LA BARCA

Non appena uscimmo ritrassi di scatto la mano da quella di Fisher e scesi con passo pesante i gradini di legno che portavano verso l’acqua.

«Aspetta!» disse lui, raggiungendomi quando arrivai al molo. Mi voltai a guardarlo.

«Hai detto che non volevi essere tuo padre», affermai, respirando affannosamente. «Ti ho aspettato, ti ho cercato. E ti trovo qui, in un bar? Ad azzuffarti?»

Lui avvampò. «Cercavo di proteggerti.»

“E adesso parla come sua madre”, pensai.

«Ha funzionato davvero bene», replicai, con amarezza.

Mi fissò, notando la mia rabbia e al tempo stesso il mio trucco. «Sei cambiata», disse.

«Non ho avuto altra scelta.» Feci scattare le parole come un chiavistello. Fisher si ritrasse come se lo avessi schiaffeggiato. Sapevo che non avevo alcun diritto di essere così crudele. Non ero certo esente da colpe, avevo messo in moto io gran parte di tutto questo.

«Mi dispiace», disse, abbassando le spalle.

Le parole si infransero sul molo davanti a me, con un suono frastagliato e triste. E in quel momento rividi me stessa a dodici anni, a cavallo della mia ondata di virtuosa indignazione nei confronti di mio padre.

“Hai mentito, papà. Le sirene non esistono.”

Ricordai come quell’onda si fosse abbattuta su tutti noi. Mio padre, Cleo, me. Ero stata talmente concentrata a cavalcarla da non tentare nemmeno di fermarla. Ed eccomi di nuovo lì, pronta a rifarlo.

Fisher era fermo di fronte a me, in attesa.

«Cosa vuoi che faccia?» chiese.

Feci un respiro profondo, tremando e rallentando il mio slancio. Avvertii i nostri odori protendersi l’uno verso l’altro, scivolare sotto le nostre parole, senza curarsi minimamente di tutte le resistenze e dei tentativi di ferire che gli esseri umani mettono in atto. Aspettai un attimo, cercai di distendermi e di pensare alla domanda che non avevo fatto a mio padre, quella che avrebbe potuto cambiare ogni cosa.

«Dimmi perché.»

piccolo fregio usato per separare

Tutto si fermò, poi Fisher cominciò a parlare, lentamente, come lasciandosi cadere da un alto pianoro. «Okay, ma possiamo andare altrove? C’è una cosa che vorrei mostrarti.»

Quando annuii mi condusse verso un ampio canale che usciva dal porto, costeggiato da un sentiero che imboccammo allontanandoci dal centro città. Non parlammo. Non eravamo ancora pronti, ci serviva tempo per permettere al nostro vecchio e nuovo io di trovare una posizione fra noi. Ascoltai il suono dei suoi passi, il loro ritmo familiare, costante, e mi chiesi quanta parte del mio Fisher fosse rimasta dentro l’uomo al mio fianco. Mentre faceva oscillare le braccia al ritmo dell’andatura, sentii il calore della sua pelle avvicinarsi e allontanarsi fluido. Avrei voluto prendergli la mano, ma poi pensai che qualcun altro lo aveva fatto dopo di me.

Proprio quando stavo per chiedergli quanto mancasse ancora, il sentiero sfociò in un ampio viale che correva fra una schiera di case eleganti e un pendio erboso verde scuro che digradava fino al canale. Sull’acqua riuscii a distinguere un ammasso di barche sgangherate: una chiatta dall’aria vetusta, alcuni pescherecci malconci, un paio di panfili sporchi e disordinati e una mezza dozzina di barche a vela, gli alberi simili a una fila di dita rivolte in un gesto volgare alle villette sopra la collina. Una parte di me si ritrasse davanti a quello spettacolo, ma un’altra parte ricordò cosa si provava a essere diversi, esclusi.

Fisher mi guidò verso le imbarcazioni.

Quando arrivammo sulla riva fece un fischio e la testa di un uomo spuntò dalla barca a vela più vicina. Una bandiera nera pendeva floscia dall’albero e panni ancora bagnati erano stesi sul parapetto.

