IL NEGOZIO

Il palazzo di Victoria aveva quasi cento anni, quattro piani di pietra di un bianco cremoso con colonne riccamente decorate che salivano lungo i muri, curve delicate e incavi intagliati sotto ogni finestra. Somigliava a un castello, depositato al centro della città frenetica.

«Un tempo era un grande magazzino», spiegò lei mentre spingeva la massiccia doppia porta per rivelare un atrio scintillante e moderno. Al centro del pavimento di piastrelle lucide troneggiava un tavolo di cristallo con un vaso di alti fiori privi di profumo. Finti, capii, ma incredibilmente realistici. Ogni cosa era sfavillante, perfetta, nulla su cui le dita dei piedi o i pensieri potessero sbattere. Il contrasto fra l’esterno e l’interno era sconcertante, ma Victoria non parve trovarlo tale. Salutò con la mano una giovane donna seduta dietro un bancone lucido.

«Buon pomeriggio, signora Wingate», disse lei, evitando appositamente di guardare i miei vestiti.

«Com’è andata, Becky?» chiese Victoria.

La donna sgranò gli occhi. «Incredibile», disse, rinunciando a qualsiasi tentativo di apparire professionale. «Abbiamo un appuntamento venerdì sera. Grazie mille, signora Wingate.»

«Sono davvero felice che abbia funzionato.» Victoria mi condusse fino all’ascensore. «Becky è la nostra concierge», spiegò sottovoce mentre premeva il pulsante. «Aveva qualche difficoltà ad attirare l’attenzione di un certo giovanotto, così le ho fornito un pizzico di aiuto olfattivo.» Sorrise.

La mia mente volò fino a Fisher. Sarei riuscita a tenermelo stretto se fossi stata in grado di usare gli odori invece di captarli soltanto? Forse l’altra ragazza era stata più furba, aveva saputo cosa fare. Il pensiero si insinuò nella mia mente, bene a fondo.

L’ascensore si aprì silenziosamente. Entrammo in un profumo di abete e agrumi, così discreto che sembrava dimorare nella boiserie in legno.

Victoria mi stava osservando. «Ti piace?» chiese.

Annuii. Era come se mi stesse lavando di dosso gli odori della città.

«È uno dei miei, una profumata transizione dalla vita pubblica a quella privata. Contribuisce a rammentare alle persone che sono a casa.»

«Lo hai creato tu? Apposta?»

Sorrise. «Certo. È il mio lavoro.»

Mi guardai intorno e vidi un elenco incorniciato che, con un carattere dalla foggia antiquata, menzionava i vari reparti: Abiti da uomo, Abbigliamento per signore, Profumi. Indicai l’ultima voce.

«Perfetto per te», commentai.

Per un attimo le si scurirono gli occhi, ma poi sorrise. «Siamo all’ultimo piano. I grandi magazzini sistemavano sempre i profumi accanto all’ingresso, per darti il benvenuto… e per far sembrare meno costosa qualsiasi altra cosa tu potessi comprare. Comunque sì, mi piace sapere che erano qui.»

Aveva detto «siamo», notai.

Le porte dell’ascensore si aprirono con un sibilo quasi impercettibile e noi imboccammo un corridoio dalla moquette spessa. Victoria aprì una porta con la chiave e la spalancò su una stanza il cui soffitto stava molto al di sopra delle nostre teste. Il parquet era scuro e lucido, i muri bianchi immacolati. La parete di fronte era un’unica enorme finestra, con una griglia nera e coperta da tende bianche talmente sottili da permettermi di intravedere il profilo retrostante della città.

Lei si tolse le scarpe. «Preferisco proteggere i pavimenti», spiegò.

Senza i tacchi appariva più piccola ma, mentre raggiungeva le finestre, i suoi piedi parvero padroni di ogni centimetro quadrato che toccavano. Scostò le tende e la luce del tardo pomeriggio si riversò all’interno. Dall’altra parte della strada vidi un edificio simile a una scatola di metallo che rifletteva il nostro come uno specchio. Viste da lontano, catturate nel tempo, le linee antiche e ricurve del palazzo di Victoria sembravano acquisire un senso.

