Io e Fisher parlammo e parlammo mentre il cielo diventava nero e si addormentava. Tornai all’inizio di tutto, gli raccontai della macchina di papà e dei foglietti odorosi, dell’orsa e di Cleo, persino del lancio delle boccette dalla scogliera.
«Erano le tue?» chiese. «Quelle che il mare spingeva sulle spiagge?»
Annuii.
«Quella che ho trovato arrivava da te», disse in tono stupito.
«Sì», confermai. «Pensavo di fare la cosa giusta. Credevo che lui sarebbe stato disposto a lasciare l’isola, una volta che non ci fossero più state.»
E mi spinsi ancora più a fondo, riesumando parole talmente vecchie che sapevano di ruggine. Gli raccontai della volta che avevo trovato la bottiglietta con la cera azzurra, di quando papà era caduto in mare, della mia attesa sulla spiaggia, dei foglietti bruciati nel capanno.
Finalmente le mie parole rallentarono e restammo seduti in silenzio per un po’. Mi chiesi cosa fare del vuoto che a un tratto sentii dentro il petto.
«Perché mi hai lasciato, Fisher?» chiesi.
«Come potevo rimanere laggiù?» disse, fissando le ville dall’altra parte del canale, la vita perfetta che promettevano. «Più a lungo restavo in quella casa e più diventavo come lui. Non potevo correre quel rischio. Non potevo permettere che si avvicinasse a te.»
A quel punto gli riferii cosa aveva raccontato sua madre, quel giorno, immobile accanto alla finestra nel cottage azzurro della baia.
Quando finii lui mi cinse con un braccio, la guancia premuta sui miei capelli. «Si direbbe che non facciamo altro che ripetere gli errori dei nostri genitori», affermò.
«E se smettessimo entrambi?» proposi.
Nonostante il cenno d’assenso rispose: «Non è così facile, Emma».
«Okay», replicai, «allora cominciamo dalle piccole cose.» Mi allungai verso di lui e gli presi il pacchetto di sigarette dal taschino della camicia, accartocciandolo fra le dita.
Si scostò per guardarmi, poi vidi l’inizio di un sogghigno.
«Questo significa che possiamo sbarazzarci anche dei tuoi jeans?» chiese.
Erano le tre del mattino passate quando dissi che dovevo proprio tornare a casa. Fisher mi riportò a riva con la barchetta, ogni colpo di remi una sciaguattante interruzione del silenzio. Legò la barca sotto il molo e imboccammo il sentiero, ampio e rischiarato solo dalle stelle.
Quando arrivammo al palazzo bianco di Victoria, con i suoi dettagli ornamentali scolpiti e la grande porta a vetri, Fisher lo fissò in modo eloquente.
«Abiti qui?» chiese, e ricordai l’impressione che mi aveva fatto quel posto la prima volta che lo avevo visto. Mi era sembrato un castello.
«Questa è una storia per un’altra notte», replicai.
Ridacchiò. «Credo che qui non mi lascerebbero nemmeno entrare.»
Lo abbracciai. «Vengo da te domani», annunciai mentre ripescavo la chiave dalla tasca. «Buona fortuna con Izzy.»
«Mi riprenderà», disse lui con un sorriso ironico. «Le piace urlare come a me piace litigare.»
«Fisher…»
«Non lo farò», ribatté. «Lo prometto.»
Entrai nell’appartamento facendo meno rumore possibile, ma fu irrilevante. Victoria era seduta sul divano, un libro chiuso posato sulle ginocchia.
«Dove sei stata?» chiese, alzandosi. «Ero preoccupata.»
Guardai i suoi capelli spettinati, l’espressione stremata, e provai il desiderio di raccontarle cos’era successo. Ma poi immaginai come le sarebbe parsa la cosa: Fisher pronto ad azzuffarsi nel bar, Jim che ci accompagnava fino alle barche in rovina. Non ero pronta a mescolare quei mondi.
«Al lavoro», risposi. «Ero molto presa.»
Si avvicinò e la vidi annusare, un’unica volta. Le sue sopracciglia si unirono ma lei disse solo: «Okay. Vai a dormire un po’».
L’indomani non tentai nemmeno di fare qualche progresso con il profumo per le auto. Rimasi seduta nel mio ufficio a ripensare a come Fisher aveva ascoltato i miei segreti la sera precedente, afferrando le mie parole e ripiegandole dentro di sé, persino mentre gli raccontavo le cose peggiori che avevo fatto.
