Io e Augie siamo dovuti rientrare tutti e due a Kalihi una settimana fa. Siamo ripartiti da Big Island per tornare alla nostra vita micragnosa, non per nostra scelta, perché io lo so che mio figlio è ancora vivo, da qualche parte in quelle valli, e quando riemergerà voglio esserci. Ma se fossimo rimasti a Big Island un altro giorno avremmo perso tutto: i nostri lavori, la patetica casa arrugginita dove siamo in affitto, quel catorcio di macchina. Quindi abbiamo riempito di nuovo la sacca e la valigia e rieccoci fermi sullo spiazzo di ghiaia davanti casa di Kimo coi gorgoglii e i cinguettii dei primi uccelli del mattino, i cieli freschi color vaniglia.
«Lo troveremo» ha detto Kimo, col bianco degli occhi imbrunito da tutte le notti insonni nella valle, a farsi strada passo passo col machete insieme ad Augie.
«Be’ sì» ha detto Augie. «Trovarlo lo troveremo, in un modo o nell’altro».
«No, dài, su» ha detto Kimo, piazzando una manona sulla spalla di Augie.
«O invece» ha detto Augie, «magari no. Magari è scomparso davvero, eh. Magari una qualche valle se l’è ingoiato vivo».
«E dài» ha detto Kimo. «Non fare così».
«O forse» ha ripreso Augie – vedevo che stava cercando di mantenere la faccia impassibile, di non tradirsi –, «se lui è andato, possiamo riprovarci». Ha sorriso, ha allungato una mano e mi ha palpato il culo. «Lo possiamo fare un altro Nainoa, vero, amore?».
E poi è scoppiato a ridere.
«Sei un brutto cagnaccio arrapato» ho detto, ridendo insieme a loro. «Sempre a pensare in che buca infilare il prossimo osso».
«È più forte di me» ha detto Augie, con una risatina. «Rientriamo un attimo, Malia, dài, svelti svelti. Kimo, tu aspettaci qui cinque minuti».
«Augie!» ho fatto io, ma non riuscivamo a smettere di ridere, tutti quanti.
Quella risata ci ha accompagnati per tutto il tragitto sul pick-up di Kimo, passando per le colline coltivate, gli alberi inclinati e le rientranze delle valli di Waimea, costeggiando le unghie di spiaggia e le distese nere di pietra lavica scrostata del Kohala meridionale. Ma alla fine ci siamo dovuti fermare, è ovvio, davanti al cemento e ai motori urlanti dell’aeroporto, dove è stato impossibile non sentirci come se stessimo abbandonando nostro figlio. L’aereo è decollato, e dopo un arco in mezzo alle nuvole siamo atterrati di nuovo in una Honolulu che sembrava essere diventata vuota e pericolosa. Tutto poteva toglierci qualcosa, ormai: ci restava così poco.
Sono ancora qui, ricordo a me stessa. Io sono ancora qui e mio figlio anche, lo giuro.
Sono passati vari giorni senza notizie, solo che Dean, Kimo e un po’ di altri sono ancora impegnati nelle ricerche, e adesso eccomi qui, a riportare l’autobus al deposito alla fine di un altro turno. Vuoto ed enorme, sfreccia traballando lungo le strade notturne. Il momento più pacifico della giornata. Mi piace guidare al buio, spegnere le luci della cabina in modo che restino solo quelle del cruscotto. C’è qualcosa di confortante nel semplice peso del veicolo che guido.
Sono a metà strada sulla Pali Highway, quasi all’uscita di Nu’uanu, e in mezzo agli alberi, sotto i pendii verdi delle Ko’olau attorno a me, comincia ad apparire Honolulu, un chiarore sfocato di luci gialle e rosse nella notte.
I fari dell’autobus illuminano il tratto di autostrada che ho davanti, mostrando asfalto, altro asfalto, il guardrail, e poi svelano una figura in mezzo alla carreggiata. È un uomo, chino e quasi nudo, solo la stoffa di un malo a coprirgli i fianchi e il boto, ma a piedi nudi, gambe nude e petto nudo, pelle scura scura. Porta in testa un lei po’o, una corona di foglie appuntite, anche se la testa è stranamente inclinata da un lato, gli occhi nell’ombra.
