Quell’autunno vivemmo in mezzo alla natura. Ci arrampicammo sugli orli di scabre catene montuose un tempo solcate da ghiacciai grossi come città. Poggiammo gli alluci e la punta delle dita su pezzi di pietra che sembravano incisi col rasoio e ci infilammo nelle spaccature di pareti lisce di calcare, granito o basalto, il tutto sotto una volta di nuvoloni neri gonfi di lampi. Sentivo la presenza dei nativi di quei mondi. La terra su cui si erano stesi gli Shoshone per intere generazioni era ancora lì sotto le nostre tende, mi spiego? L’aria gelida che scendeva dalle cime innevate, quella che un tempo era stata il fiato dei Kiowa, passava identica per i nostri polmoni.
Con Van, con Hao, con Katarina, d’improvviso volevo le pareti più scoperte e terrificanti di Smith Rocks. Il Totem Pole in Australia e El Potrero Chico in Messico. La parete del Salathé a Yosemite e El Chorro in Spagna. Più arrampicavamo, e più l’arrampicata mi entrava dentro. Sotto la pelle.
E poi successe una cosa ancora più bella. La sera dopo una scalata mi buttavo nel puzzo di cane bagnato della tenda e sprofondavo in mari neri di sonno. Sognavo quelle che dovevano essere divinità hawaiane. Donne enormi e distanti come vulcani, con la pelle nera come terra pregna, corpi di delfino robusti e lucidi e pieni di muscoli gioiosi. I loro capelli scendevano aggrovigliandosi in mezzo agli alberi finché non riuscivo più a distinguere le liane dai riccioli, e gli occhi erano dorati, azzurri o verdi senza il bianco intorno, e ardenti. Ovunque toccassero la terra, quella gli cresceva addosso, la pelle si fondeva col suolo, finché non si capiva più dove finiva una e cominciava l’altro.
Credo che fosse in quei momenti che ballavo. O almeno così mi diceva Van ogni volta che facevo quel sogno, specie all’inizio, ecco. Diceva che ero come in trance: priva di sensi, a pancia in su, col sacco a pelo che mi scivolava fino ai fianchi ballavo l’hula dentro la tenda. Mani giunte e braccia ad angoli di 45 gradi che facevo ondeggiare da un lato all’altro del corpo, fianchi che ruotavano in un ’ami e ginocchia che si piegavano nell’uwehe. Diceva che doveva stare attenta a scansarsi per non prendersi una gomitata in faccia.
Mi chiedeva cosa sognassi. Non aveva senso spiegarle le donne – sarebbe sembrata una stupidaggine – ma anche spiegarle l’ambientazione generale non sarebbe servito. Mi sentivo trascinare come dalle rapide di un fiume, grosse funi di corrente che mi portavano verso una destinazione senza nome.
Indian Creek non sarà mai più la stessa per me, dopo quello che facemmo lì. Fu l’inizio della fine, ora me ne rendo conto. Era il nostro viaggio per le vacanze autunnali. Indian Creek con le sue falesie di arenaria che brillavano di rame al primo sole. Odore di monete, che arrivava forte dal lago in lontananza. C’erano anche Hao e Katarina, ma per le salite avevamo cominciato a dividerci sempre nello stesso modo: Hao e Katarina, io e Van. Arrampicavamo come se stessimo chiacchierando. Lei era elegante e precisa. Sembrava non stancarsi mai. Io ero potente e dinamica: movimenti ampi e bloccaggi difficili. E ci mostravamo le rispettive doti, lei per reazione a me e io per reazione a lei, facendoci da stimolo anche nell’ammirazione. Ci stavamo trasformando a vicenda nelle persone che volevamo diventare, creavamo il tipo di esperienze che non sapevo mai di desiderare finché non le vivevo.
«Devi essere più fluida» mi gridò, mentre mi affaticavo in una serie complicata di incastri di dita su una fessura. «Prendi un ritmo. Non dovresti andare sempre per tentativi, solo nel punto più tosto». E io pensavo: ma certe volte io non la voglio ’sta fluidità. In fessura, in particolare, per me era ancora una guerra. Attorno alle più piccole spaccature nella roccia annaspavo, sentivo i muscoli della schiena tesi nello sforzo e dovevo strizzare tutto, trattenere il fiato e digrignare i denti per tirarmi su. Van era già molto più in alto di me a fare da apripista, come un serpente liquido. Tutta ginocchia aperte, slanci di gambe e un delicato gioco di prese. Sono io la ballerina di hula, brutta stronza, avrei voluto dirle. E poi lo dissi veramente, e lei si mise a ridere, ok? Perché ci conoscevamo.
Finalmente avevo cominciato ad arrampicare abbastanza bene perché la cosa diventasse pericolosa quanto volevo. Il secondo giorno a Indian Creek feci una caduta di quindici metri da una fessura liscia. Il senso di nausea del precipitare nel vuoto, con la corda molle che sbatacchiava nell’aria sotto di me. Giù, sempre più giù finché la corda finalmente non si bloccò su due ancoraggi traballanti che mi lasciarono appesa penzoloni proprio sopra la testa di Van. Se quelle due protezioni non avessero tenuto, mi sarei rotta l’osso del collo. Nessuna delle due disse nulla per un bel pezzo. Cioè, rimasi appesa lì, a tremare dalla pancia al resto del corpo.
«Avremmo dovuto portare più numeri due» disse Van, tutta calma e sveglia.
«Meglio, così imparo» dissi io. «Le conseguenze».
