Trascorsi la giornata guardando mia madre muoversi nel suo mondo come brezza sull’erba alta. Ogni cosa sulla sua strada si trasformava in movimento, in ammirazione. Era diversa da me più di qualsiasi cosa io riuscissi a immaginare, ma quando entrammo all’Inspire Inc. la receptionist trasalì.
«Miranda», le disse Victoria, «ti presento mia figlia, Vi… Emmeline.»
Miranda annuì. «Una somiglianza davvero straordinaria, signora Wingate», replicò. Mi aveva visto meno di ventiquattro ore prima eppure non l’aveva affatto notata, pensai. Che differenza potevano fare un giorno e qualche vestito!
«Meglio che andiamo», disse Victoria. Mi condusse attraverso il palazzo, mostrandomi stanze scintillanti, piene di persone in camice bianco inamidato e interminabili scaffali di flaconcini. Quando mi avvicinai riuscii a udire i profumi che mormoravano e vociavano all’interno. Mi trattenni a stento dall’aprire le boccette per lasciar uscire le storie.
«Li senti?» chiese lei a bassa voce.
«Sì», risposi. Mi domandai se vi riuscissero anche le persone così diligentemente al lavoro intorno a noi. Forse l’intero edificio era pieno di persone come me. O forse no: dopo tutto Victoria aveva sussurrato. Quel pensiero, e la piccola cerchia privata in cui trasformava noi due, mi procurarono un brivido di piacere.
Quella sera, tornate nell’appartamento, per cena preparammo un’insalatona.
«Devo mangiare spesso fuori, è difficile mantenere la linea», spiegò Victoria mentre affettava pomodori, i polpastrelli vicini al bordo affilato del coltello. «E credimi, devi mantenerla. Una donna non può lasciare nulla al caso, in questo mondo.»
Rimpiansi che qualcuno non me lo avesse detto prima che perdessi Fisher.
Osservai mia madre, la sua pelle vellutata, la forza e la disinvolta sicurezza di sé. Ripensai alla fragranza nell’ascensore, a tutti i profumi che avevo captato all’Inspire, a come ognuno di essi avesse colorato il mio umore, modificato i miei pensieri. Forse era quello che succedeva quando non lasciavi nulla al caso.
Ci sedemmo al tavolo in sala da pranzo. Lei consumò la cena masticando delicatamente e valutandomi.
«Hai passato una giornata piacevole?» chiese.
«Sì», risposi con foga. Il divertimento le fece contrarre un angolo della bocca.
«Cosa ne diresti se ti formassi per diventare un “naso”?»
Non l’avevo previsto. Prima di conoscerla l’avevo considerata una fonte di informazioni. Trovandomi di fronte la sua realtà sicura ed elegante avevo immaginato che si sarebbe stancata presto di avermi intorno e che mi avrebbe rispedito da Colette e Henry. Fino alla sera prima un simile scenario non mi avrebbe certo rattristata: volevo bene a Colette e a Henry, e nella vita avrei potuto fare cose ben peggiori dell’aiutarli a gestire il resort.
Ma dopo quel giorno e tutto ciò che avevo visto, la situazione e io eravamo cambiate. L’offerta di Victoria sfavillò di fronte a me come luce sull’acqua. Potevo fare qualcosa, diventare qualcuno. Forse Fisher avrebbe sentito parlare di me.
«Potresti rimanere qui a vivere», aggiunse lei.
Forse avrei avuto una madre.
«Mi piacerebbe», replicai.
«Bene.» Sorrise. «Naturalmente devi prendere il diploma.»
La mia forchetta grattò sul piatto. Quella era l’ultima cosa al mondo a cui volessi pensare.
«Non sto scherzando», aggiunse. «Non deve succedere per forza subito, ma non è negoziabile. Mia figlia non si metterà certo in condizioni di svantaggio.»
La sua ferocia era magnifica. Mia figlia. Sentii le parole reclamarmi, affabili e possessive. Victoria mi voleva, mentre Fisher mi aveva abbandonata.
Immaginai giornate trascorse a nuotare nei profumi, senza alcun bisogno di nascondere chi ero. Avrei potuto essere me stessa. Avrei potuto essere come lei.
