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DEAN, 2008
Spokane

Un giorno mi arrivò una telefonata inaspettata da Noa. All’inizio ce le programmavamo in anticipo, quando Kaui per dare retta a mamma ci faceva fare queste chiamate di gruppo a tutti e tre, una volta ogni tanto: Dovete restare uniti laggiù, fidatevi, perché la terraferma proverà a dividervi. Poi però in quelle chiamate parlavano quasi solo Noa e Kaui, e facevano a gara a chi tirava fuori più paroloni da secchione. Io in genere li mettevo in viva voce e tornavo a pulirmi le unghie o roba del genere mentre loro continuavano a chiacchierare, scordandosi proprio che c’ero anch’io.

Ma quando all’università le cose andarono a puttane, Noa iniziò a chiamarmi più spesso. All’inizio non capivo che voleva. Non mi chiedeva nemmeno del basket o di che avrei fatto dopo e via dicendo, come facevano tutti gli altri. Si metteva solo a parlare della sua giornata.

Diceva cose che al telefono con Kaui non voleva dire. Parlavamo di lavoro e di donne e cose così. Quando iniziò a vedersi con Khadeja mi sa che fui io il primo a cui lo raccontò, mi chiamava e diceva tipo: Non puoi capire, sono passato a casa loro e c’era Rika che correva nuda per il corridoio, era appena uscita dalla vasca e provava a scappare, e pure se ho appena passato tutta la giornata in ambulanza in mezzo a gente ammalata o moribonda, niente, casa loro mi accende una gioia dentro come un fuoco. Parlavamo di quando eravamo piccoli alle Hawaii, delle lotte in stile MMA che facevamo al parco, o dei ragazzini strani in fondo alla strada che puzzavano sempre di pesce e si mangiavano le caccole, e di come io li costringevo a darmi le caramelle e poi le dividevo a metà con lui, come due complici.

Poi piano piano al telefono Noa cominciò a fare piccoli commenti o domande, dopo che tutti gli altri avevano bello che smesso di parlare del mio futuro. Diceva: Hai ancora tutta la vita davanti. Magari il basket non è l’unica alternativa. E io: Non capisci, senza il basket io non esisto.

Lui rispondeva: Be’, allora puoi ancora vincere però. Ti basta solo una piccola svolta. Tu continua a lavorare sodo nella squadra di riserva, ti andrà bene prima o poi.

Non sapevo come prendere quello che diceva. Cioè un po’ mi rincuorava, ma non abbastanza. Anzi, in realtà più diceva le cose giuste, le cose che volevo sentirmi dire, più mi veniva voglia di fare tutto il contrario. Pareva che stavamo ancora facendo la lotta: se provava a fare il bravo fratello, io lo spingevo via. Era tutto legato al rapporto col coach e con la squadra, al fatto che il basket per me era diventato un tormento, tanto che volevo solo fottermene di tutti e quello feci, fino alla fine, finché non mi tagliarono fuori dalla squadra e mollai il college.

Non è che ’sta cosa fermò Noa, comunque. Continuò a telefonare, anche quando Kaui la smise di obbligarci a fare le chiamate di gruppo. A volte quasi non dicevo una parola, parlava soltanto lui, ma significava comunque qualcosa per noi, essere sulla stessa linea, anche solo per un po’.

Poi una volta mi chiamò e giuro quella telefonata vorrei davvero poterla rifare da capo. Perché allora non feci quello che andava fatto.

«Che mi racconti?» dissi quando chiamò.

Subito una pausa. «Niente» disse. «Volevo solo sentirti».

Oddio, pensai, una telefonata di quelle. Mi rimisi a guardare SportsCenter, ma c’erano gli highlight dell’hockey, tizi haole che si spaccavano la testa a vicenda contro i muri mentre, tipo, mamme e papà coi figli in collo esultavano e il sangue dal campo gli schizzava nella birra, cose così.

«Tu che fai?» chiese Noa.

