Non sento la tua voce ma so che stai ancora ascoltando, sempre. E allora te lo posso dire: a volte credo che non sarebbe successo niente di tutto questo se fossimo rimasti a Big Island, dove gli dèi sono ancora vivi. La dea del fuoco Pele con la sua forza incrollabile, che partoriva continuamente la terra nella lava, esalando fiato sulfureo verso il cielo. Kamapua’a, desideroso del suo amore, che usava le piogge e i fuggifuggi degli zoccoli dei porci per spaccare la lava, trasformarla in suolo fertile, come avviene su tutte le colline erbose di Waimea, fino al fondo delle valli, tutto intorno a dove sei nato tu. Oppure c’è Kū, dio della guerra, che un giorno si gettò dentro quello stesso suolo, trasformandosi da padre e marito che era in un albero, albero che desse frutti per la moglie e i figli che morivano di fame. Il primo albero del pane. Era un dio della guerra, ma era anche un dio della vita. A volte si presentava sotto forma di squalo...
Per cui mi chiedo se una parte di lui sia in te, e una parte di te sia in lui, così come il mare, la terra e l’aria qui sono tutti fatti della stessa sostanza degli dèi. Era questo che credevo, all’inizio: che tu fossi fatto della stessa sostanza degli dèi, che saresti diventato una nuova leggenda, in grado di cambiare tutto quello che faceva male alle Hawaii. L’asfalto che schiacciava le piante di kalo, le navi militari che ruttavano sporcizia nel mare, il fiume velenoso di soldi haole, California Texas Utah New York, fino a che niente è stato più come avrebbe dovuto essere, tra gli ingorghi e gli accampamenti dei senzatetto con le tende da spiaggia e le catene di ipermercati. Ero convinta che tu fossi capace di sconfiggere tutto questo.
Con vergogna adesso capisco che non sarebbe mai stato possibile. Ma ricordo un’occasione in cui mi sono sentita particolarmente piena di fede, ed è stato il giorno in cui io e tuo padre scoprimmo il tuo cimitero.
Te lo ricordi? Eri al terzo anno delle superiori, anche se come età avresti dovuto a malapena frequentare il secondo, e comunque avevi la media del nove, eri a capo del gruppo degli appassionati di scienze e suonavi l’ukulele come se avessi ingoiato l’intera storia hawaiana. E andava bene, tutto questo. Benissimo. Ma in verità, nonostante tutto l’orgoglio che ci davano le cose che facevi, restava comunque, almeno per me, un senso di fallimento. Dopo quel Capodanno ti avevamo spinto nella direzione sbagliata, aspettandoci che guarissi la gente che, avendo sentito di cosa eri capace, si presentava a casa nostra scavata dalla disperazione. Sì, pensavo, è così, comincerà con loro e poi il tutto crescerà.
E poi sì, ne traevamo vantaggio pure noi. I soldi extra che entravano li volevamo eccome – ne avevamo bisogno. Mi dispiace.
Quando hai smesso di esaudire quelle richieste ti sei chiuso ancora di più. Quasi tutto di te è diventato un segreto, e secondo me non sei mai tornato davvero fra noi. Anche questo siamo arrivati a capirlo dopo quel giorno al cimitero.
Te lo ricordi il cimitero? Io sì. Un raro giorno in cui sia io che tuo padre eravamo a casa il pomeriggio dopo la scuola: ci siamo accorti che eri uscito e non eri più rientrato.
«Ho visto che prendeva lo stesso sentiero che prende sempre» ha detto Kaui scrollando le spalle, quando le abbiamo chiesto dov’eri.
Era tardi. Ti volevamo a casa. E allora abbiamo imboccato anche noi il sentiero. Girato l’angolo e dall’altra parte della strada rispetto a casa nostra, il sentierino di terra battuta scendeva in mezzo a delle siepi spelacchiate fino a un campo aperto. In un canale sulla sinistra scorreva un filo d’acqua fangosa, e al di là di quello c’era una recinzione che dava sui polverosi spiazzi posteriori di una serie di autofficine e magazzini industriali. Sul sentiero, che proseguiva dritto fino a un gruppetto di alberi in lontananza, sbocciavano odori come di tonno. Lungo il bordo, mentre andavamo, abbiamo visto uno dopo l’altro tanti piccoli tumuli di pietre, ciascuno più nuovo di quello precedente. Ma in realtà non erano fatti tutti di pietre: erano irti e luccicanti di ingranaggi da bicicletta, pezzi di motore di automobile, tubi a gomito abbandonati. Alcuni erano già coperti di erbacce.