«Sì», dissi.
«Magnifico», ribatté, bevendo un sorso di vino. «Ho proprio la persona giusta per farti da insegnante. È un autentico astro in ascesa, sarà perfetta.»
Più tardi chiamai la baia per avvisare Colette che sarei rimasta in città. La storia mi sgorgò dalle labbra e lei ascoltò in silenzio. Alla fine si disse felice per me, ma nella leggera esitazione nel suo tono udii il riflesso delle mie stesse parole: sfavillanti e un po’ troppo rapide. Armate di eccitazione. Le immaginai aggirarsi fragorosamente per la cucina, rimbalzando su pentole e padelle.
«Ti ritelefono presto», promisi, e interruppi la comunicazione il più in fretta possibile.
L’indomani mattina la mia insegnante mi stava aspettando in una stanzetta bianca al terzo piano dell’Inspire. Era la giovane donna che avevo visto parlare con Victoria quel primo giorno nell’atrio del palazzo; riconobbi i capelli di un biondo platino. Portava gonna e camicetta nere attillate, l’unica nota di colore una sciarpa grigioazzurra dal nodo complicato. Non si era messa nessun profumo ma individuai comunque un accenno di zenzero.
«Claudia è un vero portento», spiegò Victoria. «Si prenderà cura di te in maniera perfetta.»
Claudia sorrise. «Certo, signora Wingate. Sarebbe un onore insegnare a sua figlia.»
Victoria le lanciò un’occhiata di approvazione, poi si rivolse a me. «Ci vediamo a fine giornata, Emmeline. Possiamo cenare insieme.»
La porta si chiuse dietro di lei con un clic e Claudia smise di sorridere. Raggiunse il tavolo, ticchettando con i tacchi sul pavimento, e mi indicò di sedermi di fronte a lei, poi si allungò in avanti. I suoi occhi erano dello stesso azzurro freddo della sua sciarpa.
«Ho fatto tirocinio a Parigi per tre anni», spiegò, pronunciando distintamente ogni parola. «Mi sono fatta il culo per farmi assumere qui. Due giorni fa ho ottenuto il mio primo incarico importante. Avrei creato profumi personalizzati per le sette case di un’attrice famosa.»
Si interruppe con aria di aspettativa.
«Fantastico», commentai. Era l’unica cosa che si potesse mai dire a ragazze come lei. Lo avevo imparato a scuola.
«E adesso sto addestrando te. La figlia del capo, che probabilmente non ha mai messo piede in un laboratorio in vita sua.» Per un istante vidi l’angolo destro del suo labbro superiore arcuarsi. «Victoria dice che sei cresciuta su una delle isolette a nord.»
Annuii, e lei alzò la testa con aria incredula. «Okay, credo sia meglio cominciare. Abbiamo parecchie cose da fare.»
Allungò una mano sotto il tavolo e prese una scatola.
«Probabilmente pensi che basti un buon naso per sfondare in questo campo», affermò. «La verità è che la mente di un profumiere professionista è un gigantesco database. Devi riuscire a conservare nella tua memoria letteralmente migliaia di fragranze diverse. Pensi di poterlo fare?»
Annuii. Alle fragranze potevo tenermi aggrappata, era tutto il resto che risultava friabile.
«Vediamo se hai ragione.» Lei aprì la scatola e mi passò un flaconcino. Svitai il tappo e annusai.
Un giorno, Emmeline, Jack andò su un’isola coperta di alberi i cui fiori brillavano come minuscole lanterne…
«Noce moscata.» Claudia ghermì il flaconcino e riavvitò il tappo. La storia cercava ancora di raggiungermi quando un nuovo profumo esplose.
«Radice di giaggiolo», disse, picchiettando sulla nuova boccetta. «Sto andando troppo in fretta per te?»
«No», mentii.
«Bene.»
Fiore di tiglio. Fava di tonka. Benzoino. Le essenze sfrecciarono verso di me, piccoli missili di vetro sparati in rapida successione al di sopra del tavolo.