«Traghetto?» gridò Fisher. L’uomo scese una scaletta e montò su una barchetta che prese la nostra direzione, con i remi che schiaffeggiavano l’acqua.

«Riusciremo a stare tutti su quel coso?» chiesi.

«Non preoccuparti», mi rispose Fisher. La barchetta grattò contro la riva. «Questo è Jim, il nostro traghettatore.»

Jim scese goffamente. Aveva i capelli tutti arruffati e le braccia sottili come bastoncini. Mi ricordò gli uomini che a volte restavano fermi a mendicare all’angolo accanto alla Inspire. Victoria rifiutava di dare loro dei soldi. «Devi farti strada da solo, nella vita», mi diceva mentre passavamo. «Non puoi contare su nessun altro.»

«Hai portato la birra?» chiese Jim a Fisher.

«No, mi spiace, mi hanno sbattuto fuori», replicò lui. «La prossima volta.»

«Amico, sai che non è così che funziona.» Visto da vicino, il viso di Jim era grinzoso come corteccia di cedro. Lui mi guardò, inclinando la testa di lato, poi disse: «Stavolta vi darò un passaggio perché mi piacciono i suoi riccioli».

Mi preparai alla reazione di Fisher, ma lui si limitò a sorridere. «Grazie, vecchio mio», ribatté.

Guardai la barchetta a remi, malridotta come il suo proprietario. «Davvero, è tutto a posto», mi rassicurò Fisher, e Jim mi tese la mano.

«Mademoiselle», disse, indicandomi il sedile dietro.

Fisher si mise ai remi. Quando ci avvicinammo alle barche a vela, vidi che erano ridotte ancora peggio di quanto sembravano a distanza: la ruggine correva lungo le fiancate, teli impermeabili blu fungevano da tetti temporanei, gli oblò erano chiusi con cartoni. Due delle barche sembravano avere le vele, ma qualcosa mi disse che quei natanti non levavano l’ancora da parecchio tempo.

A Fisher non servirono più di dieci energici colpi di remo per portarci fin lì, poi Jim legò la barchetta e salimmo tutti e tre sulla tremolante scaletta metallica.

«Benvenuti sulle Desolates», disse, e colsi la nota di fiera baldanza nella sua voce.

Da quel punto di osservazione riuscii a vedere che le imbarcazioni erano disposte intorno a una piattaforma galleggiante fatta di pallet e compensato. Quattro sedie scompagnate circondavano un barbecue, una tanica d’acqua da venti litri e un solitario vaso di terracotta con dentro un geranio rosa. Natura morta, per gentile concessione di un mercatino delle pulci.

«Grazie, Jim.» Fisher gli sorrise e mi prese per mano, delicatamente. «Siamo quasi arrivati», annunciò, guidandomi lungo il ponte della barca dell’uomo e attraverso un’ampia tavola di fasciame, fino a un vecchio rimorchiatore. La sua vernice un tempo bianca e il legno delle finiture erano talmente scoloriti da essersi fusi in un grigio indistinto. Se quell’imbarcazione fosse stata un ceppo, a quel punto sarebbero già spuntati nuovi alberelli.

«Vivi qui?» domandai.

«Non ho avuto altra scelta», replicò, con un sorrisetto storto.

Lì sembrava diverso. Qualcosa di più quieto e meno palese aveva sostituito la ruvidezza che avevo visto nel bar, la disperazione da lui mostrata sul molo. Persino mentre la barca beccheggiava nella corrente i piedi di Fisher parevano più saldi.

Aprì la porta della cabina ed entrò piegando la testa. Lo seguii con cautela, poi mi fermai, sbigottita. Osservare l’interno della barca era come fissare il meccanismo di un orologio, ogni cosa al suo posto, un posto molto amato. Legno e metallo scintillavano, ogni superficie perfettamente pulita. C’erano libri allineati su una mensola, quattro boccette di spezie, una pentola e una padella appese ai rispettivi ganci. Dietro la cucina vidi una minuscola stanzetta che ospitava un letto in perfetto ordine con una coperta a scacchi.

«Wow», dissi, dimenticando i miei dubbi e la mia rabbia, tornando a come eravamo stati un tempo, due bambini che si erano creati un loro mondo.

Fisher sorrise. «Ho fatto tutto io.»