Feci qualche passo e le mie scarpe da ginnastica scricchiolarono sul pavimento. Mi affrettai a levarle, guardandomi intorno per cercare un angolino in cui nasconderle. Sembravano fuori luogo in quello spazio magnifico.

Lei mi vide. «Mettiti comoda», mi sollecitò. «Vado a togliermi gli abiti da lavoro.»

Sistemai le scarpe nell’armadio, accanto alle sue, poi andai in soggiorno e mi sedetti sul divano di pelle nera. Era tutto così diverso dall’ostello o dalla baia! Niente compagne di stanza che chiacchieravano, nessun rumore di barche da pesca. Solo una fiumana di auto che passava lì davanti e il miele tiepido del profumo di Victoria.

Sul tavolino accanto al divano notai un telefono e fui attraversata da un lampo di senso di colpa. Non avevo più chiamato Colette e Henry da quando avevo scoperto com’erano andate le cose con Fisher. Mi ero detta che non avevo soldi da sperperare, ma la verità era che ogni volta che mi avvicinavo al telefono pensavo solo a come Colette avesse seguito Henry, attraversando tutto il paese, e a lui che alzava gli occhi per vederla avvicinarsi lungo lo sterrato.

«Il più bel momento della mia vita», lo aveva definito.

Avevo creduto che io e Fisher saremmo stati così. Non sopportavo di confessare a Henry e Colette che invece era tutto diverso.

Ma adesso avevo qualcos’altro da raccontare loro, qualcosa di cui potevo andare fiera. Avevo trovato mia madre – una donna bellissima e di successo –, che mi aveva accolto in casa sua. Quella era una notizia da condividere.

Percorsi il corridoio in punta di piedi, stando attenta al pavimento.

«Ti spiace se uso il telefono?» chiesi alla porta chiusa in fondo.

«Fai pure», fu la risposta soffocata.

Colette rispose al primo squillo. «Eccoti», disse. «Stai bene?»

«Ho trovato Victoria», le spiegai. «Mia madre.»

«Oh», replicò lei, esitante, ma poi il suo tono riacquistò calore. «Com’è stato?»

L’affetto nella sua voce mi riportò indietro. In un attimo mi ritrovai nella sua cucina, circondata dagli odori di pane, di Dodge e dal fioco sentore di lavanda della saponetta di Colette. Aprii la bocca, pronta a confidarmi con lei.

“Ho perso Fisher. Mi chiamo Violet. Non so più cosa è vero e cosa è falso.”

Ma poi mi trattenni. Colette era stata una viaggiatrice coraggiosa. Potevo anche non ritrovare il grande amore della mia vita come era successo a lei, ma non intendevo arrendermi e tornare a casa, non ancora. C’erano altre cose che potevo conquistare lì.

«Rimango con Victoria per un po’», annunciai. «Ma lei ha un telefono, quindi posso chiamarvi.»

«Ho visualizzato il numero qui sul cellulare», disse Colette. Sorrisi sentendo il modo familiare in cui rivendicava qualsiasi apparecchio tecnologico Henry facesse entrare nella baia.

«Allora, lei com’è?» chiese, e io riportai i miei pensieri sulla città.

«Bellissima», risposi. «Intelligente. Abbiamo pranzato in un ristorante elegante dove le vongole nella zuppa erano ancora dentro i gusci.»

«Ah», replicò Colette. «È un servizio che offriamo anche noi, ai nostri clienti.»

«Lo so», commentai, e sorrisi di nuovo per il ruvido orgoglio nella sua voce.

«Hai trovato Fisher?» domandò.

Vi fu un attimo di silenzio. «Come sta Dodge?» chiesi.

Esitò, come se stesse decidendo se lasciarmela passare liscia o no.

«Oh, be’», disse alla fine, «è un cane vecchio ma bravo. Gli manchi, sai?»

