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DEAN, 2008
Spokane

Alle sei di mattina le luci sono accese e noi siamo al lavoro, a caricare senza sosta. Scatole di cartone ovunque che rimbalzano tra vassoi metallici e piani inclinati, di sotto ingranaggi e cinghie di gomma, un sacco di ronzii e cigolii e urti. Queste sono le mie otto ore, caricare, caricare, caricare. Fai arrivare i pacchi dai nastri trasportatori al retro aperto dei furgoni, o se lavori proprio dentro il magazzino trasporti la roba su un muletto o sui carrelli, ammonticchiando i pacchi veloce e preciso con lo shtunk shtunk shtunk del cartone su cartone.

Addetto al carico merci, il mio ruolo è questo, ok?, ma siccome facevo anche l’addestramento come autista di furgoni – avevo pensato: mi becco più soldi e passo più tempo all’aperto – mi mandavano a fare qualche turno di affiancamento, per vedere come funzionano le consegne. Questo, quando?, ad aprile tipo. E ovviamente una delle prime consegne era proprio all’università, e io subito: «No, lì non ci vado». Carl, l’autista, mi fa: «Che cazzo dici?».

Da come mosse la bocca gli vidi il buco dove gli mancava un dente, tutto in fondo a destra dietro le labbra sempre screpolate dal freddo. Aveva una pelle da pirata, non si faceva la barba per giorni e giorni. Un haole pelato, tutto rugoso, che personaggio. La prima volta che avevo fatto affiancamento con lui, mentre sbavava l’ultima presa di tabacco da masticare in una lattina aperta di 7UP, mi aveva chiesto: «Tu che sei?».

E io: Che?

«Cioè a occhio sei nero, ma mica lo so. Hai gli occhi da cinese e i capelli come una che conoscevo, e quella era ebrea, mi pare».

Mi dissi che non era una buona idea dargli un destro in faccia, quindi risposi: «Sono filippino hawaiiano» la stessa cosa che dicevo a tutti, ovunque, tranne a casa.

Ora, al secondo turno insieme, ero sicuro che Carl già non si ricordava più cos’ero. Eravamo all’università, io ancora sul furgone, immobile sul sedile del passeggero. Avevamo parcheggiato sul retro del Centro studenti, dove arrivavano tutte le consegne, e Carl stava già andando ad aprire il portellone mentre io ero ancora lì a chiedermi se tra gli studenti che vedevo passare c’era qualcuno che conoscevo, o qualcuno che conosceva me, che era poi la cosa più importante.

«Aiutami a scaricare» disse Carl dal retro. «In due si fa prima».

Per un attimo pensai che magari potevo restarmene accovacciato nel furgone, rannicchiato per terra, ma sono alto quasi due metri e non c’è verso di nascondermi da nessuna parte. E comunque non mi piace nascondermi, perciò semplicemente quando gli studenti mi passavano accanto provavo a non guardare in faccia nessuno. Ma tanto nessuno faceva caso al furgone delle consegne – di certo non io quando studiavo lì – perciò ero più invisibile che mai. Aprii lo sportello e andai dietro ad aiutare Carl.

«Eccomi, ci sono» gli dissi.

«Vuoi anche una medaglia?» fece Carl, piazzando gli scatoloni più pesanti sul carrello che aveva preparato. Aveva la testa pelata tutta lucida di sudore.

«Una volta ero sempre qua al Centro studenti» dissi. «A mangiare qualcosa la sera tardi, roba così. Però qui all’ingresso di servizio non ci ero mai venuto».

«Sì, sì, la conosco la tua storia, superstar» disse lui. «La conosciamo tutti. Be’, adesso che ci sei all’ingresso di servizio» indicò col mento una delle scatole più grandi nel vano del furgone, «vedi di scaricare quella, va’».

