Mentre eravamo nel ristorante la città si era coperta di nebbia. I contorni degli edifici avevano perso nitidezza, i marciapiedi erano diventati bui e lucidi. L’umidità trovò il mio viso e poi i miei riccioli, ma ignorai il freddo e mi incamminai. Volevo delle risposte.
Qualcosa mi diceva che René poteva essere ancora nel suo ufficio. I suoi abiti stazzonati e le pile di vecchie tazze di caffè sul suo tavolo mi avevano fatto pensare a lunghe serate di lavoro e a una vita sociale vissuta più fra i profumi che fra la gente. Quando spinsi la porta vidi che avevo avuto ragione. Alzò lo sguardo, sembrando quasi sconcertato di trovarsi in un posto reale e concreto. La stanza era pervasa dall’aroma di cioccolata calda, non del tipo acquoso e istantaneo come quello venduto nel bar della scuola ma quella vera e propria, come la preparava Colette: una tavoletta di cioccolato grattugiata in scaglie e poi sciolta nel latte fresco. Cercai un fornelletto, una pentola, ma c’erano solo boccette di vetro.
René registrò l’aspetto gocciolante dei miei capelli con un’inclinazione interrogativa della testa. Si guardò intorno, poi prese un tovagliolo di carta marrone e me lo passò. Era rigido e ruvido e non servì quasi a nulla, ma sorrisi per il gesto.
Mentre facevo del mio meglio per asciugarmi, le mani di René continuarono a giocherellare fra i flaconcini di aromi, spostandoli come pezzi degli scacchi, come amici. Mi chiesi cosa gli stessero dicendo. In quel momento avrei dato qualsiasi cosa per riuscire a udire le loro storie.
Posai il tovagliolo. «Mi può raccontare qualcosa dei miei genitori?» domandai. «Mi piacerebbe conoscere la verità.»
Si guardò intorno come se stesse cercando di decidere cosa dirmi di preciso. «Sai», ribatté dopo un po’, «credo che uno degli aspetti più affascinanti dei profumi sia come cambiano con la chimica della pelle di ciascuno. Ho sempre pensato a loro come verbi, non come nomi. La verità, ho scoperto, è molto simile.»
«Voglio saperla», affermai, ostinata.
Annuì, prese una delle boccette e ne osservò l’interno.
«Ho conosciuto tuo padre dopo l’università», raccontò, quasi come rivolgendosi all’essenza. «Era uno scienziato, trovava più facile parlare agli odori che alle persone. Credo li apprezzasse anche di più. Siamo diventati amici.»
Il suo sorriso era rivolto al passato, ma capii cosa provava.
«Tua madre lavorava nella stessa azienda», proseguì, volgendo lo sguardo su di me. «Le facevano creare profumi per foglietti da asciugatrice e saponette. Un totale spreco del suo talento, se proprio vuoi saperlo. Lei voleva tentare qualcosa di nuovo, mettersi alla prova, e io le parlai di un profumo che John aveva appena scoperto durante uno dei suoi viaggi. Li presentai, ma non perché si mettessero insieme. Non erano quello che si dice “un abbinamento naturale”.»
Annuii, pienamente d’accordo.
«Avrei dovuto capirlo, però», aggiunse in tono mesto. «Dubito di avere mai conosciuto due persone con la mente più irrequieta o un più forte timore dell’abbandono. Costituivano una combinazione potente, per quanto instabile. Credo che si siano amati, nei limiti delle loro possibilità.»
«E Nightingale?» chiesi.
«È stata un’idea di tua madre. Ha cominciato a parlare di macchine fotografiche Polaroid, chiedendosi perché non fare la stessa cosa con gli odori, catturarli e riprodurli dentro un’unica macchina. Era il tipo di sfida perfetto per John, semplice e insieme complesso. Lui ci ha lavorato per anni. Avrebbe potuto dedicargli tutta la vita.»
Ripensai a papà seduto al tavolo del nostro capanno mentre smontava la macchina, sera dopo sera. “L’ha fatto”, avrei voluto dire, ma mi rimangiai le parole prima che mi uscissero di bocca.
«Ma vedi», aggiunse René, «è qui che i tuoi genitori erano diversi. Ricordo tuo padre che metteva in guardia Victoria, spiegandole come le fotografie sbiadissero, quando erano appena state inventate. Temeva che potesse succedere la stessa cosa con la sua macchina. Voleva effettuare altri test, ma lei non intendeva aspettare. Continuò a lasciar cadere allusioni nelle orecchie giuste e di lì a breve si procurò la firma degli investitori. Quando John lo scoprì ne rimase sconvolto. Era come se lei avesse venduto lui invece della macchina.»