È quello che volevo. Anche nel rapporto con Van, per dire: non sapevo che cosa eravamo e in quel non saperlo c’era qualcosa. Nello stare sempre in bilico. E nell’arrampicata era lo stesso. Lo facevamo in continuazione, di sfiorare il disastro. Le conseguenze ci trasformavano in qualcosa che era totalmente palese quando giravamo per il campus, mi spiego? Lo si vedeva anche a lezione. Dopo quei primi semestri avevo preso il via, ero una delle migliori in tutti i corsi che frequentavo, entusiasta all’idea di capire la meccanica del mondo: cosa potevo costruire col mio cervello, con la scienza. Se volevo, potevo costruire palazzi, ponti o motori. Adesso non c’erano più dubbi su cos’avevo dentro.
Tranne sul fronte Van. Era passato un mese e mezzo dalla festa del vino e io avevo una voglia di lei che mi dava le fitte. La nostra camera dello studentato era una pentola a pressione: urti o sfioramenti casuali nel passarci una penna, un libro o il telecomando, o quando ci incrociavamo dirette ai nostri letti a soppalco.
La settimana prima di quel viaggio era tornata dalla doccia, aveva chiuso la porta della stanza e si era tolta di dosso l’asciugamano. Io ero sul mio letto, a gambe incrociate, a leggere il manuale di statica e dinamica. Con le cuffie stavo ascoltando T.I. – era appena uscito Paper Trail – e me lo ricordo perché ora non riesco più a sentire Whatever You Like senza tornare di colpo a quel momento, al suo corpo. Menta e fiori, l’odore bianco del sapone, addirittura. Non è mai stato il corpo in sé quello che mi piaceva di lei. La superficie, come dire. No, era come lo indossava: il tendersi e il flettersi, asimmetrico, solido. Mi ricordo una serie di cose. Il folto groviglio del pube poco depilato, la robustezza dei polsi e degli avambracci, le vene sottili che le spuntavano dai muscoli da scalatrice. I muscoli tesi del collo. Rimase ferma lì, nuda. Dentro di me qualcosa si torceva sempre di più. Poi Van si inginocchiò, tirò fuori della biancheria dal cassetto e se la infilò sopra la pelle pulita.
In ogni soluzione chimica composta da due o più parti ci sono un solvente e un soluto. Questo lo sapevo. Studiavo roba del genere in continuazione, ok? Il solvente è quello che provoca la reazione, che crea il bruciore acido. Mi dicevo che con Van a volte ero il solvente, ma non ci credevo nemmeno io. Perlopiù sapevo che effetto faceva sentirsi sciogliere.
Adesso eravamo a Indian Creek, sotto un fiume di stelle in piena notte, io e Van in tenda insieme, dall’altro lato del falò rispetto a Katarina e Hao, che sentivamo appena appena chiacchierare. Non smettevano mai di parlare, ma erano come fratello e sorella. Van si girò verso di me nel sacco a pelo.
«Che fai, balli pure stanotte?» disse.
«Sta’ zitta» feci io.
«E non ti imbronciare» disse lei. «Guarda che mi piace».
Io feci spallucce, non mi venne in mente un altro modo per non reagire. «Non è una cosa che controllo» dissi.
«Mi sa che è così un po’ per tutto, vero?» disse lei.
Io feci la faccia scettica. «Boh, secondo me non sei tanto tagliata per la filosofia».
«Sono seria» disse lei.
«E io pure». Le feci un sorrisone.
Poi Van si allungò verso di me e mi diede un bacio sulla guancia, con la disinvoltura con cui si danno la buonanotte in Europa. Eravamo coperte di crema solare, sale e puzza di legna bruciata. Lo sporco di due giorni di parete addosso. Ma sotto tutto questo sentii le sue labbra, una sorpresa ancora morbida e poco familiare.
Lei si staccò e senza guardarmi si aprì la zip del sacco a pelo fino ai piedi. Lentamente feci lo stesso col mio. Infilai una mano nel suo sacco a pelo, le passai il palmo lungo tutto il corpo, cominciando dalla spalla. Invece di guardarla in faccia guardavo un punto dietro di lei, l’angolo della tenda dove vedevo il chiarore delle torce di Katarina e Hao. Lasciai che la mia mano seguisse la sua curva. Fino al fianco. Lei mi prese il polso. Se lo infilò sotto la camicia, si mise la mia mano sulla pancia. Espirò e la tirò più su, ci si strusciò contro, ed ecco il piccolo rilievo caldo della tetta. Il suo capezzolo duro mi danzò fra due dita. Lei espirò di nuovo. L’altra mano se l’era ficcata dentro le mutande, e lì cominciò a muoverla.
«Continua» disse, con il viso accaldato e gli occhi chiusi. Teneva ancora una mano sopra la mia, ci si accarezzava il capezzolo. Lo feci anch’io. Imitai quello che stava facendo lei, mi infilai la mano nelle mutande, fino a sotto. La testa cominciò a girarmi, mi bolliva. La pancia pure. Trovammo un ritmo per accarezzarci insieme. Io ero tutta lei e lei era tutta me, qui e ora, finché tutto quello che era contratto dentro di me si sciolse di colpo.
Non so se quella notte ballai l’hula nel sonno. Nei miei sogni non c’era la musica. Ma ricordo la sensazione che provai. Era come un semino sotto terra che premeva per uscire. Ero un muscolo affamato, che si tendeva in mezzo alla terra scura fino a spuntare alla luce del sole e alla pioggia.
Ebbe tutto senso dopo. Alla fine.