Spingemmo il carrello verso l’entrata e Carl si mise a parlare di come si fa a diventare uno dei fattorini migliori: dài sempre retta a quello che dice il GPS perché il GPS ha sempre ragione, parcheggia anche a cazzo ma sempre il più vicino possibile all’ingresso, metti le quattro frecce e comincia a scaricare, e ricordati sempre, sempre, sempre, di chiudere a chiave il furgone prima di allontanarti a consegnare i pacchi. Più tempo riesci a risparmiare sul tragitto senza infrangere i limiti di velocità, più bonus ricevi nelle valutazioni mensili.

Spingemmo il carrello su per la piccola rampa dell’ingresso consegne, e Carl parlava ancora. Superammo i rivoli di latte che colavano dalla montagna di immondizia accanto agli scatoloni ripiegati e legati stretti, e Carl parlava ancora. Prendemmo il montacarichi sbatacchiante e cigolante fino al secondo piano, e Carl parlava ancora. Poi arrivammo alla sala di smistamento della posta, dove lavoravano quasi solo studenti, e ovviamente la ragazza e il ragazzo al tavolo mi riconobbero subito, anche se erano ormai passati due anni dalla mia ultima partita.

Una ragazza grassottella qualunque con le guance rosse di fard e i nei sul collo, e un ragazzo con i capelli tinti di rosa che cominciavano a scolorirsi, il naso a punta e due grossi orecchini sullo stesso orecchio. Me ne accorgo subito quando succede, ancora oggi. Prima alzano appena gli occhi come fossi un fattorino qualunque, poi c’è questo momento di stupore, della serie: Ma quello non è Dean Flores? Quel ragazzo fece perfino un sorriso. Come se non vedesse l’ora di finire il turno e andare a dire agli amici: Indovinate chi ho visto oggi in sala posta, no, no, in sala posta, a consegnare pacchi proprio. Tutto felice perché una volta io ero la guardia titolare della squadra di basket e lui era soltanto un punkettino haole del cazzo, e invece guardateci oggi. Non potevo fargliela passare liscia.

«Cazzo guardi?» gli dissi.

Il sorriso del punk sparì al volo. Si vedeva che aveva paura. «Scusa?» disse, come se non avesse sentito.

Gli stavo per dire qualcos’altro, ma Carl mi guardò così male che la faccia gli si raggrinzì come una prugna secca. «Giovanotto» disse, «vai a prendere il resto della roba».

Io però fissai ancora il punk, solo qualche secondo, per fargli capire che aria tirava. Poi girai l’angolo e tornai alla porta da dove eravamo entrati, presi gli ultimi scatoloni e li portai dentro. Mi sentivo gli occhi di Carl addosso tutto il tempo, perciò feci il bravo finché non ce ne andammo.

«Stai provando a farti licenziare al secondo affiancamento?» disse Carl quando fummo di nuovo sul furgone, con il motore che borbottava e tutt’intorno l’odore fibroso di cartone e di caffè vecchio.

Feci di no con la testa, ma non chiesi scusa.

«Lo conoscevi quel tizio?».

«Nah».

«Sarà sempre un problema, venire a fare le consegne qui?» chiese Carl. Mi diede una delle sue occhiate severe, una delle sue occhiate da papà.

«Guida» dissi soltanto io. «Stiamo perdendo tempo».

 

Forza, chiedetemi com’è successo.

Come si fa ad avere il mondo in pugno e poi lasciarlo andare.

È talmente semplice che chiunque tranne un coglione come me l’avrebbe previsto. La stagione del mio secondo anno, quella in cui presi in mano la squadra, andammo parecchio avanti nel torneo, arrivammo fino alle Final Four, e io ero il primo marcatore e il terzo per numero di assist nella squadra, e fare una doppia-doppia mi veniva facile come pisciare nella doccia. Dopo una stagione del genere, come cazzo facevo a non rendermi conto di quanto valevo?