«Velocità e precisione sono essenziali», spiegò lei. Spinse verso di me una pila di fogli suddivisi in righe e colonne. «Inserisci ogni profumo in una categoria. Fresco, floreale, legnoso, speziato, animale, marino, fruttato. Devi saperli riconoscere all’istante, senza riflettere.»
I flaconcini ricominciarono e il mondo si trasformò in tabelle e righe, invaso da un assalto di strani nomi. Litsea cubeba. Frangipane. Neroli. Tagete. Arancio si frammentò diventando petit-grain, bergamotto, tangerino, mandarino, amaro, dolce, sanguinello. Pepe era nero, verde o rosa. Menta era invernale, spearmint o piperita. Ora dopo ora. Scatola dopo scatola. Ogni tanto Claudia vi infilava una ripetizione, tanto per vedere se riuscivo a individuarla.
«Questo?» chiese.
«Labdano.» Lo ricordavo da qualche ora prima: una sensazione simile al tocco di una mano sulle reni.
Lei sbatté le palpebre, la raffica di profumi esitava.
«Uuuh», borbottò.
Quando i profumi ripresero a fluire giunsero ancora più veloci.
A fine giornata, con la testa che martellava, tornai nell’appartamento di Victoria e feci una doccia, usando l’acqua più bollente che riuscii a sopportare. Il vapore mi si insinuò nel naso vorticando, grazie a Dio neutro, pulito.
«Com’è andata?» chiese Victoria quando entrai in soggiorno.
«Benissimo», risposi. «È stato bello.»
Dicevo sul serio, me ne resi conto quasi con stupore. Per quanto detestassi Claudia, l’intensità era stata tanto inebriante quanto estenuante. A fine giornata ero arrivata al punto di riuscire a intuire la categoria di un profumo quasi prima che il flaconcino venisse aperto. Fresco era rapido e freddo, mai tiepido. Floreale era soffice e seducente, il tipo che rimane vestito, mostrando solo una caviglia o una spalla. Speziato ti mordeva il naso, ti svegliava. Legnoso mi rimandava sull’isola così rapidamente che non riuscivo a impedire alle lacrime di riempirmi gli occhi. Non vedevo l’ora di cominciare a miscelarli, di creare qualcosa di nuovo.
Victoria aveva ragione: quella era una lingua, la mia lingua, e io volevo scrivere.
Claudia era decisa a confondermi, ma ottenne l’effetto contrario. La mia mente non era mai stata così reattiva. Mi tuffai nel lavoro, rimasi lì per tutte le ore che lei esigeva. Le settimane passarono e io nemmeno me ne accorsi. Stavo facendo la cosa per cui ero nata. E catturata dai profumi trovavo più facile provare a dimenticare Fisher, ovunque lui fosse. Con chiunque fosse.
Io e Victoria adottammo una tabella di marcia. Lei lavorava fino a tarda ora come me, e spesso di più. Le sere in cui finivo prima di lei tornavo nel suo appartamento da sola a piedi, seguendo il tragitto che costeggiava il molo, lasciando che il rumore dei miei passi sul pontile di legno mi tranquillizzasse. Quando Victoria non aveva una cena di lavoro mangiavamo insieme, comprando il necessario sulla via di casa. Lei mi fece conoscere spezie e ingredienti che non avevo mai incontrato, consistenze che erano un’assoluta novità per la mia lingua. Forse dipendeva dalla sensazione di avere la sua attenzione, dal modo in cui osservava ogni mia reazione, ma persino dopo una giornata passata ad annusare un flaconcino dopo l’altro c’era qualcosa di elettrizzante nel tenere fra le mani quei nuovi odori, nell’assaggiare i campioncini nei minuscoli bicchieri di carta. Tutto ciò che dentro di me era stanco si risvegliava.
Tornate nell’appartamento mangiavamo mentre il resto del mondo era già semiaddormentato. Victoria diceva che ero abbastanza grande per bere un bicchiere di vino e restavamo sedute lì a parlare di profumi e di affari. A volte sentivo la mancanza di Dodge, Colette e Henry, degli odori di pesce e pioggia e di mare che si insinuavano nelle pareti delle vecchie case. Ma la ragazza che si era raggomitolata davanti al caminetto, con accanto un cane bagnato, cominciava a sembrare sempre più una Emmeline diversa. Una bambina.
