IL PARCO

Lasciai cadere il telefono e rimasi ferma lì, incapace di muovermi, di respirare.

«Tornerò», avevo promesso a Dodge, invece non l’avevo fatto, e adesso lui non c’era più. Lo ricordai mentre aspettava sulla veranda finché non avevo smesso di avere paura, ricordai come mi aveva aiutato a capire il nuovo mondo. Era stato l’unica creatura vivente a conoscere tutte le mie storie, persino le peggiori, che avevo sussurrato contro il suo pelo in modo che nessun altro potesse udirle. Riuscivo ancora a sentire la curva della sua testa nella mia mano messa a coppa.

Avevo trovato una vita brillante in città e mi ero a malapena guardata alle spalle. Lo avevo abbandonato, proprio come avevo lasciato sola Cleo la notte in cui era arrivata l’orsa. Il dolore mi piegò.

In fondo al corridoio lo scrosciare dell’acqua della doccia si interruppe e mi resi conto che non sopportavo l’idea di parlare con Victoria, né con chiunque altro. Corsi in camera e chiusi la porta. Quando lei bussò, pochi minuti dopo, aprii la mia doccia per evitare di rispondere. Mi sedetti sotto il getto d’acqua e tra le mani iniziai a singhiozzare, rantoli orrendi, che terminarono quando l’acqua divenne fredda e poi gelida, e quella sensazione pungente risucchiò il calore dalla mia pelle e i pensieri dal mio cervello.

Alla fine uscii, tremante, e mi infilai nel letto. Il mio corpo tremò finché non mi riscaldai, ma non riuscii comunque a dormire. Sull’orologio, osservai scorrere le ore di un rosso luminoso. Poi mi levai di dosso la trapunta, la lasciai cadere sul pavimento accanto al letto e mi ci raggomitolai dentro.

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«Stai bene?» chiese Victoria l’indomani mattina. Era in piedi accanto al piano di lavoro, dandomi la schiena; nell’aria, il profumo di latte bollente e cannella.

«Certo», risposi. Non potevo dirglielo. Nelle ultime ventiquattro ore il mio mondo era stato capovolto, di nuovo, e non sapevo chi ero. Avevo l’impressione di aver perso non solo il mio cane ma anche me stessa, sia la ragazza che ero stata un tempo che la versione meticolosamente costruita degli ultimi mesi. Mi sentivo a pezzi, una miriade di frammenti sparsi a terra.

Mia madre mi passò un caffellatte e osservò il mio viso ancora a chiazze. Acqua fredda e trucco non erano stati d’aiuto.

«Sei tornata tardi, ieri sera», commentò.

Mi guardai intorno nel suo impeccabile appartamento. Era strano anche solo pensare a Dodge lì. Riuscii a immaginarmi soltanto le sue unghie che graffiavano il parquet lucido, il suo pelo che si accumulava sui tappeti, la sua ciotola per il cibo e quella per l’acqua che ingombravano la cucina. Mi ero crogiolata nell’eleganza di quel posto, nella confortante sensazione di organizzazione e controllo. Adesso desideravo soltanto il calore del fiato di Dodge sui miei piedi nudi e il disordine che portava nella mia vita.

Guardai Victoria. Non sarei mai riuscita a spiegarglielo, nemmeno sforzandomi.

«Sto benissimo», affermai. «Ho solo lavorato troppo.»

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Andai alla Inspire, non avevo alcun pretesto convincente per non farlo. Inoltre pensavo che il lavoro mi avrebbe aiutata: quando creavo profumi ero io al comando, una sensazione che al momento scarseggiava. Se le persone stavano parlando dell’articolo mentre percorrevo i corridoi della Inspire non me ne accorsi. L’unica cosa che desideravo era tastare i flaconcini ormai familiari, i profumi che mi sussurravano nella testa.

Entrai nel mio piccolo laboratorio e mi sedetti sulla poltroncina, cercando di concentrarmi. Il mio più recente progetto era quello per un concessionario di auto. Il profumo di pelle delle nuove vetture non era naturale già da anni, solo una fragranza spruzzata sulla sezione inferiore dei sedili prima della consegna. Adesso il venditore voleva un altro profumo, un odore capace di giocare sull’aroma previsto e sulla promessa di qualcosa di nuovo ed eccitante. Costoso.

