?» Era una domanda che ammetteva un’unica risposta.

«Certo, signora Wingate. Le sono grata per la fiducia che mi dimostra.»

Victoria posò la mano sulla porta girevole. «Bene», replicò. «Non vedo l’ora di scoprire cosa ti inventi.» Entrò nella sibilante rotazione dei battenti, lasciando la donna bionda nella scia del suo profumo. Le corsi dietro, spingendo goffamente la porta normale sulla destra.

«Mi scusi!» chiamai.

Victoria si voltò, osservandomi dalla testa ai piedi. «Sììì?» chiese, prolungando la vocale. Il suo profumo mi avviluppò, rendendo ardua la concentrazione.

«Mi chiamo Emmeline», dissi, riuscendo a stento a pronunciare le parole. «Credo che lei possa essere mia madre.»

La sentii inspirare bruscamente. Scosse il capo, non riuscii a capire se per la rabbia o per la delusione. «Il nome di mia figlia è, era Violet», affermò. «Se vuoi provare una truffa del genere dovresti prima informarti.»

Compi gli anni il primo giorno di primavera, Emmeline. Il profumo di violette.

“Oh, papà, cosa hai fatto?” pensai.

Lei si stava voltando. Voleva andarsene, capii. Se lo faceva non avrei mai ottenuto nessuna risposta. Sarei stata la metà di niente, ancora una volta.

«Mio padre era uno scienziato», dissi di getto. «Odiava l’inverno e amava gli aromi. Mi raccontava storie su un uomo chiamato Jack il Cacciatore di Odori.»

Lei si fermò, per soppesarmi di nuovo con un’occhiata. Guardarla era come fissare uno di quegli specchi incantati e vedere una versione della sottoscritta più splendida, più vecchia e molto più sicura di sé. La vidi fare una valutazione simile, mentre l’espressione seccata diventava perplessa.

«Come hai detto di chiamarti?» chiese.

«Emmeline.»

Riconoscendo il nome, smise di aggrottare la fronte. «Naturalmente», disse. La sua risata fu breve e priva di allegria. «Il nome di sua madre.»

Guardò dietro di me. «Dov’è tuo padre?» chiese. «Dov’è John?»

Scossi il capo, preferendo non dirlo. Per un attimo qualcosa di strano e privato le balenò sul volto, che poi tornò sereno.

«Sei qui», dichiarò tranquillamente. «Sei con me, adesso.»

Restammo ferme lì, una di fronte all’altra, mentre le persone ci passavano accanto sul marciapiede. Victoria sembrava incapace di muoversi, persino gli occhi erano fissi su di me.

Un uomo la urtò, facendola ripartire di scatto. Prese il cellulare, digitò un numero. «Cancella i miei appuntamenti per il resto della giornata… Sì, dico davvero.»

Rimise via il telefonino. «Pranzo?» propose. Era tornata la Victoria Wingate di prima, disinvolta e sicura di sé. Annusò l’aria in maniera quasi impercettibile e lanciò un’occhiata al mio zaino. «Ti assicuro che possiamo fare di meglio del burro di arachidi», aggiunse con un sorriso.

piccolo fregio usato per separare

L’auto di Victoria, sportiva e metallizzata, scivolava agevolmente nel traffico. Le sue mani sottili stringevano saldamente il volante. Il suo profumo era talmente parte di lei che sembrava emanare dai suoi capelli riccioluti. Non riuscivo a smettere di fissarla. Come poteva una persona così magnifica essere una madre, e per di più la mia? Le madri che avevo visto in televisione, persino le ospiti più avvenenti nella baia… nessuna di loro aveva quell’aspetto. Non dipendeva solo dalla pelle o dai capelli o dagli occhi, perché li avevo uguali anch’io. Dipendeva dal modo in cui lei li abitava. Se io ero un foglietto odoroso, lei era ciò che il foglietto diventava quando bruciava.

Ci fermammo di fronte a un antico edificio di pietra. Un lungo tendone da sole copriva parte del marciapiede. Un uomo con una giacca verde uscì per aprire la mia portiera e poi quella di Victoria. Rimasi stupita quando lei gli gettò le chiavi. Non aveva l’aria di conoscerlo ma nemmeno sembrò preoccupata quando lui si portò via la sua macchina. Mi chiesi se ce l’avrebbero restituita.

«Questo posto è tranquillo e il cibo è discreto», spiegò, accompagnandomi dentro. La donna che ci accolse la salutò chiamandola per nome e poi osservò i miei abiti con aria scettica. Victoria mormorò qualcosa e dopo un attimo di consulto, anch’esso bisbigliato, la donna ci fece sedere a un tavolo isolato che dava sul giardino, passando a ognuna di noi un menu pesante come un libro. Comparve subito un cameriere che posò sul tavolo due bicchieri di acqua. Mezzelune di limone sfavillavano fra i cubetti di ghiaccio come fettine di luce solare. Alzai gli occhi per ringraziarlo ma si era già allontanato.

«Li ho aiutati con il loro bar», spiegò Victoria, allungandosi in avanti. «Si è scoperto che si possono raddoppiare le vendite di cocktail al rum aggiungendo l’aroma di noce di cocco nell’aria.» Mi fece l’occhiolino. L’avevo sempre considerata la più bizzarra espressione facciale che avessi incontrato dopo la mia partenza dall’isola. Un unico occhio chiuso, come contando su una comprensione condivisa, e l’altro aperto, a osservare. Per Dylan era stata un’arma, per Victoria sembrava un invito.