«Che roba è?» ho chiesto a tuo padre. Lui si è accovacciato accanto a uno dei tumuli.
«A me sembrano tombe» ha detto, come già immaginavo che avrebbe fatto.
«Augie» ho detto io.
«Sì, lui sta qui» ha detto tuo padre. «Da qualche parte».
Si è voltato verso gli alberi in fondo al sentiero. Dalla zona industriale è arrivato un rumore di metallo che tagliava il metallo, lo schianto di una pedana di legno che cadeva a terra.
Ci siamo rialzati e abbiamo proseguito lungo il sentiero, con le tombe che si succedevano a intervalli regolari, mucchietti di pietre e rottami metallici che ci arrivavano al polpaccio. L’ultimo tumulo prima di arrivare agli alberi aveva in cima un robot di plastica mezzo sepolto che avevi costruito tu, uno dei tuoi incredibili exploit nelle ore di scienze alla Kahena. Il robot era di un azzurro scolorito dal sole, e raschiato dalle zampe degli animali.
Mi sono chinata a toccarlo. «Questo è di Nainoa» ho detto a tuo padre. Sembrava che sull’interno delle braccia del robot fossero rimaste attaccate delle crosticine brune di sangue. L’odore che veniva dal mucchietto di pietre era perlopiù un odore di sassi, ma sotto, leggerissimi, c’erano accenni di vecchio cuoio bagnato e ovatta ammuffita.
«Anche prima mi pare di aver visto roba che proveniva dal nostro garage» ha detto tuo padre. «Una vecchia catena della sua prima bici».
Ci eravamo avvicinati quanto più possibile agli alberi senza ancora addentrarci. Ha cominciato a girarmi la testa.
Nel boschetto era meno buio di quanto mi aspettavo, gli alberi erano bassi e il sole ci passava in mezzo. Mentre camminavamo la sensazione di vertigine che avevo provato si è espansa, scendendomi dal cranio lungo le vertebre e la gola, fino al petto. Mi sono sentita gli occhi annebbiarsi, sfocarsi, e quando li ho riaperti di nuovo per bene ho preso subito tuo padre per mano, come se rischiassi di riempirmi troppo della sensazione che provavo e volare via.
Ci siamo fermati. Dall’altro lato degli alberi c’era una radura e tu eri lì, seduto sull’erba, a gambe incrociate, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le dita che accarezzavano l’aria in mezzo alle caviglie, pareva stessi aspettando qualcuno che ti venisse a prendere all’uscita di scuola.
«Grazie a Dio» ha detto tuo padre. «Per un attimo ho pensato che stesse lì a toccarselo».
Gli ho ordinato di piantarla, cosa che con tuo padre non funziona mai.
«Vabbè, ma è normale, io all’epoca avevo degli amici che lo facevano. Te l’ho raccontato di quando John-John ha preso il suo cane e ha provato a...».
«Augie, sta’ zitto».
In cielo è successo un casino. Una sagoma scura è piovuta giù da un’apertura fra i rami degli alberi, sbatacchiando le ali e roteando, ed è andata a schiantarsi per terra proprio accanto a te. Una piuma ha svolazzato nell’aria. La sagoma si è rialzata – ho visto che era un gufo – e si è trascinata verso di te, arrancando di qualche passetto malfermo prima di crollare ai tuoi piedi, petto in su. Abbiamo guardato quel petto gonfiarsi e sgonfiarsi, sempre più lentamente.
Tu hai chiuso gli occhi e l’hai toccato.
«Ma sta...?» ha detto tuo padre.
