Riconobbi la casa anche se non l’avevo mai vista prima, l’avrei riconosciuta anche se non ci fossero state le due macchine della polizia, tanto erano tutte uguali ultimamente (le case in cui andavamo): lenzuola alle finestre al posto delle tende, pareti di assicelle di legno mezze sepolte dall’immondizia, pezzi unti di motore sparsi nel cortile dissestato.
«Mi piace come hanno sistemato la casetta» disse Erin, spegnendo il motore dell’ambulanza. Spense anche i fari ed entrambi tirammo fuori dalla scatola un nuovo paio di guanti di lattice azzurri. Io feci il giro per prendere l’attrezzatura da dietro, lei si avviò verso il poliziotto sulla veranda, parlandogli in tono annoiato, preparandosi allo stato dei traumi cranici che a quanto pare ci aspettavano all’interno.
Le radio della polizia gracchiavano, a parte quelle c’era silenzio. L’agente sulla veranda le fece un inchino, aprì appena appena la porta con la punta di un piede. «Ce n’è uno in salotto accanto al caminetto» disse. «L’altro sembra che abbia avuto una colluttazione in cucina, prima di arrendersi».
Erin salì i gradini scricchiolanti ed entrò spalancando la porta, un odore plasticoso come di pannolini sporchi, una vampata d’aria calda. Io entrai subito dietro di lei.
Dentro casa la luce era fuligginosa, il pavimento di assi graffiato e solcato dall’usura di anni, c’erano modanature al soffitto e lampadine senza paralume. Vicino a un divano componibile lercio c’era il primo paziente, scheletrico e gialliccio, con un poliziotto chino sopra di lui che gli martellava il petto col massaggio cardiaco.
Erin si gettò a terra accanto al poliziotto, che capì e tirò via le mani come se fosse ora di andarsele a lavare. «E il secondo?» chiese Erin, già mentre cominciava il massaggio, e il poliziotto indicò col mento verso la cucina. Io andai, girando l’angolo, in direzione della puzza: era come se un gatto avesse pisciato dentro un frigorifero abbandonato. La parete sopra i fornelli era annerita, come se l’avesse bruciacchiata lo scoppio di una bomba, e a terra c’era un assortimento di arnesi da cucina inservibili, buste dell’immondizia, rifiuti organici, e nell’angolino in fondo, vicino al frigo, il terzo poliziotto stava convincendo un tossico ingrigito e allampanato a sedersi su uno sgabello.
Il tossico respirava come se fosse appena scampato all’annegamento, ma respirava, da dietro le radici aggrovigliate della barbetta da capra, il viso punteggiato di croste insanguinate.
«Che cazzo è ’sta festa» disse.
Io ero confuso e mi voltai verso il poliziotto. «Lui mi pare vivo» gli dissi.
«È questo il problema» mi rispose, col naso rosso e gonfio che sembrava essersi appena beccato un cazzotto. Tenendo il tossico per un lembo della camicia gli diede uno strattone per farlo sedere più dritto.
«E ce ne sono altri, di problemi?».
«Il mutuo da pagare, i figli, le tue domande» disse il poliziotto. Sembrava stesse solo aspettando che me ne andassi. «Magari vai a dare un’occhiata al suo amico in soggiorno».
Ma mentre lo diceva io ero già uscito, tornando nella stanza da cui venivo, e per la prima volta vidi la mazza da baseball per terra, il nastro adesivo intorno all’impugnatura annerito dal sudore del palmo, la punta rosa e cosparsa di ciuffi di capelli. C’erano ovunque incarti di hamburger appallottolati, una libreria vuota che pendeva ubriaca contro un angolo, e c’era Erin al lavoro su quello che era stato picchiato, con le piastre del defibrillatore nelle mani. Il paziente era ancora steso supino, con la gamba sinistra piegata male, tutta da un lato e troppo alta. Occhi chiusi, le labbra un bocciolo bluastro.
«Ehi, ispettore, ti va di darmi una mano?» disse Erin, impugnando le piastre, e io già avevo un’idea. Mi buttai in ginocchio, non c’era battito, neanche un minimo, né alla gola né al polso.
«Il defibrillatore non funziona perché il cuore non gli batte» dissi. Adesso il puzzo di sudore e urina, la camicia incrostata già tirata su fino alle ascelle delle braccia aperte, uno schizzo di gel sulle costole, un altro sui pettorali.