Mi costrinsi a pensare alle auto: la lucentezza, il metallo, il vetro e la non-pelle, le coppie con bambini che correvano intorno alle gambe dei genitori. Volevo odori di casa? Di evasione? Ascoltai, aspettando la storia. Qualcosa per indurre i clienti ad aprire il portafoglio, a comprare.

Ma non c’era niente. Solo un ronzio sordo, opaco come nebbia. Guardai i flaconcini, sollecitandoli a parlare, ma rimasero immobili. Scuotendo la testa per schiarirmi le idee, cominciai a prenderne qualcuno dagli scaffali e ad aprirlo. Riuscivo ancora a sentire l’odore di ogni profumo; conoscevo le loro proprietà e avrei potuto inserirli al posto giusto su ognuna delle tabelle di Claudia, ma la magia, le voci, erano scomparse.

“Era così, per le altre persone?” mi chiesi. “Come facevano a sopportarlo?”

Forse avevo solo bisogno di rompere il ghiaccio, dopo di che gli aromi mi avrebbero seguito. Iniziai a combinare accurate proporzioni di note di testa, di cuore e di fondo, ma era come inserire mattoncini rettangolari in buchi rettangolari, niente di più. Miscelai un profumo dopo l’altro, in vari tentativi, sempre più veloci, presa da un’ansia spasmodica. Ogni fragranza risultava insulsa e insincera. Una cosa e basta, senza una storia.

Lavorai per ore, ma la situazione non migliorò. Creai profumi gradevoli, ma nessuna magica alchimia.

Alla fine mi alzai. Dovevo uscire da lì. Avevo bisogno di verde. Avevo bisogno di alberi.

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Non ero più tornata al parco, da quando avevo conosciuto Victoria. Mentre lavoravo nel mio piccolo laboratorio bianco erano passati i mesi e non me ne ero quasi accorta. La mia massima vicinanza alla natura era consistita nelle passeggiate lungo il molo, che non facevo da quando avevo visto Fisher sul balcone dell’Isola.

Ci volle quasi mezz’ora di ricerche e piste sbagliate prima che svoltassi un angolo e mi trovassi di fronte l’enorme prato verde. Mi accorsi che l’aria cominciava a sollevarsi e muoversi nello spazio aperto, eppure stavolta c’era qualcosa di diverso. Guardai gli alberi e notai che erano distanziati in maniera ordinata, regolare. Vidi cemento e non terriccio, sentieri dalle curve delicate, insegne che dicevano dove andare e il nome di ogni albero e cespuglio.

La prima volta in cui ero entrata in quel parco ero stata felice di trovare qualcosa che somigliasse a casa, ma adesso mi ricordò unicamente il minimarket che piaceva a Victoria, quello con i pomodori di serra le cui etichette dicevano EDIZIONE LIMITATA e i barattoli di vetro ornati di nastri a quadretti rossi e bianchi, ognuno contenente un’unica tazza di porridge organico. Somigliava a una reliquia o a un surrogato. L’originale aveva del terriccio sulla verdura, cespugli sotto gli alberi che catturavano le gambe dei pantaloni o sussurravano contro di esse mentre si cercava di aprire un varco. Aveva cani che nuotavano nell’acqua salata e portavano a casa gli odori.

Cosa ci facevo in quella città? Ero saltata da una cosa all’altra inseguendo Fisher, cercando mia madre, riempiendo la mia solitudine con le sue rassicurazioni su quanto fossi speciale. E lo ero stata; avevo creato dei capolavori, ma erano stati realizzati per la sua approvazione e avevano manipolato altre persone. Alla fine non ero stata più fedele ai miei profumi di quanto lo fossi stata al mio cane, e adesso li avevo persi tutti.

Le favole che mi leggeva papà avevano avuto un senso quando ero piccola. All’interno delle loro pagine le linee del mondo erano semplici. Matrigne, regine e ometti gobbi erano malvagi. I bambini trionfavano, e il finale era chiaro e rassicurante.

Ma come funzionava quando eri tu ad abbandonare gli altri nel bosco? Quando eri tu a creare le pozioni? Aveva importanza se non lo avevi fatto apposta e poi ne eri dispiaciuta?