Il respiro del gufo ha rallentato ancora, e poi ancora. Era un esserino talmente leggero. Il viso ti si è contratto e imbronciato, del sudore ti è scivolato lungo la mascella. Il mio senso di vertigine è aumentato. Ero senza peso. Ero in cielo che battevo le braccia, solo che non erano braccia, erano i muscoli snelli e le vele spiegate di un paio di ali coperte di piume. Volavo in cielo come un missile, era tutto azzurro ovunque, tranne le creste gibbose delle Ko’olau che si andavano rimpicciolendo sotto di me. Tutto era aria, frangiata di luce d’oro, e salivo verso il sole come se fossi su un ascensore velocissimo, prendendo quota ed espandendomi, finché tutto ciò che vedevo non è scoppiato come una bolla delicatissima.
Ero di nuovo in mezzo agli alberi, accanto a tuo padre, e fra le tue mani il gufo aveva smesso di respirare. Senza muoverti dalla tua posizione, hai tirato su il gufo morto per l’ala e hai risbattuto sul prato tutto il corpo, con forza. Una zampa mezza storta ha ciondolato nella direzione sbagliata.
«Merda!» hai gridato a un tratto, con la voce tremante e spezzata, la vera voce di un ragazzino. Ti sei preso la testa fra le mani e hai urlato rivolto a terra.
«No» ha detto tuo padre, lanciandosi di corsa fuori dal nostro nascondiglio, con uno scrocchiare di rametti, prima che potessi fermarlo. «No!».
Sentendo il rumore ti sei voltato, col viso arrossato e sporco di moccio. Mentre tuo padre ti veniva incontro tu hai freneticamente indietreggiato.
«Non mi toccare» gli hai detto, e tuo padre è rimasto impietrito nella sua posizione accosciata, con le braccia tese per abbracciarti. Ci siamo guardati negli occhi per un attimo, poi io li ho puntati di nuovo sul gufo. Un’ala sporgeva dalla massa molle di piume, e qualche ciuffo di lanugine ondeggiava quando si alzava il vento. Non ero affatto triste, come mi sarei aspettata; viceversa, mi sentivo riecheggiare dentro le sensazioni e le visioni di poco prima, quel volo dorato.
«Volevamo solo essere sicuri che stessi bene» ha detto tuo padre.
Tu ti sei alzato, ti sei avvicinato al gufo.
«Nainoa» ho detto, perché mi sembravi piccolo e colpevole di qualcosa, coi capelli fra il nero e il marrone più corti di tuo fratello e con la riga da una parte che ti facevi sempre, e portavi ancora la polo bianca e i pantaloni blu della divisa scolastica, con il braccio destro ti tenevi il bicipite del sinistro, penzoloni. «Tutto bene?».
«Sì, certo» hai detto. È stato allora che ho visto la paletta, evidentemente l’avevi presa dal garage. L’hai strappata da terra e ti sei messo a scavare.
«Ti serve aiuto?» ha chiesto tuo padre.
E tu: «Non mi puoi aiutare».
E allora tuo padre è tornato da me. Non siamo rimasti a guardarti seppellire il resto. Non ci sembrava il caso.
Ci siamo fermati, fuori dal boschetto, accanto a uno dei tumuli di pietre.
«Hai provato anche tu una sensazione strana, prima?» ho chiesto ad Augie.
«Mi sembrava di volare» ha risposto. «E di finire praticamente dritto dentro il sole».
Io stavo giusto cominciando a mettere a fuoco quello che avevo provato e visto. «Augie, santo Dio, ma da quanto tempo è che vede cose di questo genere? Che fa cose di questo genere?». Avrei voluto contare le sepolture, calcolare di quanti animali avevi condiviso l’ultimo respiro, quante volte avevi provato, senza riuscirci, a fare la differenza. Chissà quante altre cose vedevi e sentivi senza di noi, andando a sbattere continuamente contro un muro. L’idea che fossimo in grado di aiutarti ad affrontare questo momento, a guidarti verso ciò che saresti dovuto diventare, era una totale assurdità; così come tutte le cose che ti avevamo chiesto di fare per noi, in casa, e ai vicini disperati a cui ti avevamo dato in pasto, alle storie che ti avevamo raccontato su quello che pensavamo che fossi. Ce ne stavamo lì fermi, e mi sono sentita sgorgare questa cascata di pensieri.
«Uso quello che trovo» hai detto. «Quando non ci sono abbastanza sassi».