Deglutii a fatica. «Dagli un bacio, okay?» Sentii Victoria entrare nella cucina lì accanto. «Devo andare.»

«Di già?»

«Sì, siamo appena rincasate. Vi chiamo presto. Vi voglio bene.»

piccolo fregio usato per separare

Quando riagganciai Victoria entrò nella stanza, con addosso attillati calzoni neri e un’ampia camicia bianca. Aveva i capelli sciolti sulle spalle. Ripensai a Dylan che mi tirava i riccioli dicendo: «Miss Piggy, questi sono i tuoi codini?». Ero pronta a scommettere che nessuno avesse mai fatto una cosa simile a lei.

«Suonavi molto a tuo agio, al telefono», affermò. Stringeva due bicchieri d’acqua, me ne passò uno mentre si sedeva. «Non stavo ascoltando la conversazione, ho solo notato il tuo tono di voce.»

Annuii. «Colette e Henry sono le persone che mi hanno accolto in casa dopo…»

Aspettò un attimo e poi, vedendo che non proseguivo, si appoggiò all’indietro e chiese: «Com’era, là?».

Mi ricordava Fisher, con quella sua capacità di leggere una persona, una situazione.

“Non pensare a lui”, mi dissi.

Così le raccontai del resort, degli ospiti e degli aromi che lasciavano dietro di sé. Le raccontai di quando preparavo brioche con cannella e cardamomo ogni mattina e aiutavo Henry a fare piccole riparazioni. Non dissi niente dell’edificio con gli ossi di balena o della scuola o di Fisher.

«Quanto sei rimasta con loro?» chiese.

«Cinque anni.» Quasi esatti, mi resi conto.

«È molto tempo», commentò sottovoce. Stava guardando fuori dalla finestra e non riuscivo a vederla in faccia. «John come è…»

«Annegato.» Non riuscii ad aggiungere altro.

«Oh.» Si interruppe. Infilò l’indice in un ricciolo, avvolgendolo più stretto. «Ti ha mai parlato di me?»

«No», risposi. «Non mi ha mai raccontato niente.»

«Allora come mi hai trovato?» domandò, voltandosi a guardarmi.

«La macchina, Nightingale. Ho cercato il nome su internet e uno dei link portava a te.»

«Be’, è davvero ironico», commentò.

Le auto ronzavano, facendo pulsare le finestre. Sentivo il saltuario e lontano rimprovero di un clacson, il grido di un gabbiano. Ma l’unico odore che captavo era quello di Victoria.

«L’ha costruita per me, sai.» Nel suo tono c’era una nota sognante che ricordavo bene.

Once upon a time, Emmeline.

«Ha insistito perché la chiamassimo Nightingale», continuò, «anche se gli ho detto che era un nome assurdo per una macchina legata agli odori. Era così romantico, come qualcosa uscito da Romeo e Giulietta, che alla fine ho accettato. Gli investitori lo odiavano, ma non ci importava. La macchina emetteva un suono che sembrava un cinguettio.»

Rammentai la storia che papà aveva strappato dal libro di fiabe. Aprii la bocca per dirglielo, ma stava ancora parlando, lo sguardo fisso su un punto dietro di me.

«La scoperta che la macchina non funzionava lo ha quasi ucciso», raccontò. «Il contraccolpo è stato orribile, e lui era molto sensibile alle frustrazioni, sai? Non è riuscito a sopportarlo. Ed è semplicemente… andato via.» Si sfregò gli occhi un’unica volta, in fretta. «Per tutto questo tempo ho creduto che fosse vivo.»

Scosse il capo e lanciò un’occhiata all’orologio. «Forse dovresti metterti comoda, riposarti. Sarai sicuramente stanca.»

piccolo fregio usato per separare

L’ampio letto nella stanza in più di Victoria era coperto da un piumone soffice e bianco come nebbia, e dava l’impressione che non vi avesse mai dormito nessuno. La moquette era beige e spessa sotto i miei piedi. Mi rammentò un albergo di lusso, come quelli che avevo visto sulle riviste che gli ospiti lasciavano alla baia.