Comincio a frenare, poi suono il clacson. L’uomo resta lì immobile. Tutto il corpo trema e sbarella, sfarfalla come un segnale tv disturbato dal maltempo, e poi fa un balzo in avanti e arriva a tre metri dal muso dell’autobus. Vedo il sale che gli incrosta il petto, i palmi delle mani striati di lividi violacei, quel tipo di cicatrici che ci si fa maneggiando le funi e che ormai non si vedono più. Pesto sui freni, uno stridio e uno scossone tremendi, poi la spinta del mio corpo sbalzato in avanti contro la cintura. L’autobus si ferma di colpo.
Non ho sentito niente non ho colpito niente non ho sentito niente. Davanti a me i fari illuminano una strada deserta.
Oh cazzo.
Accosto e metto le quattro frecce. I lampeggianti cominciano a fare tic-toc. I freni sputano aria, shishhh. Tiro la leva delle porte, quella davanti si apre con un cigolio, ripiegandosi su se stessa. Io scendo uno per uno gli scalini di metallo ed esco nell’aria densa della notte. Non vedo niente spiaccicato sul muso dell’autobus, nessuna ammaccatura, sbavatura di sangue o corpo maciullato.
Guardo dietro l’autobus, dove dovrebbero essere i resti dell’uomo se l’avessi investito. Lui è ancora lì, una silhouette nera che si staglia contro il riflesso pallido del chiaro di luna sull’autostrada. Ma sfarfalla ancora, vibra e palpita, e poi al posto dell’uomo rimane solo un maiale, alto fino ai suoi fianchi e coperto di pelo e di fango, che mugghia, strilla e grugnisce mentre scappa dall’autostrada, infilandosi tra le felci e gli alberi a margine della carreggiata.
Arrivano dei fari. Una macchina supera me e l’autobus parcheggiato sulla corsia di emergenza. Io resto ferma lì per un sacco di tempo, sperando che la spina dorsale mi si scongeli, che il ritmo scomposto delle pulsazioni diminuisca. Ricordo la sensazione provata quella notte di tanti anni fa, io e Augie nella valle a fare l’amore, e poi la marcia notturna degli spiriti. Quell’uomo non era uno spirito in marcia, ma so che proveniva dallo stesso luogo, i confini estremi del mondo naturale, a cui gli esseri umani non hanno mai accesso. Sento il sonno che mi preme forte sul cranio, sono quasi fuori di me per le poche ore dormite e la monotonia abbrutente del percorso dell’autobus. Rimango così per non so quanti minuti.
Sono lenta a tornare a casa. Mi sento intontita e incapace di parlare. Se ho visto davvero quello che ho visto mi chiedo come mai sia successo ora, così tanti anni dopo l’ultimo fantasma che avevamo visto, a centinaia di chilometri di distanza da Big Island. Mi chiedo cosa dirà Augie, cosa posso raccontargli – lui ci crede molto meno di me, come tutti a quanto pare – e mi rendo conto che sto sperando che in qualche modo il fatto di raccontarlo renda vero che non è stato solo un sogno mezzo folle.
Tempo di riportare l’autobus al deposito e tornare a casa con la nostra Jeep Cherokee sferragliante, e a Kalihi è già sceso il buio più profondo. Parcheggio sul vialetto d’ingresso ed entro bruscamente in casa dalla porta davanti. Le luci sono tutte accese, così come la tv, ma in un attimo capisco che Augie non è in casa.
Ovviamente.
Ha cominciato poco dopo che siamo tornati da Honoka’a e dalle ricerche di Noa. Augie si sveglia presto – alle due, alle tre del mattino – ed esce di casa a piedi. Non so dove va. Si allontana e torna ore dopo, facendo scricchiolare la casa fino alla camera da letto e portandosi dietro una scia: foglie nel corridoio, odore muschioso di terra e felci sulla pelle. Gli scrocchiano le ginocchia quando si siede piano piano sul bordo del letto, spesso rimane lì e sento i sobbalzi del suo pianto silenzioso.