Tentai di leggere il menu ma venivo continuamente distratta. Gli aromi provenienti dalla cucina riempivano la sala: burro fuso, carne alla griglia, spezie morbide e pungenti. Tutti migliori di qualsiasi effluvio di ristorante avessi sentito lì in città. Avevo l’acquolina in bocca, e il mio naso era talmente travolto dagli stimoli che riuscii a stento a scorrere le prime voci.

Carbonaro dell’Alaska con glassa di miso

Anatra frollata a secco con purea di zucca butternut

Controfiletto di manzo Wagyu

Non avevo idea di cosa fossero quelle cose, a parte l’anatra, per la quale non potei che provare compassione: «frollata a secco» faceva pensare a una morte particolarmente atroce per un pennuto acquatico.

Il cameriere tornò. «Vuoi che ordini per tutte e due?» chiese Victoria. Annuii, grata. «Qualcosa che non mangi? Allergie? Intolleranze?»

Scossi il capo. Nessuno me lo aveva mai chiesto prima. Sull’isola avevo mangiato quello che raccoglievo. Nella baia mangiavo quello che arrivava a tavola. Adesso avrei mangiato qualsiasi cosa non includesse burro di arachidi.

«Cominceremo con la zuppa di vongole», annunciò lei. «Possiamo ordinare qualcos’altro in seguito.» Il cameriere annuì con fare rispettoso e scomparve di nuovo. «La preparano con vongole fresche», mi spiegò. «È eccezionale.»

Una giovane donna con una treccia elaborata ci portò un cestino di pane francese appena sfornato e ancora tiepido. Guardai Victoria spalmare su una fetta un poco di burro che si sciolse all’istante, rilasciando un vaghissimo profumo di fiori.

«Tieni», disse, passandomela. La crosta cedette sotto i miei denti con un crunch delicato, impastandomi la lingua di burro soffice. Aveva un sapore persino più squisito del suo aroma. Dopo due settimane di materassi duri, di sconosciuti e fallimenti desideravo strisciare dentro il comfort di quel pane e restarvi in eterno.

Lei accostò il bicchiere d’acqua al naso e diede una rapida annusatina automatica prima di bere. Mi sorprese a fissarla e mi rivolse un sorriso ironico.

«Controllo sempre», spiegò. «Ma un limone fresco fa davvero la differenza, non trovi? Quando è rimasto troppo a lungo nell’acqua odora di scantinato o qualcosa di simile.»

Non avevo mai bevuto acqua con limone, e nemmeno avevo mai messo piede in uno scantinato ma sapevo cosa intendeva dire Victoria, come un’unica piccola nota potesse sbilanciare tutto. Avevo pensato che solo io e papà avessimo quella percezione.

«Sì», replicai, sollevata e insieme eccitata.

Victoria si allungò in avanti, più attenta. «Lui dove ti ha portato?»

«Su un’isola.» Ripensai all’arcipelago, a quei punti e a quelle linee di terra, un codice impossibile da decifrare.

«Che odore aveva?» domandò lei.

Avevo previsto varie domande, ma non quella. Non appena lo chiese, però, capii che era l’unica cosa importante. L’unica in grado di dirti com’era davvero un luogo, o il tuo passato.

«Cedro e abete rosso», risposi. «Fumo di legna di melo. Acqua salata. L’odore metallico che precede un temporale.» Stavo acquistando velocità. «Salmonberries, mirtilli americani, abete sui polpastrelli. Terriccio bagnato… oh, e spugnole.» Mi interruppi, imbarazzata dalla mia loquacità.

«Hai ereditato i miei geni», mormorò lei.

«C’erano anche violette», aggiunsi. «Papà diceva sempre che erano il profumo del mio compleanno.»

Victoria si accigliò. «Ti chiami Violet, ma sei nata il 22 novembre.»

«Cosa?» Non capivo. Compivo gli anni il primo giorno di primavera. Il verde nell’aria, diceva papà.

«Me ne ricordo benissimo», sottolineò seccamente lei. «Nevicava.»

Rimasi seduta, ammutolita per lo stupore. Non conoscevo quella ragazza, quella Violet nata durante una nevicata. Ma la data fornitami da Victoria vantava una precisione, una concretezza, che era sempre mancata alla versione di mio padre. Mio padre, lo scienziato… e il raccontafavole.

«Chi altri ci abitava?» chiese lei dopo un po’.

«Nessuno.»

«Dev’essere stato terribile per te», commentò.

La zuppa arrivò, eleganti ciotole piene di un bianco cremoso, la superficie costellata dai gusci grigi delle vongole aperti come in un applauso silenzioso. Il profumo mi riportò alla laguna, ai fuochi d’artificio d’acqua che sgorgavano dai fori nella sabbia mentre correvo sulla spiaggia.

«Laggiù, papà. Eccoli. Prendili.»

Cosa c’era stato di reale in quella vita?

«Dove alloggi?» domandò Victoria, riportando la mia attenzione sul tavolo.

Spinsi via i ricordi e le raccontai dell’ostello. A ogni mia descrizione le sue sopracciglia perfettamente disegnate si inarcavano sempre di più.

«Be’, non è un posto adatto a te», affermò. «Verrai a casa mia. Ho sempre tenuto una stanza in più. Per sicurezza.»

Annusai il miele del suo profumo, lo sentii avvolgermi.

“Mi ha tenuto una stanza”, pensai.