RENÉ

Posai l’articolo con le mani che tremavano. Costretta a cacciare e a raccogliere cibo? È sopravvissuta a quel calvario? Davano l’impressione che fossi cresciuta indossando pelli di foca. Avevo parlato con la giornalista per più di due ore. Non avevo detto nulla sull’isola o su papà. Avevo parlato dell’olfatto, di come ormai i profumi non fossero più naturali, di come Dodge prestasse più attenzione al mondo circostante di quasi tutti gli esseri umani.

Lì non c’era niente di tutto ciò.

Feci capolino dalla porta del laboratorio. Volevo cercare mia madre, invece vidi Claudia che percorreva il corridoio con uno scatolone in mano. La rabbia uscì fuori incontrollata.

«Lupi olfattivi?» chiesi mentre si avvicinava. «Sul serio?»

«Non temere, principessa», replicò. «Tua madre mi ha appena licenziato.» Sollevò lo scatolone che teneva fra le mani. All’interno vidi una foto incorniciata, Claudia e un ragazzo, forse suo fratello. Per un attimo provai un moto di compassione.

«Ti sta usando, sai», aggiunse. «Come ha fatto con me.»

«Non lo farebbe mai», ribattei. Ero sua figlia. La sua arma segreta.

Lei scosse la testa, disgustata. «Sei solo una pedina, Emmeline. Lo siamo tutti.»

Scopri la loro storia e saranno tutti tuoi. Rammentai Victoria che si allungava verso di me in quel negozio caldo, chiassoso, rivelandomi un segreto. Ricordai il bagliore della sua approvazione per il mio primo profumo. Claudia non aveva ricevuto nulla di tutto ciò.

«Sei gelosa», commentai, ma lei si limitò a sollevare le spalle, come se non potesse importargliene di meno, poi riprese a camminare, facendo sobbalzare i lembi superiori dello scatolone al ritmo dei suoi passi.

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«Non preoccuparti», mi disse Victoria quando la trovai nel suo ufficio. «In realtà l’articolo è un’ottima pubblicità.»

«Ma niente di quello che racconta è vero.»

«Le vendite sono aumentate», sottolineò. «Quindi va bene.»

Scossi il capo, infelice.

«Avanti, Emmeline.» Il suo tono era cordiale, persuasivo. «È soltanto un articolo, e straordinario, davvero. Attirerà l’attenzione. Coco Chanel diceva sempre: “Per poter essere insostituibili bisogna essere sempre diversi”. Approfittane.»

«E se non volessi farlo?»

Incrociò il mio sguardo e scosse il capo. «A volte mi ricordi tua nonna», commentò.

Il suo tono racchiudeva una delusione, un’amarezza, che mi diedero da pensare. Tutto quello che sapevo della madre di Victoria era che aveva lavorato in un grande magazzino. Non avevo mai visto nemmeno una sua foto.

«In che senso?» chiesi. Di qualsiasi cosa si trattasse, non volevo essere così.

«Mia madre aveva un magnifico naso», spiegò, «ma non lo portò mai oltre il bancone dei profumi. Fece un lavoro pagato poco. Ebbe molti fidanzati, uno dopo l’altro. Sprecò il proprio talento cercando di scoprire quale profumo li avrebbe catturati. Tabu per l’uomo che aveva lo steccato di legno bianco a casa, Arpège per il vedovo la cui moglie aveva amato i fiori. E lei non si limitava a mettersi i profumi, diventava quei profumi.» Il suo tono di voce era cambiato, passando da seducente a stucchevole per poi terminare in una nota di disprezzo. «L’ironia fu che gli uomini con lei si divertivano, ma non la sposarono mai. Capisci cosa intendo?»

«No», risposi. Mi ero persa nella storia.

«È semplice, Emmeline. Nessuno ti rispetta se l’unica cosa di cui ti preoccupi è cosa pensano gli altri. È una lezione che ho imparato presto.»

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Non curarsene affatto non era così semplice. Tornai indietro lungo un corridoio pieno di visi incuriositi e chiusi con forza la porta della mia stanzetta. Immaginai Fisher che trovava l’articolo, Colette che lo leggeva. Avrebbero creduto che avevo detto quelle cose.

Quando Victoria passò da me a fine giornata le dissi che stavo lavorando su qualcosa e che ci saremmo viste a casa. Aggrottò la fronte ma mi lasciò sola. Rimasi nel mio laboratorio, circondata dalle essenze, ascoltandole sussurrare. Il bisbiglio dello zafferano, la dolce rassicurazione del benzoino, il modo in cui il legno di sandalo sembrava chiedere sempre qualcosa e il vetiver sembrava avere sempre una risposta. Di tutte le cose da me sentite quel giorno, erano le uniche sensate. Mi misi comoda sulla mia poltroncina e chiusi gli occhi, tagliando fuori il resto del mondo.