Una sera, dopo cena, eravamo sedute sul divano del soggiorno. Io avevo una coperta color crema avvolta intorno alle spalle; era soffice, di cashmere. Avevamo mangiato salmone, talmente fresco che ero sicura di riuscire a cogliere una punta di acqua salata e cedro nell’aria. C’era anche il profumo di miele e di ambra di Victoria.
«Non metti molto spesso quel profumo», dissi.
Sorrise. «Una fragranza personale è un brand», spiegò. «Funziona a meraviglia per aiutare le persone a stabilire legami emotivi con i luoghi, ma se qualcuno mette sempre lo stesso profumo si rischia di rendere nebulosi i ricordi.» Si appoggiò allo schienale della poltrona, con aria contemplativa. «Quando ero più giovane avevo letto da qualche parte che Andy Warhol portava un certo profumo per qualche tempo e poi lo riponeva nel suo museo, come lo chiamava lui. Ogni volta che desiderava tornare a un particolare periodo della sua vita si limitava ad aprire la relativa boccetta.»
«Come la tua collezione?» chiesi.
«Sì», rispose, «solo che creo io le mie fragranze.» L’orgoglio nella sua voce era palese. Mi guardò. «Lo farai anche tu.»
Fu quanto di più simile a un abbraccio avessi mai ricevuto da parte sua, e mi tenni vicine quelle parole.
«Pensi mai agli odori come fossero colori?» chiesi d’impulso. Era il genere di domanda che avrebbe spinto le ragazze della scuola ad alzare gli occhi al cielo.
Ma Victoria annuì. «Certo. E suoni. Alcuni sembrano persino persone.»
«Sì», confermai. «Esatto.» Restammo immerse per qualche minuto in un silenzio piacevole.
«Gli odori sono sempre stati così, per te?» domandai alla fine.
Osservò il suo bicchiere di vino. «Mia madre lavorava al banco profumi del grande magazzino di zona», spiegò. «Portava a casa dei flaconi e li allineava sul suo comò. Non avevo molti amici, non avevamo molti soldi e a scuola le differenze contano, sai?»
Lo sapevo.
Bevve un sorso di vino. «Comunque entravo in camera della mamma e annusavo le boccette prima che rincasasse dal lavoro. Davo loro dei nomi di mia invenzione. A volte ne tenevo persino una in tasca.»
Sorrise, un sorriso triste. «Si dice che i grandi profumieri non abbiano molti amici, solo molti ingredienti.»
Il pensiero di Fisher scassinò la serratura dei miei ricordi e saltellò fuori. Lo faceva più spesso di quanto desiderassi. Stavolta c’era un’altra ragazza con lui. Più carina, più intelligente, più simpatica di me. Non c’erano macchie di terriccio o di vita sul suo volto, non aveva bagagli.
“Perché non mi vuoi, Fisher?”
Guardai mia madre. «Capisco benissimo cosa vuoi dire», replicai.
«Quand’è che posso imparare a miscelare i profumi?» chiesi a Claudia l’indomani mattina. Mi aveva già torchiato per più di due ore, scagliandomi contro una combinazione sempre diversa di vecchie e nuove fragranze con la rapidità di una mitragliatrice. In più di una settimana non avevo sbagliato nemmeno una volta. La conversazione con Victoria aveva fatto nascere in me il desiderio di stupirla, di mostrarle che potevo fare di più.
«Non sei ancora pronta», affermò Claudia, sedendosi. La sua noia era come una terza persona nella stanza. «Tira fuori le tue tabelle.»
«Mettimi alla prova», replicai.
Esitò, irritata, ma alla fine il desiderio di dimostrare che ne sapeva più di me ebbe la meglio.
«Benissimo», disse, e poi si lanciò, le parole automatiche, meccaniche, più rapide di quanto fossero stati i flaconcini. «Ogni profumo è costituito da note di testa, di cuore e di fondo. Le note di testa sono leggere, quelle di cuore durano più a lungo, le note di fondo sono le più persistenti. Un buon profumo le ha tutte e tre, ma devono essere presenti nelle debite proporzioni.»