Ci avevi raggiunti mentre eravamo tutti presi a pensare. Avevi altre cose da dire, e che ti avessimo fatto domande o meno non importava: hai continuato a parlare. Agitando la paletta verso la tomba che stavamo guardando. «Questo era un cane» hai detto. «Un bastardino, non so bene che misto di razze fosse».
Hai detto che l’avevi trovato una volta che stavi cazzeggiando lungo il canale, tirando sassi sul pelo dell’acqua e prendendoti una pausa da tutto. Il cane era stato investito da una macchina. Probabilmente uno dei tir o degli enormi mezzi da cantiere che facevano sempre su e giù per il canale sferragliando e tremando. Dopo l’incidente il cane si era trascinato, tutto rotto com’era, fino alla radura. Posso solo immaginare la scia gelatinosa di interiora che avrà lasciato a terra.
Hai detto che avevi provato a sistemarlo, che quando ce l’avevi avuto fra le mani per la prima volta avevi percepito qualcosa di importante: tutti i punti rotti del suo corpo. Era come un puzzle, hai detto, e bisognava solo rimettere insieme i pezzi. Ma quando ti concentravi su un punto, un altro cominciava a morire. Poi ti occupavi di quel punto e la parte che avevi sistemato cominciava a deteriorarsi, e così via, finché non avevi perso la battaglia. «Alla fine sono proprio diventato quel cane» hai detto, e hai cominciato a rabbrividire. «Stavo correndo su una strada luminosa. Battevo le zampe sul fango, ero un nodo scattante di muscoli. Mi sembrava di essere scemo di felicità... Non lo so... Correvo, correvo, correvo, ma tutto ha cominciato ad affievolirsi sempre di più, finché non sono rimasto semplicemente... sospeso nel buio».
Avevi seppellito il cane in quel punto e a volte tornavi a fargli visita. Hai detto che ti faceva sempre stare meglio, sentire più leggero, come se ridiventassi il cane in corsa.
E starsene lì era esattamente la stessa cosa. Anni dopo quel campo sarebbe stato recintato e la recinzione sarebbe diventata un muro e il muro sarebbe diventato un altro edificio, adibito alla produzione e allo stoccaggio del cemento, e il cimitero è andato perduto, è finito sotto le fondamenta. Ma io me lo ricordo così com’era allora.
Hai spiegato che dopo il cane erano venuti altri animali. A piccoli gruppi o singolarmente, avvelenati dall’antigelo, sfondati dagli incidenti stradali e rosi dal cancro, con le ultime forze si trascinavano lì, ad aspettarti. Per donarti le loro ultime scintille.
«Mi dispiace» ho detto.
«Non so che farci» hai detto tu. «Continuo a fare casino».
Augie ti ha posato una mano sulla spalla. «No, non è vero» ha detto.
«Che intendi?» hai chiesto tu.
«Sembra molto felice, no?» ti ha chiesto Augie. «Quel momento finale. O quantomeno, a me lo sembra».
Ma tu hai scosso la testa. «Devo cominciare a sistemare le cose.
«Devo sistemare tutto» ti sei corretto.
Io e tuo padre avevamo passato notti intere, dopo il fatto degli squali, a chiederci cosa sarebbe successo, cosa saresti diventato. Credo che quel giorno del cimitero sia stata la prima volta che abbiamo capito veramente l’entità del tuo potere. Se tu appartenevi più agli dèi che a noi – se eri qualcosa di nuovo, se dovevi ricreare completamente le isole, se eri tutti gli antichi re raccolti nel corpo di un ragazzino – allora era ovvio che non potevo essere io a guidarti verso il tuo pieno potenziale. Il tempo che potevo passarti vicino come madre era l’equivalente di quegli ultimi rantoli del gufo, e ben presto avresti dovuto posare gentilmente il mio amore, ripiegarlo e seppellirlo nel terreno della tua infanzia, e andare oltre.
Ricordo che mentre eravamo seduti sull’erba ti sei appoggiato all’indietro contro il petto di tuo padre. Sull’acqua del canale avevano cominciato a stendersi le onde, ma molto oltre, in lontananza, si stavano accendendo piano piano le luci di Honolulu. La sensazione dorata dell’ultimo volo del gufo mi rimase dentro a lungo, anche se la visione era svanita nel buio già da un pezzo.