«Non so come comportarmi con Colette e Henry», avevo ammesso a un certo punto. «Non li ho nemmeno richiamati… Come posso parlare con loro dopo quello che ho fatto?»
«Come sei riuscita a parlare con me?» aveva chiesto.
Aveva ragione. Presi il telefono fisso e feci il numero. Rispose Henry. Sentii Colette in sottofondo, il clangore metallico di una teglia per biscotti che veniva posata sopra la stufa.
«Henry», dissi.
«Emmeline? Eccoti!» La sua voce era quella di sempre, il sommesso fruscio della marea contro i pali di legno.
«Scusami», dissi. «Mi sono comportata in modo orribile.»
«Dodge non ha mai avuto questo gran bisogno di scuse», replicò lui. «E nemmeno noi.»
«Come è successo…?»
«Nel sonno. Lo abbiamo seppellito sulla collina dietro l’orto.»
Sentii Colette raggiungerlo in fretta e prendere il telefono.
«Come stai?» domandò. «Quando torni a casa?»
«Ancora non lo so», risposi, «ma ho trovato Fisher. Potete dirlo a sua madre?»
«È un vero sollievo! Certo che glielo diremo!»
«Lei come sta?» chiesi.
«La teniamo qui il più possibile. È ora che io e Henry troviamo qualcuno che rilevi questo posto.» L’accenno non era certo casuale.
«Rimarrete lì per sempre», affermai.
«Era solo per dire.» Era una frase che gli adolescenti, ospiti in estate, amavano ripetere. La prendevo in giro quando utilizzava le loro espressioni. Mi fece venire voglia di piangere e sorridere sentire come riusciva immancabilmente a riportarmi a casa da lei.
Alle tre sgattaiolai fuori dal mio laboratorio e lasciai il palazzo, diretta verso il locale. L’Isola non aveva ancora cominciato a riempirsi, c’erano solo due tizi che bevevano una birra e Fisher che lucidava bicchieri dietro il bancone.
«Mi ha ripreso», annunciò, «ma per punizione devo pulire altri cinquanta di questi. Vuoi aiutarmi?» Mi lanciò uno strofinaccio. Mi sistemai su uno sgabello e mi misi al lavoro. Izzy passò lì accanto e io sollevai il canovaccio per rispondere alla sua tacita domanda.
Si rivolse a Fisher alzando gli occhi al cielo. «Non intendo pagarla, per la cronaca.»
Lui rise.
Nel corso delle ore seguenti il bar si riempì finché davanti al bancone si formarono tre schiere parallele di avventori. Izzy venne ad aiutare Fisher. Le bottiglie lampeggiavano, le spine della birra scattavano su e giù. A un certo punto una donna di mezza età si aprì un varco fra la calca fino a fermarsi proprio accanto al mio sgabello. Portava una felpa con sopra un pirata e scarpe da tennis bianche. Una turista, benché risultasse difficile indovinare come fosse finita lì.
«Quand’è che avrò un drink?» si lamentò. La sua voce aveva la grazia di una sega elettrica e vidi le spalle di Fisher contrarsi.
«Fra un minuto», rispose lui, sollevando una bottiglia di scotch e riempiendo un bicchiere da un’altezza di trenta centimetri.
«Sono qui da venti minuti e non sono neanche riuscita a ordinare. Che posto di merda!» Lei lo disse a voce abbastanza alta per sovrastare il chiasso nel locale.
Lui arrossì e sentii il calore cominciare a montargli dentro. All’estremità opposta del bancone, Izzy guardò verso di noi con aria torva e mise del ghiaccio in un bicchiere da margarita.
Fisher si voltò a guardare la donna infuriata, studiando automaticamente la sua espressione, la sua postura, leggendola nello stesso modo in cui i pescatori più abili leggono l’acqua. Nel modo in cui leggeva chiunque, qualsiasi cosa.
Sin da quando eravamo piccoli, pensai, i nostri genitori ci avevano insegnato – volutamente o meno – a osservare il mondo intorno a noi, fin nei minimi particolari. Avevamo capito, grazie all’istinto tipico dei bambini, che la nostra sopravvivenza dipendeva da quello. Avevamo entrambi sviluppato capacità che ben pochi potevano eguagliare.