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Mi destai di colpo da un sogno legato al capanno. Era tangibile come la poltroncina su cui sedevo, riuscivo ancora a sentire l’odore del fumo di pipa. Annusai, tentando di calmarmi, ma l’aroma rimase, ostinato, allettante. Dopo una breve pausa inalai di nuovo, titubante.

L’effluvio persisteva.

Mi alzai e raggiunsi la porta, spingendo fuori la testa. Non c’era nessuno, solo la scia di un aroma. Ancora parzialmente smarrita nel mio sogno, seguii la fragranza lungo un primo corridoio e poi un altro, poi giù per una rampa di scale. L’edificio era deserto e i miei passi risuonarono enormi nel silenzio, ma la pista olfattiva era lì e mi condusse fino all’angolo in fondo al quarto piano, dove c’era una porta socchiusa, con la luce che filtrava all’esterno.

Spinsi il battente, le mani tremavano. Un uomo con una corta coda di cavallo bianca sedeva dietro un lungo tavolo metallico, circondato da un semicerchio di flaconcini. Alzò gli occhi quando entrai.

«Mi scusi», farfugliai, «l’odore…»

Le sue sopracciglia arruffate si sollevarono sopra gli occhi grigi. Non so se dipese dall’aroma o da quanto lui fosse diverso da tutti quelli che lavoravano intorno a me, ma lo riconobbi: lo avevo visto nell’atrio il primo giorno che ero venuta a cercare Victoria. Lavorava lì. La cosa mi stupì, non sembrava adatto alla Inspire. Ma forse, in fondo, non lo ero nemmeno io.

«Non ti piace l’odore di fumo della pipa?» chiese.

«No», risposi. «Sì, volevo dire. Mi ricorda un posto in cui vivevo un tempo.» Rimase in attesa, piegando leggermente la testa verso di me. «L’odore viveva nelle pareti», aggiunsi, e mi feci piccina ripensando all’articolo e alle mie parole stupide, ingenue… Sono vivi. Mi raccontano cose.

Ma lui sorrise in un modo che gli colmò gli occhi. Mi tese la mano. «Mi chiamo René, piacere.»

Gliela strinsi. «Emmeline», dissi.

«Sai su cosa sto lavorando, Emmeline?» chiese.

Scossi il capo.

«Ricreo profumi che stanno scomparendo», spiegò. «Fumo di pipa, nastri di macchina da scrivere, quelle minuscole fragoline selvatiche che crescono nel bosco. È un progetto personale cui mi dedico la sera. Non sopporto l’idea che svaniscano, capisci?»

Annuii. Lo capivo benissimo.

Allungò una mano, prendendo uno dei flaconcini di fronte a lui. «Questo è il mio preferito», disse, svitando il tappo.

«Che cos’è?»

Me lo porse come fosse un dono. «Annusa tu stessa.»

Inalai l’odore, non con le lievi annusatine cliniche insegnatemi da Claudia ma come aveva fatto mio padre. Chiusi gli occhi e lasciai che l’immagine mi riempisse la mente. Il profumo di terriccio asciutto che si offriva alla pioggia in primavera. Mi aprì come una chiave.

Once upon a time, Emmeline.

«Petricore», spiegò René. «La parola deriva da petra, che significa pietre, e icore, il sangue etereo degli dei greci. Le piante rilasciano un olio che impedisce ai loro semi di germinare quando sarebbe troppo difficile sopravvivere. L’olio penetra nei pori delle pietre e viene liberato dall’acqua. Si dice che sia il profumo dell’attesa, l’attesa ripagata.»

Mi asciugai gli occhi con il pollice, tentando di celare la mia reazione.

«Sai», aggiunse lui, «mi ricordi qualcuno.»

Alzai gli occhi. «Mia madre, probabilmente, Victoria Wingate. Dicono che le somiglio.»

«Sì, infatti», confermò, «ma non è a lei che stavo pensando.»

«Allora a chi?»

«A tuo padre, John.» L’affetto nel suo tono risultò palese.

La mia voce si contrasse in un gracchiare. «Lo conosceva?»

René annuì. «Lavoravamo insieme, molto tempo fa. Tuo padre era convinto, proprio come te, che gli odori fossero vivi. Ecco cosa lo rendeva così bravo in ciò che faceva. Era il suo dono.»