«Il tuo bagno è là, se vuoi fare una doccia», disse lei, indicando una porta all’estremità opposta della stanza.

Il mio unico desiderio era coricarmi. Ero sfinita, mentalmente e fisicamente, ma guardai le lenzuola candide e conclusi che forse era meglio seguire il suo consiglio. Inoltre una doccia non azionata da monetine, dove non c’era solo una semplice tenda a separarti dagli sconosciuti, mi sembrava un lusso incredibile.

Rimasi sotto l’acqua per venti minuti, lasciandole lavare via l’ostello, i vivai, le ultime due settimane. Tentai di non pensare a Fisher o a dove mi trovavo. Era tutto troppo, e troppo nuovo. Aprii invece i flaconcini sulla mensola della doccia, cogliendo il profumo di rosmarino e limone, e poi di un fiore talmente delicato che divenne il vapore intorno a me.

Alla fine mi asciugai e mi stesi sul letto, affondando quasi nel materasso. Eppure, per quanto stanca, non riuscii a prendere sonno. Le lenzuola erano così lisce, la fragranza troppo perfetta, troppo pulita. I miei pensieri ci svolazzavano sopra, non riuscendo a mettersi comodi. Alla fine raggiunsi il mio zaino e tirai fuori la maglietta di Fisher. L’odore era quasi svanito, ormai più burro di arachidi che Fisher, ma anche se non c’era quasi più, anche se lui non era più mio, volevo sentirmi intorno il suo aroma. Portai la maglietta a letto con me. Non avrei pensato a lui, mi ripromisi, avrei solo respirato.

Soltanto quando fui sul punto di addormentarmi mi si riaffacciarono alla mente le parole di Victoria: «Per tutto questo tempo ho creduto che fosse vivo».

Per un attimo mi chiesi cosa avesse pensato di me.

piccolo fregio usato per separare

Mi destò l’aroma di caffè. Durante tutti i miei anni con Colette e Henry era stato la mia sveglia, il segnale che mi tirava giù dal letto. Persino quando ero troppo giovane per berlo aveva rappresentato l’inizio della giornata.

Entrando in cucina trovai Victoria ferma accanto al piano di lavoro ad azionare una macchina per l’espresso. Le avevo viste solo in fotografia, e la fragranza era sbalorditiva, intensa e ricca e complessa come il terriccio sull’isola. Lei infilò una piccola brocca sotto un sottile cannello di metallo e ruotò una manopola; si udì un sibilo e io captai l’odore del latte che si scaldava, si espandeva.

«Ciao, dormigliona», disse, sovrastando il rumore. «Mai assaggiato un caffellatte?»

Scossi il capo.

«Tieni», disse, porgendomi la tazza.

Era sontuoso come il letto in cui avevo dormito, vellutato e caloroso. Pensai al caffè di Colette, al suo inizio di giornata vigoroso. A come Henry portava con sé il thermos tutto il giorno, bevendo il caffè anche dopo che si raffreddava. Mandai giù un altro sorso e annusai i profumi di chicchi appena macinati e del latte bollente, con giusto un pizzico di cannella. Nell’aria intorno a me aleggiava un altro aroma. “Abete rosso”, pensai. Doveva esserne rimasta qualche traccia sulla felpa che avevo preso dallo zaino quella mattina. Mi rilassai dentro la sua familiarità.

«Cosa ne diresti di venire al lavoro con me, oggi?» propose Victoria mentre mi si sedeva di fronte. «Ho la sensazione che potrebbe piacerti.»

Abbassai lo sguardo sui miei vestiti.

«Possiamo trovare di meglio», aggiunse, ridendo. «Vediamo se ho qualcosa che possa andarti bene. Portati il caffellatte.»