Ancora non gliene ho mai parlato. Non so perché. Il segreto delle sue passeggiate sembra così delicato fra noi, come se tutto il peso di ciò che stiamo diventando posi su qualche sottilissimo filo di privacy. Lui, però, crede anche che Nainoa sia morto; io so che nostro figlio è ancora vivo. Ne parliamo indirettamente ma non arriviamo mai a prendere di petto la questione. E così lui passeggia e soffre, da solo. Augie non mi ha mai lasciato vedere quella parte di sé. C’è sempre la risata, oppure la fronte segnata dalle preoccupazioni e dalla fatica, mai i denti aguzzi della sofferenza vera.
Il pensiero mi si forma in testa di colpo: Oddio, questi uomini. Perché il dolore devono sempre tenerselo dentro, inghiottirlo negli angoli più silenziosi della loro anima, contrarlo come un muscolo? Nainoa lo ha fatto – lo sta facendo – ritirandosi in quella valle, ma prima di allora si chiudeva parlando al telefono, voce piatta e parole semplici: Qui a Portland tutto bene, normale giornata di incidenti stradali e violenze in famiglia, ma quando poi lo vedevi suonare l’ukulele capivi che aveva il cuore pronto a scoppiare. E Dean uguale, con la sua parlantina, sempre a prendere per il culo tutti, facciata da duro con le risposte semplici, ma negli occhi gli brillano sempre i ricordi del basket. Dopo quella prima volta non mi ha più messo le mani addosso – non è mai più stato aggressivo dentro casa – ma io non mi sono più scordata che era diventato uno capace di perdere veramente il controllo. E adesso mio marito. Sempre a ridere e scherzare, ovviamente. I primi tempi che uscivamo mi piaceva da morire questa cosa. Faceva una battuta e ridacchiava, e la risatina sua strabordava nei polmoni miei finché non ci ritrovavamo tutti e due a sganasciarci con le lacrime agli occhi. Ho imparato che la risata è il primo muro che alza contro il dolore del mondo. Le passeggiate che sta facendo ora derivano dal fatto che quel muro è stato sfondato.
Ma adesso io sono qui e lui è qui, sulla porta, se la lascia chiudere alle spalle. Ha le palpebre gonfie e gli occhi striati di rosso, ma le sue splendide guance sono ancora forti e rotonde. Porta una camicia di cotone che gli avvolge il petto e poi si tende in fuori sul robusto mattone che è la pancia, l’unica parte del suo corpo che è cresciuta, gradualmente ma costantemente, da quando ci siamo sposati, e un paio di jeans scoloriti che sulle ginocchia si stanno per bucare. La lucentezza della sua pelle scura, anche a mezzanotte. Si toglie le ciabatte e si passa una mano sui baffetti che si è fatto crescere.
«Ma dov’eri?» chiedo.
«Fuori» dice lui. «Fuori fuori fuori. Fuori...». Il suono si spegne. Mi passa accanto e va in cucina. Lo seguo, e sento il litigio imminente che comincia a scaldarmi il viso.
«Mi parli per favore, una volta tanto?» dico. «Non mi parli più».
Ha la testa dentro il frigo. È come se non mi sentisse nemmeno, tamburella con le dita sopra l’anta aperta.
Chissà per quanti secondi resta così, a fissare l’interno del frigo. Giuro che sento il freddo uscire e girare per tutta la stanza. Ma lui sta lì, l’anta aperta, le dita che tamburellano, molto più a lungo di quanto ci si può mettere a esaminare il contenuto del frigorifero. «Lì dentro non c’è niente» dico. Un cartone di latte, sempre – sempre – pieno per meno di metà; lattuga moscia che ci stiamo facendo durare da più di una settimana; un vassoietto di plastica di pollo huli-huli con la pelle glassata e annerita che Augie sbocconcella da un paio di giorni; mezzo sacchetto di carote; l’ultima birra di una confezione da sei, con gli anelli di plastica arrotolati intorno al collo come fosse l’ultimo resto del pescato del giorno; e poi il ketchup e la maionese e quattro uova e le altre piccole cose, nessuna delle quali intera.
«Non c’è mai niente qua dentro, infatti» dice infine. «Giusto questo polletto» e indica gli avanzi di huli-huli. «Polletto. Polletto polletto maledetto polletto maledetto». Lo dice calcando forte tutte quelle t. Lo sento sussurrare polletto maledetto, polletto maledetto, a voce bassissima. Ha un’espressione seria in viso, come se stesse guardando la prima pagina di un compito in classe di una materia che rimpiange di non aver studiato meglio.