Rividi la brama sul volto di papà mentre annusava l’aroma dei foglietti che bruciavano, la sua mano che si allungava per afferrare la boccetta con la cera azzurra mentre lui precipitava nel cielo.

«Non sempre», sottolineai.

«Nulla può essere per sempre, è la prima cosa che un odore ti insegna.» Mi guardò con aria meditabonda. «Ti ha mai raccontato come ha iniziato con i profumi?»

«No.» Un altro segreto.

«È stato per sua madre, morta quando lui era solo un bambino. Aveva dodici anni, credo.»

«Cos’è successo?» chiesi, trattenendo il fiato. “Ti prego, fa’ che non sia annegata”, pensai.

«Si è ammalata di tumore», raccontò René. «Ha aspettato molto prima di andare dal medico. E prima di morire è rimasta in ospedale per settimane. John ha detto che lei odiava gli odori là dentro, così lui ne introduceva furtivamente di nuovi.» Mi rivolse un sorriso mesto. «Ha detto di averle portato metà delle boccette di spezie della cucina. Si sedeva sul letto della madre mentre lei inventava storie su ognuna di esse e sul suo coraggioso Jack che andava a caccia di profumi.»

C’era una volta, Emmeline, una bellissima regina rinchiusa in un enorme castello bianco. Nessuno dei grandi cavalieri coraggiosi poteva salvarla…

«Oh», mormorai.

Spalanca la mente, sentii dire di nuovo a papà. Ascolta la storia.

La verità era sempre stata lì, capii, nascosta nelle favole di mio padre come i foglietti odorosi dentro le bottiglie.

Mi martellava il cervello, avevo bisogno di tempo per capire cosa significasse nel complesso. «Devo andare», dissi, alzandomi.

René annuì. «Torna a trovarmi, qualche volta.»

Mi diressi verso la porta, poi mi voltai. «Grazie», dissi.

Il suo sguardo incontrò il mio. «Era un brav’uomo, Emmeline. Non permettere a nessuno di dirti il contrario.»

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Per tornare nell’appartamento di Victoria evitai la passeggiata lungo il molo e presi l’autobus. Aveva gli stessi sedili duri, gli stessi passeggeri stanchi di quello che avevo preso il primo giorno che ero andata alla Inspire. Non era cambiato nulla, a parte me. Rimasi seduta fra il residuo della giornata degli altri, ricordando la Emmeline con la vecchia felpa che era andata in città a cercare il suo ragazzo, il suo passato.

Avevo perso Fisher ma incontrando Victoria pensavo di aver trovato un futuro, una nuova vita, una Emmeline migliore. Ero entrata nel mondo di Victoria e mi ero levata di dosso tutto il resto come avevo fatto con i miei vecchi vestiti. La conversazione con René, gli odori di fumo di pipa e petricore, erano come pugni che picchiavano su una porta chiusa. “Fammi entrare.”

Avevo passato solo mezz’ora con René ma mi fidavo di lui. Le sue affermazioni avevano il senso profondo delle cose essenziali e vere. Lui mi aveva restituito un pezzo di me che pensavo di aver perso o che forse non avevo mai avuto.

Ai miei occhi mio padre era sempre stato mio padre, non era mai stato un bambino. Adesso, per la prima volta, riuscivo a immaginarlo piccolo. Spaventato e solo. Sapevo cosa si provava a perdere un genitore, conoscevo il baratro in cui si cadeva a precipizio.

“Oh, papà, cos’altro non so?” mi chiesi.

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Quando arrivai nell’appartamento era tardi e sentii Victoria sotto la doccia, nel bagno in fondo al corridoio. Mi avviai verso la cucina ma mentre attraversavo il soggiorno vidi lampeggiare la lucina sulla segreteria telefonica e fui assalita dalla nostalgia di casa. Colette e Henry non potevano avere già letto l’articolo; sarebbe passato un po’ di tempo prima che qualcuno mostrasse loro una copia, sempre che la vedessero mai. Sollevai il ricevitore, digitai il numero per accedere ai messaggi vocali. Desideravo il conforto delle loro voci, anche se era solo una registrazione.

I primi messaggi erano molto simili ai precedenti: Colette raccontava stralci di vita, un commento divertente su un ospite estivo, aneddoti vari per mantenersi in contatto, a dispetto di quanto io mi ero allontanata. Ma mentre ascoltavo il quarto, il quinto e poi il sesto messaggio li sentii cambiare.

«Richiamaci, tesoro.»

«Dobbiamo parlarti.»

Poi la voce di Henry. «Si tratta di Dodge, Emmeline. Mi dispiace…»