«È magnifico», commentai. «Ma come funziona tutto questo?» Indicai le barche intorno a noi e le sontuose abitazioni retrostanti. Non capivo come le due cose potessero coesistere.

«Siamo al di fuori dei confini della città», spiegò. «Un paio di anni fa i ricchi hanno cominciato ad abbandonare le loro vecchie barche e qualcuno ha pensato che fosse un peccato lasciare che andassero alla malora. Siamo come dei granchi eremiti.» Sorrise. «Tutti vogliono buttarci fuori ma non sono ancora riusciti a stabilire in quale giurisdizione ci troviamo. Grazie a Dio esiste la burocrazia.»

Si piegò verso un armadietto. «Posso offrirti qualcosa da bere? Ho dell’acqua e… dell’acqua.»

piccolo fregio usato per separare

Tornammo fuori a sederci sul ponte sgangherato, appoggiandoci alla parete della cabina e guardando verso il canale. Restammo a lungo in silenzio. Dalle barche intorno a noi sentivo arrivare fruscii, voci maschili, i rumori di cucina e di relax. Nelle case che costeggiavano il canale le finestre illuminate racchiudevano piccoli momenti, come le finestrelle aperte di un calendario dell’Avvento. Una donna camminava avanti e indietro con un neonato fra le braccia, una coppia era seduta a tavola, un bambino giocava con un cane. Tutte quelle storie, tutte quelle vite, ognuna era un intero mondo, eppure io non ne conoscevo nessuna. “Forse è sempre così”, pensai, “ognuno di noi va avanti, intravedendo fugacemente gli altri, credendo di sapere tutto.”

«Okay», dissi, voltandomi verso Fisher. «Racconta.»

Bevve lentamente un sorso d’acqua, posò la bottiglia. «Non saprei», affermò. Rimasi ad aspettare e lui si strinse nelle spalle. «È iniziato tutto abbastanza bene, credo. Ho trovato lavoro nel vivaio e una stanza in condivisione. Non era fantastico ma potevo permettermelo.»

Riflettei sulle barche circostanti, sul loro lento ma indubbio futuro in fondo al mare. Cosa poteva significare «non era fantastico»?

«Perché hai smesso di scrivermi?» chiesi, e mi preparai a incassare la risposta.

Sospirò. «Pensavo che sarebbe stato tutto diverso. Sai, lontano da mio padre. Ho scoperto di non saperla lunga come credevo. So far crescere fiori e piante, ma per lavorare in quel vivaio non bastava, dovevo conoscere nomi di piante complicatissimi, avere nozioni di arte dei giardini.» Assunse un tono sprezzante. «È uno schifo andare giorno dopo giorno in un posto dove non ti senti adeguato. Niente di ciò che facevo andava bene. E il direttore mi ha odiato sin dal primo istante, ha detto che non aveva il tempo di fare da babysitter.»

«E la ragazza?» lo interruppi io.

«Quale ragazza?» Mi guardò, sconcertato.

«Quella che ti ha fatto licenziare.»

Rise quasi. «Quindi ti importa», commentò. «Gesù, Emmeline, era solo una che lavorava lì. Il direttore ci stava provando con lei e io gli ho detto di lasciarla in pace. Era proprio il pretesto che gli serviva per sbarazzarsi di me.»

Mi ero sbagliata per così tanti mesi. Così tanto tempo passato a immaginare, fare congetture, odiare.

«Perché non me l’hai detto?» chiesi.

«Sono stato licenziato, Emmeline. Ho fallito nell’unica cosa che pensavo di saper fare. Come potevo dirtelo?»

«Avrei capito.»

«Dice la ragazza che indossa un paio di jeans da duecento dollari…»

Seduta lì su quella barca, provai un improvviso moto di vergogna, sapendo dove vivevo. Cosa facevo.

«Direi che anche tu hai una storia o due da raccontare», aggiunse.

«I miei jeans non ti tolgono dai guai», affermai pur rendendomi conto che, come sempre, lui aveva visto più di quanto desiderassi.

Scosse il capo. «Non volevo che tu lo sapessi, okay? E in seguito ho trovato più facile starmene qui – essere la persona che sono qui – a fingere che tu non esistessi.»