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Mentre riflettevo avevo proseguito sul sentiero di cemento fino a ritrovarmi accanto a un vecchio chiosco, resto dell’epoca in cui il parco era stato un piccolo giardino zoologico con alcuni animali da cavalcare e altri da osservare dentro un recinto. Nello stagno c’era ancora una coppia di cigni, indiscussi sovrani dell’acqua, dopo che i pony e le galline e il cucciolo di orso erano stati giudicati troppo costosi per poterli tenere.

Il chiosco aveva l’aspetto incantevole e triste di una rovina parzialmente inghiottita dalla natura. Una serie di sbiaditi manifesti promozionali incorniciati e sotto vetro si affollavano ancora intorno allo sportello buio della biglietteria. Mi avvicinai per esaminarli più da vicino. I disegni erano quelli di un’altra epoca, vivaci e delicati. I pony avevano l’aria allegra e copricapi di piume, l’orso era in equilibrio su una palla a strisce, anche se dubitavo che avesse mai fatto quell’esercizio.

Mentre mi voltavo per andarmene intravidi un movimento nel riflesso sullo sportello di vetro. Per un attimo pensai che fosse mia madre, la pelle chiara e i riccioli scuri, il mento leggermente sollevato nel gesto liquidatorio che le avevo visto fare innumerevoli volte quando un profumo o un dipendente o una qualunque cosa non riscuoteva la sua approvazione. Ma stavolta non si trattava del mento di mia madre, bensì del mio.

Avevo passato mesi a desiderare di essere lei e adesso, che non ero più sicura di volerlo, lo ero diventata.

Mi fece ripensare alla sera in cui avevo visto Fisher sul balcone dell’Isola, la sigaretta in mano, lo sguardo fisso sull’acqua. L’incarnazione di suo padre. Mi ero ritratta spaventata dalla persona che pensavo fosse diventato. Non gli avevo mai concesso l’opportunità di spiegare.

Ma adesso fui costretta a chiedermelo. Ero poi tanto diversa da lui? Il fatto che non riuscissi nemmeno a riconoscere il mio riflesso era eloquente.

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Uscii dal parco per dirigermi verso il molo. Avevo bisogno di vedere Fisher. Sapevo che rischiavo di rimanerci male, ma non mi importava. Avevo già perso Dodge e stavo per perdere me stessa. Non intendevo commettere ancora una volta lo stesso errore.

Erano quasi le cinque quando mi lasciai alle spalle l’enorme prato verde e rientrai nel trambusto cittadino. Camminai fra i palazzi che svettavano sopra di me e le auto che sfrecciavano sulle strade. Quando raggiunsi il molo e sentii il legno del pontile sotto i piedi trassi un sospiro di sollievo. Non era casa, ma c’era almeno l’aria di mare.

Non sapevo cosa avrei fatto una volta arrivata al bar. Poteva darsi che Fisher non lavorasse più lì, in fondo era passato parecchio tempo. E se invece ci fosse stato, se all’improvviso mi fosse comparso davanti in carne e ossa, cosa avrei detto? Nonostante tutto il tempo passato a rimuginare su scenari possibili, non sapevo cosa aspettarmi.

Non avevo idea di dove ci saremmo inseriti nel bel mezzo di questi cambiamenti, così quando arrivai all’Isola mi infilai oltre la massiccia doppia porta in legno e rimasi là dove lui non poteva vedermi. Di nuovo.

Lui era dietro il bancone, proprio come la volta precedente. Quell’energia inquieta, latente, era rimasta immutata, anche se aveva tagliato i capelli, notai. Quando si piegò per prendere qualcosa, costeggiai silenziosamente la parete in fondo al locale. Trovai una sedia in un angolo buio e rimasi seduta a guardarlo, concentrata. Non volevo chiedermi se avevo davvero toccato quegli ondulati capelli rossi. Una cameriera robusta con un piatto accento americano e vari tatuaggi mi posò di fronte un bicchiere d’acqua, diede un’unica occhiata al mio viso e mi lasciò in pace.