«L’ho perso» disse lei, mettendo giù le piastre. «Ma il battito c’era».
«Ora non più» dissi io.
«Lo so».
«Le vie respiratorie sono libere?».
«Vaffanculo, va’» disse lei. «Non sono mica scema. È stata la mazza a ridurlo così».
«Magari la roba che si era preso» feci io. «Riproviamo». Intrecciai le dita, gli posai il bordo del palmo sullo sterno e premetti, stando attento a evitare la xifoide e l’emorragia che poteva derivarne se gliela spezzavo. Il corpo: all’inizio era solo lui, un uomo, ma mentre gli premevo il petto mi si contrassero gli occhi e i denti, sentii l’ansito pieno di ossigeno di tutto ciò che gli si muoveva dentro, e poi fu come se mi si strizzasse il cervello. L’uomo era il lui che vedevo ma anche un lui che sentivo: sentivo la consistenza della pelle e i rotoli burrosi di grasso che c’erano sotto, la corsa e l’arresto di quello che poteva solo essere il suo sangue, come una lunga folata di vento, e tutto questo era soltanto una sensazione, non qualcosa che vedevo. Più in profondità c’erano altre sensazioni confuse, la più forte era un’urgenza spumeggiante, il corpo ansioso di cominciare a riaggiustarsi, ma anche quella arrivò e se ne andò così in fretta che ancora non riuscii a separare tutto il questo dal quello. C’erano dei colori che sentivo al tatto, aveva un fiume giallo catramoso di odio, figlio del crystal meth, che gli rombava nelle vene, e i ricordi frastagliati e rossi della rabbia che gli attraversavano il cranio come cumulonembi, colore che avevo già sentito tante altre volte – e nel mentre c’erano la verità delle mie mani, le compressioni sul petto, il sangue da spingergli in giro per tutto l’involucro che era il suo corpo. Io ero in ginocchio a cavalcioni del paziente, con le mani sul suo sterno, a premergli addosso il mio peso lasciandolo poi tornare su, uno due tre quattro cinque sei sette, e poi di nuovo, e di nuovo ancora. Lo schiocco liquido delle costole già rotte era come il ticchettio di un orologio. Qualcosa fece scattare una scintilla, ma di certo non erano le compressioni, era solo che stavo cercando, come mi capita sempre quando lo faccio adesso, cercando e tastando e provando a capire com’era fatta la ferita, nel momento in cui capivo come avrebbe dovuto essere fatto quel corpo. Penso che qualcosa fosse già cominciato...
Erin ripeteva il mio nome come una litania, con le dita conficcate nel mio deltoide destro, e mi resi conto che mi stava dando degli scossoni. Chissà con che occhi l’avrò guardata, mentre mi staccavo le sue mani di dosso.
«Sono passati cinque minuti da quando hai cominciato, supereroe» disse. «Non è cambiato nulla. Dobbiamo portarlo via».
Avevo il fiatone, come ce l’aveva lei prima, e sentivo chiazze umide e fredde di sudore sulla schiena e sul petto. Ma il corpo del tossico era in pace: era tutto finito, no? I poliziotti videro che ci staccavamo dal cadavere, quell’attimo immobile di silenzio in cui tutti capiscono.
«Portiamolo via» ripeté Erin.
Uscì e tornò con la barella, trascinandola senza riguardi su per le scalette della veranda insieme a uno dei poliziotti, sonori rintocchi metallici ogni volta che colpiva i gradini. Io continuai con le compressioni finché non lo mettemmo sulla barella, e poi lo riportammo giù dalla veranda e lo caricammo nel vano spalancato dell’ambulanza. Erin montò dietro insieme alla barella e aveva giusto iniziato a chiudere uno degli sportelli quando il paziente si alzò a sedere tranquillo, sputò via la mascherina di plastica che Erin gli aveva messo davanti alla bocca per fargli la respirazione artificiale e disse: «Dio, Dio, Dio».
Restammo impietriti: Erin protesa verso lo sportello ancora aperto, io che stavo per chiudere la sicura dell’altro, guardammo dall’estremità del veicolo verso il corpo che si era alzato sulla barella lì in fondo. Anche da quella distanza vedevo che la pelle non aveva più quel colorito giallo-bluastro, che le rughe si facevano meno profonde, i capelli più folti: era come se fosse ringiovanito di cinquant’anni. Sembrava, in poche parole, una persona in salute. Si piegò in avanti e rovesciò un’ondata di vomito sul lenzuolo candido che gli copriva il grembo.