Quando aprì la porta della sua camera mi bloccai, sbigottita. In fondo alla stanza, tutt’intorno alle due ante dell’armadio, una griglia di mensole occupava l’intera parete, dal pavimento al soffitto. Ogni apertura quadrata ospitava un flaconcino; erano tutti di forme diverse, fatti di vetro azzurro, verde, giallo e trasparente.

«La mia collezione di profumi», spiegò. «L’ho iniziata quando avevo più o meno la tua età.»

Mi avvicinai, posai un dito sul bordo sfaccettato di un flacone, vidi il liquido all’interno. Niente foglietti odorosi, lì.

«Sono bellissimi», mormorai.

«Di solito tengo le tende chiuse per proteggere i profumi, ma adoro svegliarmi con la luce che li colpisce. È uno spettacolo magnifico, la mattina», disse, aprendo l’armadio. «Ora troviamo qualcosa di più gradevole di una felpa.»

Rimasi seduta sul letto mentre tirava fuori un indumento dopo l’altro, ogni volta passando attraverso la parete di boccette di profumo. Mi sembrava quasi di sentirle osservare la scena, piegarsi verso Victoria. Amarla.

“Niente cassetti chiusi, stavolta”, pensai. “Niente segreti.”

Si scoprì che avevamo quasi la stessa taglia. I jeans che mi diede erano eleganti, blu scuro e più attillati di qualsiasi altro paio io avessi mai infilato, ma quando mi guardai allo specchio rimasi stupita di vedere la linea delle mie gambe, la curva snella dei miei fianchi. Lei mi passò un ampio maglione, bianco e soffice come piume di pulcino.

«Non ti faremo assumere la completa modalità lavoro», spiegò. «Sarà la giornata dei figli in ufficio.»

piccolo fregio usato per separare

Victoria guidò tenendo solo una mano sul volante e usando l’altra per gesticolare. La sua voce correva insieme al motore. Quel giorno aveva i capelli lisci e un profumo più tenue, più aria che miele.

«Potresti aver notato», disse con un sorriso ironico, «che non tutto ha un buon profumo, qui in città. Il mio lavoro consiste nel rendere più piacevole l’odore delle cose, perché in tal caso le persone spendono di più. Non sanno che dipende da questo, naturalmente. Pensano di comprare una camicia perché è bella o un divano perché è comodo. Ma noi sappiamo la verità. Le spingiamo noi a volerlo fare.»

Sfilò la tazza da viaggio dall’apposito scomparto e bevve un rapido sorso mentre cambiava corsia.

«Facciamo solo quello che fa già la natura, onestamente. Un fiore profuma per un solo motivo: attirare qualsiasi creatura in grado di impollinarlo. Gli animali usano costantemente gli odori per comunicare. Le persone no.» Rimise a posto la tazza e mi rivolse un’occhiata meditabonda. «Comincio a pensare che tu possa essere diversa.»

Lo ero. Miss Piggy. Sniffamerda.

«Noi parliamo una lingua di cui le altre persone non conoscono nemmeno l’esistenza», affermò. «Io entro in un hotel e capisco quali profumi indurranno qualcuno a sentirsi a casa, o non a casa, lo faranno sentire più giovane, più sicuro di sé, più sexy. Dipende da cosa vuole l’hotel.»

Era rapita dall’argomento, gli occhi le brillavano.

«Devi adattare la fragranza al luogo, altrimenti non funziona. Metti delle rose nel reparto di abbigliamento maschile e finirai in grossi guai. A New York ci sono grandi magazzini che hanno un profumo diverso in ogni reparto, ecco quanto possiamo diventare dettagliati in questo campo.»

Ci fermammo in un parcheggio sotterraneo e prendemmo l’ascensore fino al negozio. Quando la porta si aprì, una fragranza simile al rosa tenue di un’alba mi venne incontro. Mi guardai intorno e vidi poltrone di un bianco niveo e divani grandi come letti, vasi di vetro e cornici per foto in argento. Donne eleganti e dall’aria sicura vorticavano in giro, esaminando una candela qui, un cuscino là. Capii subito che non appartenevo a un posto del genere, nemmeno con i vestiti di Victoria addosso.