Da quando eravamo lì in città, però, le avevamo usate in modo diverso: per prevedere la debolezza, per vincere. Tirava fuori il peggio di noi, così come di coloro che avevamo intorno. Era arrivato il momento di modificare l’equazione.
«Lui riesce a indovinare il suo cocktail ideale», spiegai alla donna con la felpa. Sentii la curiosità fendere l’energia nella stanza.
«Cosa?» chiese lei.
«Se non le piace, non deve pagarlo.»
Fisher mi scoccò un’occhiata; io gli rivolsi un’alzata di spalle contrita, ma la donna si allungò verso di lui, sopra il bancone.
«D’accordo», disse, la voce sonora come un branco di oche. «Prova. Indovina il mio drink.»
La calca si spostò, i clienti stiravano il collo per vedere meglio. Fisher passò lo shot di scotch a un tizio barbuto, poi esitò per osservare di nuovo la donna. Si prese più tempo del necessario: l’improvviso contrarsi del suo indice destro mi disse che aveva capito cosa preparare nell’istante esatto in cui l’aveva vista, ma alla fine annuì e cominciò a tirare giù alcune bottiglie, tenendone nascosta l’etichetta. Prese un bicchiere da cocktail dalla coppa larga e bassa; le sue mani passarono fluidamente da una bottiglia all’altra, mentre il contenuto del bicchiere da trasparente diventava giallo chiaro e poi di un caldo color ambra scuro. Con un’agile torsione del polso aggiunse una strisciolina di scorza d’arancia e poi spinse il bicchiere verso la donna.
Lei emise una sbuffata sprezzante. «Io bevo birra.»
«Già», replicò Fisher. «Miller Lite, immagino.»
Lo stupore le cancellò l’aria trionfante dal viso. «Sì.»
«Assaggi questo, invece.»
Lei lo annusò; riuscii a sentirne il profumo, pungente e levigato, agrumi ed erbe aromatiche e un accenno metallico. La donna bevve un sorso e alzò gli occhi, piegando la testa di lato per guardare Fisher.
«Che cos’è?» chiese.
«Death and Taxes», rispose lui. «Morte e tasse.»
Lei bevve un sorso più generoso e sorrise. «Be’, cazzo, credo di dover pagare.»
In seguito divenne un giochetto di prestigio: tutti volevano che Fisher indovinasse il loro drink. Alle persone non dispiaceva aspettare quando sapevano di potersi poi divertire. Operai edili chiacchieravano con ragazze in leggings, i clienti regolari si presentavano a persone accanto alle quali erano rimasti seduti per anni. A volte il nuovo drink rappresentava solo una leggera curva a sinistra: whisky di segale invece di bourbon, i fiori extra ad ammorbidire l’esterno duro di un uomo accigliato. Altre volte, invece, era qualcosa di totalmente diverso: «bevitori da ombrellino», come li definiva Fisher, che passavano a un gin botanico liscio.
«Non so come ci riesci», gli disse Izzy alla fine di una serata, «ma continua così.»
Lui lo fece, sera dopo sera. Per un’intera settimana me la svignai dal lavoro il prima possibile per andare al bar. Adoravo guardare Fisher mentre modificava l’atmosfera intorno a lui. Tutti gli altri la credevano magia, ma io conoscevo la verità. Alla fine non erano i sapori o l’alcol a far rilassare le persone, era l’essere viste e capite. E Fisher si apriva insieme a loro. Stava ritrovando sé stesso e io avrei potuto restare seduta a guardarlo per tutta la notte.
Ogni mattina tornavo alla Inspire e cercavo di pensare alla concessionaria di auto, e ogni mattina trovavo più difficile riuscirvi. Avevo raccontato a Fisher di Victoria e del mio lavoro, gli dissi persino dei problemi che stavo avendo con i profumi, nella speranza che ammetterlo potesse essermi d’aiuto. Ma non fu così. Le essenze restavano silenziose dentro i loro flaconcini per i test, prive dell’alchimia che rendeva possibili nuovi profumi. Riuscivo quasi a non pensarci quando ero con Fisher, ma quando invece mi trovavo nel mio laboratorio avevo la cosa costantemente davanti. Gli odori erano diventati l’equivalente olfattivo del rumore bianco: un’autostrada in lontananza, il ronzio di un frigorifero. Niente sorprese, niente comunicazione.
