LA BOCCETTA

In fondo al mio cassettone trovai la boccetta di mio padre. La tirai fuori e la tenni fra le mani, il foglietto odoroso arrotolato all’interno, il sigillo di cera verde che cominciava a creparsi. L’ultimo frammento di noi.

“Vieni da me”, lo sentii sussurrare.

Quante volte avevo tenuto in mano quella bottiglietta negli ultimi sei anni, bramando di poter tornare alla nostra vita? Quante volte mi ero trattenuta e avevo lasciato intatto il sigillo?

Rammentai papà che bruciava il primo foglietto odoroso sbiadito, rimandandolo su nel cielo, rammentai il modo in cui la fragranza era scaturita dal fumo come un dono che non avevamo pensato di chiedere e sapevamo non avremmo ottenuto di nuovo. Come questo l’aveva resa preziosa. Quanta attenzione avevamo prestato, solo per quell’istante. Forse era sempre stata quella la lezione, il messaggio che i foglietti avevano sussurrato mentre restavano chiusi in quei cassetti sulle pareti. Mi chiesi cosa sarebbe successo se li avessimo ascoltati all’epoca. Se li avessimo lasciati uscire, lasciati vivere.

Eppure esitai. Se aprivo la boccetta nella mia mano il profumo all’interno si sarebbe mescolato con quel posto. Entrambi sarebbero cambiati, diventati parte integrante l’uno dell’altro.

Ma poi capii che desideravo anche quello.

piccolo fregio usato per separare

Spezzai accuratamente il sigillo, ascoltando il sibilo del vetro mentre estraevo il tappo, il fruscio della carta mentre il foglietto mi si srotolava fra le dita.

Andai in cucina e presi la ciotola di ceramica bianca che io e Victoria usavamo per le insalate. Vi adagiai il rettangolino di carta, accesi un fiammifero e lo accostai a uno degli angoli. Cominciò a scintillare, poi a bruciare.

Victoria mi raggiunse.

«Ho sentito odore di fumo», disse, e io indicai la ciotola. Intravide il foglietto odoroso e scoppiò in una risata resa secca dall’ironia.

«In pratica è tutto quello a cui servono, ormai.»

«Aspetta», dissi. Inarcò un sopracciglio ma rimase dov’era.

Nella ciotola bianca la carta prese fuoco, bruciando come un fiore disperato, sbocciando e morendo allo stesso tempo. I suoi profumi giunsero a cavallo di volute di fumo, avviluppandomi.

«Ci sei mancata.»

Annusai, e la cucina di Victoria scomparve intorno a me. Era prima mattina nel capanno, pieno inverno; sentii l’odore della stufa che lavorava per tenere a bada il gelo. Papà aveva nutrito il lievito madre, il cui aroma pungente gareggiava con il profumo tiepido di fondi di caffè. Sentii l’effluvio del mio tepore nell’aria mentre si levava dalle coperte che avevo scostato di scatto.

Ricordavo quella mattina. Era la prima volta in cui vedevo la macchina. Dovevo avere tre, quattro anni. Mi ero svegliata e avevo visto mio padre fermo al centro della stanza, una scatola fra le mani, brillante e magica. Ricordai di essere corsa da lui, i piedi nudi che formicolavano per il freddo.

«Che cos’è, papà? È bellissima.»

E lui aveva messo da parte la scatola lucida e mi aveva sollevato nell’aria e aveva detto: «Tu sei la cosa più bella del mondo, piccola allodola».

piccolo fregio usato per separare

L’ultimo frammento di carta si ridusse in cenere. Tentai di rammentare cos’era successo in seguito, ma non vi riuscii. Papà mi aveva mostrato la macchina oppure eravamo usciti a spaccare legna?

Sarebbe stato logico che me lo ricordassi, ma non era così. Quello che ricordai era la sensazione delle sue braccia stretta intorno a me, la sensazione di essere amata in quel modo, prima che succedesse tutto il resto.

La cucina era immersa nel silenzio.

«Oh», sentii dire a Victoria, e quando mi voltai a guardarla aveva le lacrime agli occhi.