Ripensai all’espressione di papà quando aveva scoperto che non avevo mantenuto la promessa ed ero andata nella laguna. La sua fiducia era andata in mille pezzi. Per la seconda volta, compresi. Prima sua moglie, poi sua figlia.
René continuò. «Tuo padre minacciò di dire agli investitori che la macchina non era ancora pronta, ma Victoria rispose che la cosa li avrebbe rovinati. Così lui prese uno dei prototipi e se ne andò, dicendo di voler eseguire dei test tutti suoi, il più lontano possibile da lei. Il prezzo per il suo silenzio era che la macchina doveva essere chiamata Nightingale.»
Ripensai alla favola dell’usignolo meccanico rotto. “Lui lo aveva sempre saputo”, pensai. E se René aveva ragione, tutti quegli articoli su papà – persino la storia raccontatami da Victoria – si sbagliavano: a causare la loro rovina non era stato il suo ego, ma quello di mia madre.
«E io?» chiesi.
Scosse il capo. «Victoria scoprì di essere incinta dopo la partenza di John, ma nessuno sapeva dove fosse andato. Alla fine lo rintracciai nello Sri Lanka, e tornò appena prima che tu nascessi. Lei quasi non gli permise di vederti. Disse che eri sua, non di John.»
«Allora perché non ha continuato a cercarmi?» Ero talmente assorta nelle mie riflessioni che rischiai di non udire le parole seguenti.
«La prima volta che l’ho visto tenerti in braccio ho capito», affermò René. «Tu eri la sua nota mancante.»
«Cosa?»
«Quello che lo completava non era Victoria, eri tu.»
L’amarezza di Victoria mi si riaffacciò alla mente: «Gli uomini ti tradiscono sempre», aveva detto. Qualsiasi cosa René avesse visto in mio padre a quel punto lo aveva visto anche lei: aveva percepito il senso di perdita nel vedersi sostituita. Sapevo cosa si provava, ma non avrei comunque mai potuto fare a Fisher quello che lei aveva fatto a papà.
E io ero stata solo una bambina – una bimba irreprensibile – ma avevo comunque raccolto quello che i miei genitori avevano seminato.
Io e René restammo in silenzio. Le sue mani ripresero a muoversi fra i flaconcini, sistemandoli e risistemandoli, formulando profumi senza mai togliere un solo tappo.
«Non le piacerà quello che mi ha appena detto», asserii.
«Probabilmente no», replicò, e mi rivolse un sorriso sghembo. «Ma ultimamente non sono così sicuro che questo sia il mio posto. Di recente mi ha contattato un amico scienziato, sta studiando l’influenza degli odori sui malati di Alzheimer. Mi sembra parecchio più interessante.»
Scossi il capo, tentando di chiarirmi le idee. «Se sapeva tutto questo, perché ha deciso lavorare per lei?» chiesi.
«Amo le essenze», dichiarò con un’alzata di spalle. «E nel settore dei profumi tua madre ha una delle menti più geniali che io abbia mai incontrato.»
«E questo è abbastanza?»
«Se vuoi lavorare con la genialità di solito sai che non avrai vita facile.» René cominciò a riporre le boccette, riordinando i fogli fitti di appunti.
«Sai», aggiunse dopo un po’, «la macchina di tuo padre era incredibile. Quei foglietti catturavano tutto quello di cui potevi sentire l’odore in un determinato luogo in un momento preciso. Non sarebbe stato lo stesso dopo un’ora, nemmeno dopo un minuto. Nessuno sceglieva cosa entrava o non entrava. Era la vita, tenuta nella tua mano. Un singolo istante.»
«Solo che svanivano.»
«Ma erano splendidi.»
Rimasi seduta lì, la mente raggomitolata nel ricordo di papà che spezzava un sigillo di cera rossa e lasciava uscire il mondo all’interno.
«Ha creato un foglietto odoroso di te, sai?» disse René. «La prima volta che ti ha visto. Si è assicurato di infilarlo subito in una bottiglietta. Ha persino usato un colore di cera diverso così da non aprirla mai per sbaglio. Non pensare mai di non essere stata amata, Emmeline.»
«Di che colore era?» domandai.
«Cosa?»
«La cera.»
Si strinse nelle spalle. «Non ricordo. Azzurra, forse.»
Rividi la boccetta che volava nell’aria, cadendo verso l’acqua, e nel suo sibilo quasi impercettibile riuscii a sentire il mio cuore spezzarsi.
Fisher era dietro il bancone quando entrai all’Isola. Lo raggiunsi e gli cinsi la vita con le braccia, infilando il naso nell’incavo del suo collo e immergendomi nel suo odore. Non ci muovemmo per un intero minuto.
Izzy ci raggiunse.
«Per quanto sia dolce tutto questo», disse, «si dà il caso che qui gestiamo un bar.»