«Devo parlare con il direttore», annunciò lei. «Controllerò i resoconti delle vendite per vedere come stiamo andando. Intanto tu esplora il posto e poi fammi sapere cosa ne pensi.»

Gironzolai qua e là, cercando di orientarmi. Passai accanto a un portaombrelli di metallo che mi ricordò il secchio per la pesca di Henry ma che costava più di una settimana di soggiorno nell’ostello. C’era un’intera parete di specchi con cornice, di varie fogge e dimensioni, ma il mio riflesso con gli abiti di Victoria non aveva senso in nessuno di essi. Mi girai dall’altra parte e a quel punto notai il tavolo verso il fondo del negozio. Somigliava a quello che avevamo avuto nel capanno, non rifinito, le gambe massicce e diritte, il piano un’unica asse di legno massello. Lo raggiunsi come trascinata da una marea, chiudendo gli occhi e facendo correre le dita sulla sua superficie ruvida. Annusai, sperando in una corrente di fumo di legna o lievito per il pane, ma non c’era niente, solo vita, perfettamente pulita come le lenzuola sul mio letto la notte precedente.

«Non ti piace l’odore?»

Aprii gli occhi. Victoria era ferma dall’altra parte del tavolo, con aria interrogativa.

«È perfetto», dissi.

«È tutto a posto, voglio sapere cosa pensi.»

«È solo che…» Mi interruppi. «Non sa di casa.» Le parole suonarono fiacche persino alle mie orecchie.

«Ah.» Lei annuì. «Come rimedieresti?»

Non ci avevo mai pensato. Casa odorava di casa grazie a quello che vi si trovava. Non facevi in modo che le cose odorassero di casa.

«La casa non è sempre perfetta», dichiarai alla fine.

Lei piegò la testa di lato. «Oh, ma può esserlo», replicò con un lento sorriso soddisfatto. «In realtà è questo il nostro lavoro.» Girò intorno al tavolo, mi posò una mano sul gomito. Parlò a bassa voce. «Le vendite sono buone ma le preferirei più alte. Abbiamo a disposizione tutti i profumi del mondo. Tu cosa faresti?»

Era un test, capii, eppure desideravo superarlo. Agli occhi di Victoria il mio senso dell’olfatto non mi rendeva strana, e se avessi dimostrato competenza, questo avrebbe potuto rendermi speciale. Forse l’avrebbe spinta ad amarmi, a volermi tenere con sé.

Esaminai la stanza, il naso all’erta. Le clienti prendevano oziosamente in mano un oggetto dopo l’altro. Sentii la voce di Fisher nella testa: “Le persone controllano il proprio viso. Si dimenticano delle mani”.

“Non pensare a Fisher”, mi intimai.

Ma osservai comunque le loro mani. Guardai le dita di una donna correre sopra la morbidezza di una coperta, quelle di un’altra carezzare le linee bombate di un candelabro d’argento. Erano curiose, ma nulla di più.

L’impalpabile fragranza rosa permeava l’aria. La guardai drappeggiarsi come uno scialle intorno alle spalle della donna, confortante, fluida.

«Lo stai rendendo troppo facile», dissi.

Victoria piegò la testa di lato, incuriosita. «Tu invece cosa faresti?»

Ripensai all’isola, a come avevo affondato il viso nel muschio alla base degli alberi per diventare parte del suo profumo. A Fisher, a come la componente migliore del suo afrore restasse in attesa nel punto tiepido appena dietro il suo orecchio.

«Nascondilo, il profumo», replicai.

«Dove?»

Mi guardai intorno. «Nei cuscini… e nelle coperte. Anche nelle candele, giusto un pizzico, in modo che ci si debba chinare per sentirlo.»

«Se dai loro il brivido della caccia vorranno portarsi a casa un trofeo.» Le brillavano gli occhi. «Che figlia straordinaria ho.» Mi posò una mano sulla spalla e io mi sentii scaldare dal suo tocco.