Be’ per esempio la mia voglia di far festa cominciò piano piano e poi esplose, prima solo un po’ ogni tanto e poi serate epiche, sempre più epiche, epiche fino a collassare. E c’era il reggae, e passami un’altra canna, e i fianchi delle tipe del primo anno e miei e di tutti gli altri nella sala comune quando pompavano i bassi. E poi per esempio i giorni che mi mancava di brutto la spiaggia e volevo soltanto ritrovare lo spirito dell’aloha. E tipo se ti ci impegni la spiaggia te la crei ovunque, anche a Spokane dopo la fine del campionato, con un po’ di birra o un sacco di birra e un paio di altri ragazzi di colore e buona musica, e ragazze in shorts e magliette scollate e via. I miei voti fra la primavera e l’estate furono appena sufficienti. E adesso lo vedo chiaramente, non si può andare avanti così, non può durare. E me lo ricordo quand’è che avrei dovuto cominciare a stare attento, quando alle prime amichevoli estive provai di nuovo a fare tutti quei numeri in campo, a entrare in ritmo, e mi sentivo addosso una lentezza appiccicosa, mi sentivo intontito. Ma avevo solo vent’anni, com’era possibile? E comunque lo spirito d’amore delle Hawaii ti aiuta solo fino a un certo punto, almeno a me, e durante gli allenamenti stavo sempre a discutere col coach, lui tutto il tempo a dirmi cosa dovevo fare, e giuro che almeno metà delle volte aveva torto, e anche Rone e Grant e DeShawn, non lo so che cazzo era successo, ma di colpo non mi rivolgevano più la parola, e uguale io a loro. Datti una regolata, ti stai lasciando andare, stai diventando lento, stai ingrassando. Prima ero una lama di rasoio, affilata e luccicante, poi mi sono lasciato smussare.

 

E ora solo consegne. Una serie infinita di turni alle sei di mattina, sempre affiancamenti sui furgoni. Poi il capo dice che forse posso cominciare a consegnare da solo. Non devo neanche aiutare quelli che caricano, o al limite giusto un po’, solo a sistemarmi le scatole sul retro del furgone come le voglio io, e le prime settimane faccio tutto un po’ kapakai, tipo metto i colli pesanti da consegnare a indirizzi vicini troppo in fondo al furgone, impilo gli scatoloni nell’ordine sbagliato e mi devo chinare e allungare mille volte, cose così. Ma piano piano imparo. Nessuno ci avrebbe scommesso, ma imparo. E Carl avrà detto davvero qualcosa a qualcuno sul fatto dell’università, perché da quelle parti non mi ci mandano più. Si vede che è la tratta sua, alla fine.

C’è la paglia da imballaggio degli scatoloni, quando la prendo in mano la sento fra le dita come il pelo di un animale domestico a cui devo badare. C’è il piegarsi e il whank di quando salgo sul retro del furgone, e gli angoli e gli spigoli e il luccichio metallico delle pareti interne quando sorge il sole e io sono in giro a fare consegne. Perché adesso faccio le consegne.

Un sacco di volte dopo il lavoro, con Eddie e Kirk e gli altri ci fermavamo a cazzeggiare in fondo al parcheggio, tipo quando ci si becca per andare insieme a vedere la partita, ma era solo per rilassarci un po’ dopo il turno, per staccare un attimo. Poi certi dovevano scappare a casa, in qualche buco dall’altra parte della città dove vivevano tutti ammassati, ma prima ci trovavamo davanti alla macchina di Eddie, in fondo al parcheggio, e tiravamo fuori qualche birra dal portabagagli.

«Qualcuno va a vedere la partita stasera?» disse una volta Eddie.

Silenzio.

«Cazzo» fece Eddie, senza guardarmi. «Scusa». Con i suoi baffi di merda da pedofilo e le guance da scoiattolo buttò giù un altro sorso dalla lattina, e così fecero gli altri. Quasi tutti si sbrigavano a finire le birre perché dovevano tornare dalla famiglia, tranne qualcuno di noi che se la prendeva comoda e beveva lento, come quando sei in un bar e cerchi di fartela durare di più per non doverne ordinare un’altra, che vuoi solo startene lì ad ascoltare la musica.