Alzai gli occhi. La sua espressione si fece più tenera.
«Mi faresti un favore portando fuori di qui questo ragazzo?» chiese, indicando con il pollice Fisher. «Stasera non è nemmeno di turno.»
Tornammo alle barche e ci infilammo nella cuccetta di Fisher. Ci avvolgemmo nella coperta a scacchi e nel buio gli raccontai cosa avevo saputo.
«Lei ha lasciato che tuo padre si prendesse tutta la colpa per Nightingale?» chiese.
«E non solo quello, temo. Qualcuno deve aver puntato il dito contro di lui.»
«Gesù, che freddezza», commentò.
Quando gli spiegai della bottiglietta con la cera azzurra lo sentii inspirare bruscamente. Il silenzio che seguì parve durare per giorni.
«Cosa vuoi fare?» chiese alla fine.
«Non lo so», risposi. «Non posso vivere con lei, adesso. Voglio soprattutto tornare alla baia.»
«Per sempre?» domandò.
«Non ne sono sicura. Per un po’?»
«Vengo con te.»
«No… non puoi. E tuo padre?»
«Non preoccuparti, non tornerò in quella casa. Non può costringermi, adesso.» Le sue mani erano distese sulla mia pelle, e io mi aggrappai alla loro calma rassicurante. «Inoltre è tempo che io veda mia madre», aggiunse.
Restammo sdraiati per ore in quel lettino accogliente a fare progetti. Io sarei tornata a casa di Victoria, avrei preso le mie cose e sarei rimasta sulla barca con Fisher finché non fossimo riusciti a prendere un pullman diretto alla baia. E poi chissà… Izzy voleva affidargli un ruolo di maggiore responsabilità. L’accenno di René alle ricerche sull’Alzheimer aveva aperto nuove possibilità nella mia mente.
E poi c’erano i nostri cari, il resort, l’isola. Sentivo la loro forza di attrazione intensificarsi a ogni dondolio della barca.
Parlammo fino ad addormentarci e l’indomani mattina ci svegliammo ancora abbracciati.
Aspettai di essere sicura che Victoria fosse uscita per andare in ufficio, non ero pronta a vederla. Non sapevo quando lo sarei stata. Fisher si era offerto di accompagnarmi ma gli avevo detto che dovevo farlo da sola.
Quando entrai nell’atrio del palazzo, Becky, la concierge, sedeva dietro il suo bancone. Cercai di sgattaiolare via inosservata, ma lei mi notò e mi rivolse un piccolo cenno di saluto con la mano mentre si allungava in avanti per rispondere al telefono.
Raggiunsi l’appartamento e senza altri incidenti entrai, sentendomi una ladra. Era splendido come la prima volta in cui l’avevo visto, a dispetto di cosa avevo scoperto in seguito. Mi guardai intorno cercando prove del tradimento di mia madre, ma quello che vidi fu la cucina in cui avevamo cucinato insieme, il divano su cui eravamo rimaste sedute a parlare fino a tarda notte.
Pensi mai agli odori come fossero colori?
Certo.
Lei aveva capito una parte di me che nessuno aveva compreso, dopo la morte di papà. Nemmeno Fisher. Mi aveva aperto la mente, insegnato tante cose.
“Ha fatto del male a tuo padre”, mi dissi.
Ma lo avevo fatto anch’io. Rividi la bottiglietta con la cera azzurra che volava nell’aria, il modo in cui lui aveva allungato istintivamente la mano verso il ricordo di quella bimba, quella che non lo aveva ancora tradito.
“Vai avanti, Emmeline.” Imboccai il corridoio ma in fondo vidi la porta leggermente aperta della camera di Victoria. Lei la teneva sempre chiusa, per rendere tutto più ordinato e tenere fuori la polvere, diceva. Dopo quel primo giorno vi ero entrata di rado.
Raggiunsi la porta e infilai la testa nella stanza. Il letto dava l’impressione che qualcuno avesse dormito sopra le coperte, un cassetto del comò era parzialmente aperto. Piccole cose, a meno che tu sapessi della propensione all’ordine di Victoria.
La parete di quadrati con i loro flaconi di profumo, però, appariva impeccabile come sempre. Lei aveva dimenticato di tirare le tende e il liquido nelle boccette scintillava alla luce del sole, attirando il mio sguardo. Rammentai quando mi aveva parlato del museo dei profumi di Andy Warhol, come li usava perché lo aiutassero a rievocare periodi della sua vita, come ognuno di essi racchiudesse ricordi, avvenimenti.
«Le persone mentono, Emmeline», aveva detto papà, «ma gli odori non lo fanno mai.» Attraversai la stanza fino a trovarmi di fronte alla parete delle essenze.
«Raccontatemi una storia», dissi loro. «Per favore.»