«Niente di che, curo qualche tumore mentre cerco di capire come produrre energia nucleare col culo» dissi. «E tu?».

«Non lo so» disse lui. Fece un sospiro profondo, umido.

«Ma che stai piangendo?» dissi, e Noa disse di sì, e lo disse in un modo strano. Come se stesse parlando nel vuoto, non con me, e non contasse niente chi lo sentiva. «Noa, fratellino» dissi. «Che succede?».

«Eh» disse. «Che ho fatto un errore».

«Un errore» dissi io. «Tipo hai chiamato una col nome di un’altra. Una volta m’è successo e dovevi vedere che...».

«Erano qui, e poi se ne sono andate» disse. «Ce l’avevo quasi fatta. Ma non ci avrei neanche dovuto provare».

Dissi tipo eh?, perché non capivo di che cazzo stava parlando, e lui disse che c’era stato un incidente, una donna incinta in macchina, e che era morta nel tragitto verso l’ospedale, mentre lui provava a salvarla. Era morto pure il bambino, una femmina.

«Hai fatto tutto quello che potevi» dissi, che vabbè, io non c’ero neanche lì, ma conosco mio fratello.

«Ti ricordi Capodanno?» disse.

«Certo».

«Pensavo che quello fosse l’inizio» disse. «Pensavo di sapere cosa veniva dopo».

«Noa» dissi, ma poi non mi venne niente. E dal suo lato della linea pure niente, solo un senso di freddo. Come fosse dentro un frigo.

«Cosa pensi che sono io?» chiese Noa.

«Cosa sei?» dissi io. «Un secchione, sei».

«No» disse lui. «Lo sai cosa intendo».

«Tipo cos’hai dentro?» dissi io.

«Sì» disse lui.

«Che ti devo dire?» gli chiesi. «Non stai facendo il tuo dovere? Sistemi le persone come facevi a Kalihi, è questo il tuo compito, no? Oppure, che è, devi diventare un cazzo di kahuna imperatore del mondo, come pensa mamma».

«E se si sbagliano?» disse lui. «Se non è questo il mio destino?».

«Che?».

«Ma tu hai mai sentito qualcosa?» chiese. «Nelle isole, a casa. O anche dopo, a Spokane».

Quando me lo chiese di nuovo, sul serio, sentii qualcosa dentro. Allora non lo capivo cos’era quella sensazione, ma ora lo so. Era paura, ecco cos’era. Pensai che se dicevo di sì, che ci credevo, allora voleva dire che era vero, quello che mamma e papà e tutti gli altri a casa pensavano di lui, e pure quello che pensavano di me. E tutta la vecchia rabbia risalì su come una schiuma. «Cazzo Noa, dimmelo tu» dissi. «Non dovevi essere tu quello intelligente?».

Ora c’era una specie di distanza. Si era tipo tirato indietro, lo sentivo. Fece un sospiro. «Scusa» disse. «Non intendevo questo. È che ho una sensazione. Non penso che questa storia sia soltanto mia. Devo tornare a casa per capirlo».

Non dissi nulla e lui riempì il silenzio. «Tu ci credi nel destino?» chiese.

Girai leggermente la testa e guardai l’ultimo paio di scarpe da basket che ci avevano dato al college, fatte apposta per noi, con i colori abbinati alle divise. «In che senso?» dissi. «Che se ti trovi nel posto giusto al momento giusto poi tutto va come deve andare?». Le scarpe erano praticamente nuove, buttate in un angolo sotto delle vecchie riviste. Sbuffai. «Non ci credo più a quella roba».

Noa tossì, si schiarì la gola. Una di quelle cose forzate. «Ero sicuro che avresti detto così» disse.

Potessi solo tornare a quella telefonata ora, cazzo, rifarei tutto meglio. Mi comporterei da uomo, come bisognava fare, invece che da ragazzino. Ma all’epoca non ero pronto, credo. Avrei dovuto però.

Ridatemi quella telefonata.

«Ciao, mi ha fatto piacere sentirti» disse mio fratello. E poi attaccò.