Rimase a bocca aperta. Guardò lo schifo che aveva addosso, poi guardò noi, si asciugò la mascella col polso. Si ridiede un’occhiata in grembo, dove il lenzuolo si era gonfiato in una piramide con un bel bozzo in cima.
«Mi sa che m’è venuto duro» disse. «Che è successo?».
Era l’ultima chiamata del turno. Non sapevamo neanche se era il caso di portarlo comunque in ospedale, dato che all’improvviso tutti i valori delle funzioni vitali erano perfetti, non c’era niente da segnalare, e del resto cosa avremmo potuto raccontare senza che ci spedissero tutti e due alla neuro? Ma sembrava anche peggio lasciarlo coi poliziotti, che stavano già infilando l’altro tossico sul sedile posteriore di una macchina, pronti a sbarazzarsi di lui e tornare alla scrivania, ai rapporti. Quindi portammo il risorto all’ospedale con un solo agente a farci da scorta e spiegammo la situazione al personale del pronto soccorso, e la risposta fu: «Se non è morto può mettersi in fila come tutti gli altri». Erin disse: «Grazie a Dio» e mentre eravamo seduti in sala d’aspetto il tossico si mise a chiedere una sigaretta a tutti quelli che ci passavano davanti, finché un’infermiera non disse: «E basta un po’, Cristo santo» ne tirò fuori una da un cassetto dietro la finestrella della caposala e gliela mise in mano come fosse un croccantino per un cane. Io ed Erin ci muovemmo per tornare all’ambulanza e vedemmo il lento battito di ciglia del poliziotto e il naso che gli si arrossava nel momento in cui capì per quanto tempo ancora sarebbe stato responsabile del tossico. Noi firmammo i documenti, scendemmo nel parcheggio e ce ne andammo via.
Tornati alla centrale Erin pulì l’ambulanza, facendo l’inventario nella maniera più rumorosa possibile, senza dire una parola ma sbattendo qua e là rotoli di cerotto, forbici di emergenza e kit da intubazione, fra scrocchi, cigolii di zip e strappi ruvidi di velcro: mi stava ancora comunicando le sue opinioni. Dobbiamo davvero rifare questo discorso?, pensavo, e quindi aspettai, appoggiato alla fiancata dell’ambulanza, dietro gli sportelli aperti, la ascoltai armeggiare con un tubo per l’acqua e passarlo avanti e indietro, sentii il fruscio di una sacca che veniva ripiegata.
«Vado a sedermi da qualche parte» dissi come se gli sportelli non ci fossero. «Magari mi mangio una barretta di cereali al volo, o una cosa così».
Lei sbucò da dietro lo sportello per guardarmi. «Vai, vai a fare le tue cose». Agitò un polso nella mia direzione. «Tanto qua funziona sempre così».
«Almeno te lo porto un caffè?» dissi io. «Hai l’aria stanca».
«Anche tu».
«Ma io non sono stanco» dissi.
«Certo. Dimenticavo, il signor Invincibile».
«Ho fatto qualcosa che ti ha dato fastidio?» chiesi. Ero sempre io quello che doveva fare l’adulto in queste situazioni, anche se Erin aveva due anni più di me.
«Io sapevo benissimo che a quel tossico gli si era fermato il cuore» disse. Scomparve di nuovo dietro lo sportello, poi chiuse una fibbia, e il suono terso dello scatto riecheggiò nella piattezza mattutina del garage, dove per un attimo ci ritrovammo tutti soli, con gli altri paramedici e soccorritori negli spogliatoi o in cucina. «E sapevo benissimo che c’era un grosso rischio all’arteria femorale quando stavamo tirando fuori il motociclista» continuò, «come sapevo benissimo che non si doveva fare l’insulina a quel tizio che aveva bevuto ed era ipoglicemico. Ma poi arrivi tu». Incrociai le braccia e aspettai, era sempre meglio lasciarla sbollire, c’era addirittura un che di godibile, quasi di saporito, nella sua furia, quando partiva davvero, quando mi dava del secchione col moccio al naso o del maschietto sapientone, con tutta la mia arroganza e le mie spiegazioni spocchiose, lei faceva quel lavoro da molto prima di me e perché facevo tanta fatica a ricordarmelo. Si affacciò di nuovo da dietro gli sportelli.