«Mi dispiace», dissi loro. «Mi dispiace. Cosa posso fare, da parte mia?» Ma lo sapevo già, credo.
Victoria aveva preso l’abitudine di passare nel mio laboratorio un paio di volte al giorno. Mi chiedevo quante altre volte ci andasse quando non c’ero. Mi sentivo in colpa a non rivelarle cosa stava succedendo, ma non potevo farlo, per una miriade di motivi diversi. Stavo ancora cercando di capire come conciliare la persona che diventavo accanto a Fisher con la mia vita con lei. Ma ancor più temevo cosa poteva pensare lei di me, cosa potevano pensare tutti di me, se scoprivano che il mio talento era scomparso.
«Come sta andando?» chiese un pomeriggio mentre infilava la testa nel mio laboratorio. «Sto ricevendo parecchie telefonate dai tizi delle auto, vogliono sapere quando sarà pronto il profumo.»
«Ci sto lavorando», risposi.
Osservò gli scaffali di flaconcini non aperti, il mio viso non truccato.
«Mi fido di te», disse, poi andò via.
Passai l’ora seguente a spingere aromi l’uno con l’altro, ma ogni profumo usciva piatto come un tabellone pubblicitario e due volte più ovvio.
“Portatemi una fragranza capace di abbattere i muri”, pensai, ma non ne arrivò nessuna. Alla fine rinunciai e mi diressi verso l’Isola.
Era la sera del venerdì, la più affollata della settimana. Si era sparsa la voce su Fisher e alla sua estremità del bancone si era formato un fitto capannello di clienti. Si udirono risate, persino grida di esultanza, mentre lui convinceva un avventore dopo l’altro a cambiare la propria ordinazione.
«Chi l’avrebbe mai detto?» chiese un pescatore tenendo sollevato un bicchiere da Martini pieno di un liquido giallo brillante.
«Lemon Drop», mi bisbigliò Fisher. «Cancella l’odore di pesce. E al tizio farebbe comodo un po’ più di zucchero nella vita.»
Un uomo si aprì con forza un varco fino al bancone, tirandosi dietro una bionda dalla maglietta scollata. Riconobbi il proprietario del cane della mia prima sera. Per quanto ne sapessi non era più tornato lì, e stavolta non c’era nessun cane, solo la bionda che si stava appoggiando a lui più che per affetto per reggersi sopra i tacchi a spillo.
«Frank…» disse Fisher, a metà tra una domanda e un saluto.
«Indovina il suo», replicò lui, indicando la bionda.
Fisher spostò lo sguardo da Frank alla ragazza e viceversa, dopo di che prese un bicchiere basso e largo. Inclinò platealmente il corpo in modo che nessuno potesse vedere cosa stava versando, e quando si voltò il bicchiere era pieno di un liquido trasparente. Lo passò alla bionda con un gesto fiorito e galante.
«Per lei», disse.
«Ah», commentò Frank, rivolgendosi alla folla. «Liscio. Mi aspetta una gran bella nottata, ragazzi.»
La donna bevve un sorso e guardò Fisher, sconcertata. Si allungò in avanti. «Ma è solo…» la sentì sussurrargli.
«Ha ottenuto quello che voleva?» chiese lui, abbastanza forte da farsi sentire da tutti, e io osservai la consapevolezza distenderle il viso.
«Sei un genio!» esclamò la donna.
«Rabbocchi gratis per la graziosa signorina, tutta la sera», annunciò Fisher, salutato da grida di esultanza.
«Grazie, Fisher», disse Frank, con un gran sorriso. La prese per il gomito e la accompagnò verso un tavolo, fendendo la calca.
«Si incazzerà quando lo scopre», sussurrai a Fisher.
«Lui non confesserà mai a nessuno che non è riuscito ad acchiappare una donna sobria», ribatté con un’alzata di spalle.
All’estremità opposta della stanza la porta d’ingresso si aprì, lasciando entrare una folata di aria fresca. Fisher alzò gli occhi, poi incrociò il mio sguardo e indicò con il mento il nuovo arrivato.
«Martini del Narcisista», disse.
Fui costretta a sospingermi sullo sgabello per vedere a chi si riferiva. Una donna che, fasciata da un attillato tailleur bianco, spiccava come un giglio in un campo di fagioli.
Victoria.