Il locale era affollato come la volta precedente, ma adesso passai più tempo a guardarmi intorno. I clienti si stringevano davanti al bancone di mogano: un bizzarro assortimento di costruttori di barche, operai edili e giovani ingegneri informatici, hipster sospinti fin lì come relitti galleggianti, sgomitavano ai margini rivendicando lo spazio. Mi rendeva nervosa, ma Fisher sembrava non curarsene. Le sue mani si muovevano rapide e decise fra le bottiglie. Poi, proprio mentre pensavo che tornare lì fosse stato un errore, lo vidi esitare un istante per osservare la luce che si rifletteva sul getto trasparente e scintillante di una bevanda che stava versando in un bicchiere. Il mio Fisher si trovava ancora lì. Mi misi comoda ad aspettare.

Dopo pochi minuti la porta d’ingresso si aprì per lasciar entrare un uomo di mezza età, magro e asciutto, accompagnato da un grosso cane nero tanto tranquillo quanto l’uomo era inquieto. Rimasi stupita non solo perché i due non si somigliavano come spesso succede tra cane e padrone, ma perché pensavo che agli animali non fosse consentito entrare nei bar. Nessuno disse niente, e il cane gironzolò fra i tavoli come un’ombra familiare. Aveva le stesse dimensioni di Dodge, benché non lo stesso colore, ed ebbi la tentazione di stringerne il pelo fra le dita. Mi trattenni a stento dall’allungare una mano.

Lui sollevò il muso, esaminò l’aria e poi venne ad accucciarsi accanto a me.

«Chi sei?» domandai, accarezzandogli la schiena. Alzò lo sguardo e mi posò il mento sul ginocchio, gli occhi marroni e in attesa. Sentii le lacrime cominciare a riempire i miei.

«Ti piace?»

La voce dell’uomo suonò stentorea e divertita tanto dalla stanza quanto dalla sottoscritta. Sollevai lo sguardo e vidi il suo volto, troppo vicino. Gli occhi erano di un blu livido, la bocca tirata in un sorriso. Notai un movimento alle sue spalle e vidi Fisher sgranare gli occhi nel notarmi.

«È un bravo cane», dissi all’uomo, spingendomi indietro sulla sedia.

«Io sono un bravo addestratore», replicò lui. Il suo sorriso si allargò. «Potrei addestrarti.» Scoppiò a ridere, ma Fisher era comparso al suo fianco.

«Piantala, Frank», disse. Mi rivolse una rapida occhiata.

«Emmeline», aggiunse, e per un attimo un’emozione affiorò nella sua voce. Avrei voluto afferrarla, prendere lui e scappare via.

Frank inarcò un sopracciglio e mi si avvicinò un altro po’. «Avanti, Fisher, sto solo parlando con la ragazza. Le piace il mio cane…» Stava sorridendo, un sorriso sgradevole.

Il pugno di Fisher si alzò fulmineo, ma l’uomo lo afferrò con la mano. Rimasero fermi lì, le loro braccia un ponte contratto sopra di me, i loro visi contorti. La stanza rimase in attesa, io sentii il tepore del fiato del cane sulla gamba.

In un turbine di movimenti una donna di mezza età dai capelli rossi li raggiunse e li costrinse ad abbassare le mani con uno schiaffo: un gesto più efficace della forza.

«Cosa ti avevo detto, Fisher?» chiese.

«Aspetti», dissi, cercando di alzarmi, ma non c’era posto.

La donna mi esaminò. «E tu saresti…»

«Lasciala in pace, Izzy», le intimò Fisher, guardandola.

«Sul serio, Fisher?» Lei scosse il capo con aria di disappunto. «Okay, tu e la fidanzatina… fuori. Stasera mi occupo io del bar.»

Il proprietario del cane fece un sorrisetto trionfante. Uno dei portuali si piegò all’indietro, scostandosi dal bancone. «Ehi, avanti, Izzy. Dai un po’ di requie al ragazzo.»

Lei lo ignorò e lanciò uno strofinaccio verso il bancone, senza mai distogliere lo sguardo da Fisher. «Non mi importa quanto sei bravo, questa è l’ultima volta che succede. Non tornare finché non riesci a controllarti.»

Lui mi prese la mano e si diresse verso la porta. Mentre uscivamo, mi girai e vidi i grandi occhi scuri del cane che mi guardavano.