«Devi sempre dire la tua, eh?».
«Solo quando ho ragione» risposi io.
«Ci risiamo» fece lei. Finalmente mi guardava negli occhi, con le guance in fiamme, la gola tesa che le pulsava. Aveva la pelle intorno agli occhi del colore di un livido. «Non vedo l’ora che cominci la specializzazione in medicina». Si avviò verso l’entrata laterale del garage, il corridoio con i bagni dove dopo ogni turno ci lavavamo via tutti i resti delle persone che avevamo toccato quel giorno.
«Non lo so come ha fatto a riprendersi, Erin» dissi, mentendo, a voce abbastanza alta perché mi sentisse. «Era praticamente andato. Non lo so come ha fatto».
Lei si fermò, ma continuò a darmi le spalle.
«Però tu stavi seguendo la procedura giusta» dissi. «Le compressioni toraciche».
«Non è vero» disse lei. «Tu hai fatto qualcosa».
Mi girai verso l’ambulanza, ripensai a tutte le ore puzzolenti, urlanti, sgocciolanti che ci avevamo passato dentro. Che cosa ho fatto, Erin? Io per primo stavo ancora tentando di capirlo, sapevo solo che quando toccavo un corpo danneggiato mi facevo un’idea di ciò che quel corpo avrebbe dovuto essere, e quell’idea diventava il muscolo che produceva un battito cardiaco, o il rinsaldarsi delle ossa, o le scariche elettrochimiche che tempestano le sinapsi. Avevo sentito che il corpo del tossico voleva aggiustarsi, e poi il corpo aveva fatto esattamente quello, scacciando l’overdose dal proprio sangue e dal proprio cervello.
«Io non ho fatto altro che il mio lavoro» dissi. «Ho seguito la procedura».
Sapevamo tutti e due che lei aveva commesso un errore con le piastre. Gliel’avevo vista negli occhi, la contrazione di panico nel capire che me ne ero accorto, tanto quanto lei. «E tu hai fatto quello che dovevi fare» dissi. «Come spiegherei a chiunque me lo chiedesse».
Mi dava ancora le spalle, ma la vidi rilasciare il fiato.
«Ok» disse.
«Vatti a fare una dormita» dissi io.
«Vattene affanculo» disse lei, ma sentivo che nella voce le era tornata la tranquillità.
La notte ancora mi riecheggiava in testa, il puzzo di piscio di gatto bruciato della casa dei tossici, l’aria di odio e di rabbia fra gli uomini che c’erano dentro, l’appiccicume della morte e dell’abbandono. E poi qualcosa di più profondo, la tremante consapevolezza di ciò di cui stavo diventando capace. Adesso ero a casa a contemplare il frigo aperto, solo condimenti e un barattolo mezzo vuoto di rigatoni al formaggio. Con un nodo allo stomaco che mi dava la nausea. Chiusi il frigo e guardai i manuali di biologia anatomia chimica sopra cui stava appoggiato il televisore di terza mano piazzato in un angolo.
Tornando a casa avevo sentito uno spumeggiare sotto pelle, scoppiettavo di emozione per quello che avevo fatto, ma adesso, fermo in mezzo all’appartamento, con l’energia che ormai era tutta scivolata via portando con sé un sacco di forza, l’unica cosa che riuscii a fare fu spostarmi verso il letto, con le gambe a ogni passo più lente, la sensazione di respirare sott’acqua. Mi tolsi un po’ di vestiti prima di accasciarmi sul letto e sprofondare, grazie alla morbidezza del materasso, nel buio.
Quando mi svegliai era chiaro che era passato un po’ di tempo. L’aria non era quella pungente del mattino ma quella più densa del pomeriggio, fuori dalla finestra la luce già si assottigliava. Guardai l’ora, le tre e mezzo, mi voltai a guardare il comodino, dove vidi una striscia di provini fotografici, me e Khadeja e sua figlia di sei anni, Rika, ammassati come un mazzo di fiori davanti all’obiettivo della macchinetta, spazzati dalla luce bianco-e-nera. La pesantezza che avevo addosso era scomparsa: c’era solo quel formicolio di sottofondo, tutte le idee su ciò che avevo visto. Quando mi alzai a sedere sul letto e vidi la verità, fioca e spoglia, dell’appartamento in cui abitavo, l’emozione che avevo provato diventò tutt’a un tratto qualcosa di così incompleto, così compresso e solitario, che capii che dovevo uscire.