Si gratta la pancia e la camicia gli si solleva intorno al polso. Il rumore ispido dell’unghia sopra i peli, e poi si mette a guardare il muro della cucina. Io aspetto. A volte Augie arriva a quello che vuole dire davvero solo dopo aver fatto un giro lunghissimo, parlando di sport, di una battuta di pesca, del colore di quelle camicie orrende che vendono da Hilo Hattie’s, o di quanti turisti ha visto su Kalakaua Avenue quando è andato a trovare certi vecchi amici che abitano appena fuori Waikiki, e all’improvviso ecco che si mette a dire quanto mi ama e quanto gli mancano i miei capelli lunghi che la notte si spandevano su tutti i cuscini.
Ma stavolta non succede. Augie scuote la testa, si sta ricordando qualcosa che non dice. D’un tratto capisco: si sta spezzando dentro; lo sto perdendo.
«Hai sentito?» dice. Si volta di colpo verso il corridoio e la nostra camera da letto è il rettangolo di luce all’altro capo, con il ventilatore sul soffitto che batte un ritmo costante. «Come un canto». E quando dice così in testa mi viene un lampo di collegamento, fra quello che ho appena visto e qualcosa che ora mi dà la stessa sensazione. C’è l’odore, lo stesso odore che si è lasciato dietro l’uomo sull’autostrada: felci bagnate, suolo fertile, pieno di semi, scuro e speziato, un prato dopo la pioggia, un campo durante la mietitura. Viene da Augie.
«Ehi» dico.
Augie si avvia lungo il corridoio, lanciandosi solo un Mmm? dietro la spalla.
«Augie, fermati».
Scompare in camera da letto spegnendo la luce e io lo seguo, fermandomi sulla porta. Augie è seduto sul letto al buio.
«Dove sei andato?» gli chiedo con tutta la dolcezza possibile.
Lui comincia a sfilarsi la camicia da sopra la testa.
«Mi sono fatto una passeggiata» dice, muovendo le labbra sotto la stoffa logora. «Su su, risalendo lungo il torrente. Su per un bel pezzo. Fino alle nuvole, alla Pali.
«Lì più si sale, più diventano grosse le case, no? Io e te ci dovevamo comprare una casetta a due piani, con un grosso lanai in cima, e metterci lì a guardare l’alba. A guardare l’alba. Ti ricordi? Ecco che spunta il sole, lo guardiamo dal lanai?».
Era un sogno che io e lui avevamo, una vacanza che ci facevamo con lo stesso spirito con cui la gente viene in queste isole, per avere qualcosa da portarsi dietro nei lunghi e rigidi inverni cittadini, la bellezza azzurra e oro e rilassante di qualcosa di possibile nell’immediato futuro: noi due sul lanai della nostra casa di proprietà, bella in alto sulle colline, affacciata sui pendii verdi dell’isola, con il mare in fondo.
«Quella casa non ce l’avremo mai» dice Augie. «No no no, maledetto polletto, a noi ci tocca solo ’sto maledetto polletto» si è tolto la camicia e la getta verso le ante dell’armadio, «un armadio, un lettino, questa vecchia casa scassata e puzzolente che pare una gabbia di polletti. E moriremo così».
È la prima volta che articola bene le parole da quando è rientrato. Sta tornando in sé. E altrettanto rapidamente l’odore che c’era qui sta svanendo. La mano che si tiene sul ginocchio gli trema. Mi inginocchio a terra e gliela afferro. Non mi guarda. Avanzo pian piano con le ginocchia e lo abbraccio, infilandogli una spalla sotto il mento, e dal petto gli sale un singhiozzo. Un altro. Vorrei dirglielo immediatamente che cosa ho visto sull’autobus, e quante speranze mi dà quella visione. Lo sento anche adesso, le due cose sono collegate. Verso cosa era diretto Augie stanotte? E cos’è che sta cercando di venirci incontro?
«Resta con me» gli dico. «Ti prego, Augie, ti prego. Resta con me. Resta qui». Lo dico e continuo a ripeterlo, come se fosse la musica che sentiva, come se fosse quello che ha avuto in testa per tutto il tempo.