Nella mia testa rividi la lucina rossa lampeggiante sulla segreteria telefonica di Victoria. I messaggi che si accumulavano. Il tira e molla del mio vecchio e del mio nuovo io.

«Poi cosa è successo?» chiesi.

«Non riuscivo a pagare l’affitto, così mi hanno sbattuto fuori anche da lì. Ho continuato a vagabondare per la città, pensando a tutte le cose che mio padre diceva sempre di me, pensando che aveva ragione. Non potevo tornare a casa così.» Rise, o forse semplicemente sbuffò. «Voglio dire che non potevo tornare in nessun caso. Poi ho visto quel bar e sono entrato.» Si strinse nelle spalle. «È venuto fuori che ci so fare con i cocktail. Ho cominciato sparecchiando i tavoli, poi Izzy mi ha insegnato a fare il barman.»

Si guardò intorno. «Un tizio mi ha parlato di questo posto, ha detto che c’era una barca disponibile. So che impressione dà, ma rimarresti stupita. Jim faceva l’ingegnere aerospaziale, ha perso la moglie a causa di un tumore ed è andato a pezzi. Jamie», disse indicando il vecchio peschereccio, «è scappato di casa, proprio come me. Vuole fare il musicista. Parla sempre di vivere in modo consapevole e cerca di convincerci a mangiare sano.»

«Ma adesso ti pagano, vero?» domandai. Ma subito avrei voluto rimangiarmi le parole.

L’espressione di Fisher si incupì.

«Si dà il caso che mi piaccia questo posto, e posso sfamare un sacco di questi ragazzi con quello che guadagno. Mi sembra il modo migliore di usare i miei soldi.»

Un motoscafo, nuovo e di un candore abbagliante, passò nel canale, rallentando mentre le persone a bordo indicavano e fissavano l’enclave di imbarcazioni fatiscenti. Una donna estrasse un cellulare e lo puntò verso di noi. Scattò una foto, poi un’altra. Sentii Fisher irrigidirsi accanto a me.

«Sai cosa impari facendo il barman?» chiese. «Le persone non ordinano mai quello che desiderano veramente. Quella signora», aggiunse indicando la sconosciuta che stava scattando un’altra foto in orizzontale, «ordinerebbe un bicchiere di chardonnay ma berrebbe volentieri uno scotch.»

Si alzò. «Non siamo un’attrazione turistica!» urlò. La donna abbassò la mano e il motoscafo schizzò via.

Mi cinsi le ginocchia con le braccia. Fisher mi lanciò un’occhiata, arrossì e si sedette di nuovo.

«Scusa», disse.

La scia della barca che si allontanava ci fece dondolare prima l’uno verso l’altra e poi lontani.

«Avresti dovuto dirmelo», dichiarai.

«Davvero? Non lo trovi un po’ ipocrita?» La sua voce assunse un tono tagliente. «Ho sbagliato a non scriverti, e ti ho raccontato tutto quello che volevi sapere perché mi dispiace. Ma stai lanciando sassi dalla tua torre d’avorio, Emmeline. Sei stata tu la prima a tagliarmi fuori.»

La mia mente si riempì dell’immagine di Fisher fermo sul sentiero accanto alla diramazione per la scogliera. Lo sconcerto e la sofferenza sul suo viso. Il modo in cui si era voltato e allontanato.

«Io ti ho raccontato tutto», aggiunse. «Tu farai mai altrettanto con me?»

Non ero ancora pronta, anche se raccontargli i miei segreti era il motivo per cui ero venuta in città.

Ma aveva ragione. Sapevo che sarebbe stata l’ultima volta in cui me lo chiedeva. Avrebbe potuto non abbandonarmi, ma io non avrei più contato nulla per lui. A causa dei segreti avevo perso quasi tutto quello che amavo: Cleo, mio padre, l’isola, Dodge, le storie negli odori. Stavo per perdere qualcos’altro e non volevo.

Fisher allungò una mano e prese la mia. «Dimmelo, Emma», mi sollecitò.

“No”, pensai. “No, no, no.”

Feci un bel respiro. L’acqua intorno a noi si fermò.

«Ho ucciso mio padre», confessai.