Mi feci la doccia e mi vestii e presi un autobus per l’ufficio di Khadeja.
«Sei qui fuori?» chiese Khadeja, dopo che l’avevo chiamata dalla strada.
«Solo un attimo» dissi. «Scendi».
Il palazzo era tutto vetro e acciaio, lucido e di un’imponenza banale, ma dall’atrio alto tre piani la vidi arrivare. Khadeja. L’esplosione della capigliatura afro raccolta in una coda a forma di pompon, gli occhi pieni di intelligenza allegra, la stoffa abbondante che le sventolava attorno alle larghe braccia, la tensione che le si disegnava sui polpacci a ogni passo ticchettante verso di me. Posso solo immaginare che nel vederla arrivare le feci un sorrisone stupido, in quel momento ero strafatto di lei.
Erano cinque mesi che ci frequentavamo, ci eravamo conosciuti in un locale una sera che lei era al compleanno di un’amica e io mi stavo rilassando con altri due tizi del lavoro, dopodiché avevamo cominciato a vederci inizialmente in orari strani, per bere qualcosa di primo pomeriggio o a pranzo durante la settimana, il perché lo capii dopo, quando alla fine mi fece salire a casa sua e conobbi Rika. E funzionava, funzionavamo, quindi avevamo continuato; ma adesso davvero pensavo che il rapporto che c’era fra noi mi autorizzava a fare questo, a presentarmi al suo ufficio così di botto, senza preavviso?
«Che c’è?» mi chiese.
Mi ero aspettato uno sguardo infastidito e intento a esaminare bilanci e calcolare l’interesse composto, ma pareva sinceramente felice di vedermi. «Lo so che hai da fare» dissi, e lei scosse la testa.
«Festa aziendale» disse. «In onore di un altro trimestre in crescita».
«Pinzimonio in cui è rimasto solo il sedano» dissi io. «Bibite da supermercato e vino da stazione di servizio, qualche palloncino attaccato con lo scotch ai muri della microcucina».
Lei scoppiò a ridere. «Come fai a saperlo?».
Scrollai le spalle. «È uno studio di commercialisti».
«Stavano per cominciare a giocare a Pictionary».
«Pensi di riuscire a fregartelo un po’ di vino?» chiesi.
Cinque minuti dopo la sua borsetta scaldava una bottiglia di rosso dozzinale, e noi camminavamo per le strade verso i North Park Blocks, che portavano i segni di una recente veglia pacifista: mozziconi rattrappiti di candele posati su ogni superficie solida, poi cartelli ormai mollicci abbandonati delicatamente contro le statue e le zampe delle panchine. Basta studiare la guerra, dicevano, e alcuni dei cartelli più grossi erano stati riconvertiti a materasso dai senzatetto che vivevano nel parco.
«Non è il mio posto preferito» ammise Khadeja.
«Come fa a non piacerti?» dissi, provando a fare una battuta, col timore improvviso di rovinare la sensazione che avevo, invece di estenderla in modo che ci comprendesse entrambi. «Scusa. Non avevo nessun piano. Volevo solo vederti, tutto qui».
Questa semplice verità ci rasserenò, perché tutti e due, quando ci eravamo conosciuti, eravamo molto più grandi della gente che avevamo intorno, invecchiati dai fardelli che la natura ci aveva richiesto di portare – lei da Rika, che aveva avuto da giovanissima, io dalla mia fulminea carriera scolastica, dal lavoro che adesso stavo provando a fare – e in quella situazione era stato ancora più emozionante trovare qualcuno che capisse le circostanze reali, e quindi l’importanza di un tempo presente io tu noi stiamo facendo proprio questo che poteva esistere solo per poco, prima che ci toccasse ripiombare in quelle circostanze.
«Be’» mi disse con un lampo bianco di denti, aprendo le braccia. «Sono qui. Intrattienimi, signor Flores, e in fretta, se possibile».
«Allora» dissi io, spostandomi ancora più vicino a lei sui gradini del basamento della statua dove ci eravamo seduti, «lo sapevi che ho dei poteri?».
Lei si toccò i denti superiori con la punta della lingua, sempre sorridendo. «Ah, giusto, siamo nella fase in cui ancora abbiamo dei segreti. Vai avanti, vai avanti».