Le frasi mi investivano di un’ondata di dettagli tecnici, ma riuscivo a percepire ciò di cui lei stava parlando. Era successo con ogni foglietto odoroso che avevo annusato: il profumo si muoveva, raccontando una storia che si approfondiva persino mentre scompariva. Anche la natura era fatta così, a ben pensarci: il verde brillante degli alberi lasciava il posto allo scuro e complesso terriccio sottostante, l’oceano racchiudeva l’odore della morte sotto tutta quella vita. Quello di cui Claudia stava parlando con tanta arroganza era semplicemente il mondo in cui ero cresciuta.
«Posso riuscirci», annunciai.
«È una scienza esatta, Emmeline. Non è fatta per i bambini.»
«Posso riuscirci», ribadii, con maggior vigore.
I suoi occhi si svegliarono, si contrassero. «Davvero? D’accordo, allora, proviamo a istruirti, se è questo che vuoi.»
Aprì un flaconcino; il profumo era aspro, rapido e con un minuscolo accenno dolce, come lo sfavillio della pioggia su un filo d’erba.
«Pompelmo bianco», dissi automaticamente.
«Nota di testa», asserì lei, affilando i bordi delle T.
Un altro flaconcino. Lavanda. Più tenue, più gentile. La saponetta di Colette, l’aroma celato nei suoi vestiti.
«Cuore», disse Claudia. «Stai seguendo?» Le sue sopracciglia scure erano inarcate, due curve sottili che fornivano per inciso un loro commento.
«Ho capito tutto», risposi. Stavolta furono le mie T a suonare acuminate.
«Bene. Allora, pronta per i ragazzi grandi?»
«Certo.»
Per un attimo rovistò nella scatola ai suoi piedi, poi estrasse un flaconcino. «Eccone uno valido.» Me lo passò spingendolo sul tavolo. Conteneva una pasta nera, più che un liquido. Svitai il tappo. L’odore rotolò verso di me e io mi ritrassi. Mi sembrò quasi di udire un ringhio, il pop di una cavità articolare.
«Zibetto», affermò Claudia, impassibile. «Serve uno stomaco forte per annusare una nota di fondo animale pura, non trovi? Ma un paio di gocce, laggiù alla base di un profumo? Invia quell’altro messaggio. Morte e sesso, l’essenza di un profumo. Capirai quando sarai più grande.»
La fissai a mia volta. Conoscevo la morte, conoscevo il sesso. Non avevo bisogno che me lo dicesse lei.
Mi porse un’altra boccetta, restando del tutto inespressiva. «Gelsomino.»
Stavolta mi dimostrai cauta, annusando a stento il contenuto, ma l’odore fu un sollievo: dolce, bianco e pastoso, quasi euforico. Ebbi l’impressione di galleggiarvi dentro.
Proprio mentre stavo per posare il flaconcino, tuttavia, colsi una zaffata di qualcos’altro sullo sfondo, qualcosa di narcotico e vischioso. Annusai più a fondo, cercando di identificarlo.
«Ti piace», commentò Claudia. Per la prima volta parve contenta di me. «Sai che cos’è, la nota che stai cercando?»
Scossi il capo. Era proprio lì, ma in quella stanza fresca e spoglia non riuscivo a darle un nome.
«È merda», disse lei. Sorrise, un sorriso lento e pigro. «Tecnicamente la molecola si chiama indolo, ma una rosa con un nome diverso…»
Qualcosa dentro di me si irrigidì.
Vuoi annusare la mia merda, Miss Piggy?
Guardai Claudia. In quel momento la odiai come non avevo mai odiato nessuno, nemmeno i ragazzi nella mia scuola. Quella giovane donna fredda, raffinata, voleva spezzarmi proprio come avevano fatto loro. All’epoca le mie capacità avevano lavorato contro di me, mi avevano reso uno scherzo della natura. Adesso giocavano a mio favore.
Claudia pensava di conoscere gli odori, ma conosceva solo nomi, colonne, tabelle.
“Non immagini nemmeno cosa so fare”, pensai.