«È una cosa abbastanza semplice, in realtà» dissi, senza avere idea di come avrei continuato. «Ci vorrà del vino». Ci eravamo scordati il cavatappi, ma le feci vedere come smanettare col tappo fino a farlo cadere dentro il vino, e tutti e due bevemmo un sorso direttamente dalla bottiglia.
«Riesco a connettermi a certe cose che non vede nessun altro» dissi. Le misi una mano in fondo alla schiena e la feci spostare delicatamente verso di me, contro il mio fianco. «Ascolta» le sussurrai all’orecchio.
Rimanemmo in silenzio, e lei sentì il canto degli uccelli che pian piano emergeva, e che io avevo già sentito da prima per interi isolati, sopra il rumore della città più che sotto, per via di ciò che ero. Pensavo che non ci fosse modo di amplificarlo, ma glielo ripetei: «Ascolta» e il suono di ciò che stava in mezzo agli alberi ci arrivò forte e chiaro.
«Sembra che si stiano cercando» dissi io. «Ma se ascolti bene... nessuno si è veramente perso».
Khadeja era perfettamente immobile. Aveva gli occhi chiusi. Restammo in ascolto tutti e due, i richiami degli uccelli continuarono, energici e squillanti. Odore di corteccia bagnata, intenso e simile alla carta, dopo la recente pioggia.
Khadeja rimase così ancora un attimo, poi aprì gli occhi e mi guardò. «È proprio una cosa tua» disse. «Questa degli animali».
Io scrollai le spalle. «Forse».
Notai che lei non si era mossa, mi restava attaccata. «Sono seria» disse. «Magari sembra una conclusione un po’ affrettata, ma la prima volta che ti ho visto fare così – quando sarà stato, al secondo appuntamento forse, te lo ricordi quel cagnolino fuori dal ristorante, quella tipa tutta in giallo sbronzissima che cercava l’ascensore? – tu hai fatto così» disse. «Ti sei accovacciato e l’hai sfiorato appena con la mano. Stava dando di matto, quel cane, e quando sei arrivato tu si è talmente calmato che pareva l’avessero drogato. È stato in quel momento che ho capito che te la saresti cavata bene con Rika».
«Perché ho fatto una carezzina dolce a un cane, me la sarei cavata bene con tua figlia?» dissi. «Be’ sì, una conclusione parecchio affrettata».
E lei scoppiò a ridere. «Non lo dire a Rika».
Stringendo in una mano il collo della bottiglia di vino le feci cenno di scendere dal marciapiede. «Guarda» dissi. Indicai le enormi pozzanghere che si erano formate nel terreno fradicio, scarso drenaggio, e un grappolo di formiche che si erano addensate creando una palla bitorzoluta, ciascuna legata a una compagna senz’altro che l’odorato e il tatto per capire che bisognava sopravvivere, e che per farlo dovevano intrecciarsi in un tessuto così spesso e solido da essere idrorepellente, e tenersi a galla in quel modo fin quando possibile, anche se alcune sarebbero morte. Le stavo descrivendo tutto questo mentre eravamo seduti lì a bere dalla bottiglia il vino tiepido che sapeva di tappo, coi pezzetti di sughero che ci rotolavano sulla lingua. Tutti e due continuavamo a sputare le briciole per terra. Io stavo ancora parlando delle formiche. Mi chiedevo come sarebbe stato il mondo se avessimo avuto anche solo una frazione della loro forza, tanto da costruire coi nostri corpi una zattera su cui salvarci a vicenda...
«Ora basta» disse Khadeja e scosse la testa, pur continuando a sorridere. «Mi sembra sufficiente, signor Flores. Non sono venuta a un seminario di biologia e spiritualità».
Mi resi conto di quanto avessi parlato e subito mi imbarazzai. «Scusa» dissi. «Non volevo...».
«Stai zitto e basta» disse lei, «per un attimo». Poi piegò la testa e mi si avvicinò, le nostre labbra si trovarono, tante volte, finché non lasciammo il resto della bottiglia sugli scalini e cominciammo a riattraversare senza fretta il parco umido della pioggia primaverile. Avevamo costruito qualcosa, solo per il fatto di starcene seduti lì insieme, di vederci ripetutamente, e adesso la cosa che avevamo costruito riecheggiava fra le strade e i palazzi attorno a noi mentre passeggiavamo, tenendoci sotto braccio e così stretti che sembrava quasi avessimo creato delle nuove ossa che ci univano all’altezza delle costole.