21
DEAN, 2008
Valle di Waipi’o

Sono già passate quattro settimane, il che vuol dire che ho perso il lavoro a Spokane e che presto non avrò più i soldi per la mia parte di affitto, ma non m’importa, scendo e risalgo sull’altro versante di Waipi’o, fino a Waimanu e anche più in là. Ormai riesco a farmela tutta di corsa, sul serio, stamattina sono in piedi dall’alba e quando i primi surfisti tagliano il mare all’imbocco della valle io sono già quasi in cima all’altro versante, sul sentiero a zig zag, con le gambe che pompano come pistoni. Sotto di me ci sono tutto il verde della vallata e le file di onde che si rompono a riva, una dopo l’altra, perdendosi tra la sabbia e le rocce e poi strisciando di nuovo verso il mare.

Sto ancora cercando Noa, io solo ormai, da quando la squadra di soccorso e amici e parenti si sono dovuti arrendere. A volte viene ancora zio Kimo con qualche amico, ma sono molto più veloce di loro e me li lascio ore indietro.

Da quando me ne sono andato dalle Hawaii ci ho pensato pochissimo a quello che faceva Noa, perché per me contava solo il basket. Ma poi quando il basket è andato a puttane, a che servivo più io? A guadagnarmi i soldi per la birra lavorando per una ditta di spedizioni, e in attesa di cosa? Ma da quando mamma e papà sono dovuti tornare a O’ahu per non perdere il lavoro, anche se non avevamo ancora trovato Noa – erano sul lanai dietro casa di Kimo, con le facce gonfie e gli occhi rossi di chi non ha dormito, in silenzio perché ogni volta che uno dei due apriva bocca scoppiavano a piangere – da allora chi se ne frega del mio lavoro di merda e della mia stanzetta pulciosa a Spokane, i miei hanno di nuovo bisogno di me. Ed eccomi qui. Posso ancora fare questa cosa qui, e poi chissà, si vedrà.

Vado avanti. Scavalco il crinale di Waipi’o e supero le tredici gole che vengono dopo, con il freddo che sale dai ruscelli. Ogni volta che ne attraverso uno sento i bitorzoli dei sassi di fiume che mi bucano la pianta dei piedi, poi il fango che mi si attacca alle caviglie, una puzza da porcile, ma io vado avanti. Anzi, accelero. Devo arrivare dall’altro lato di Waimanu e ricominciare a cercare lì.

Chilometri di sentiero ripido, io che scendo lungo il versante di Waimanu fin dentro la vallata, quasi vuota a parte qualche turista abbastanza stupido da venire a camminare qui in pieno inverno. Piante di hala e sabbia grigia e rocce nere ovali grosse come frigoriferi. Tutti questi haole rannicchiati in riva al mare, o più indietro attorno al lago sporco o alla cascata gelida. Li guardo e scuoto la testa. Benvenuti alle Hawaii, coglioni, godetevi le rocce bagnate e il cibo da campeggio di merda e una vallata deserta.

Vado avanti per altri chilometri. Comincio a risalire l’altro lato di Waimanu, in perfetto orario. Mi ficco in bocca una barretta energetica e mastico, sento le mascelle scrocchiarmi sotto l’orecchio. Lungo questa parte del sentiero ho già frugato ovunque, perciò ci passo di corsa. Il machete mi rimbalza contro l’esterno dello zaino e i jeans fanno un suono tipo ruff ruff ruff di cotone. Ho ancora le caviglie forti da giocatore di basket. Una cosa che mi è rimasta. Poi mi sa che sono dimagrito un bel po’, a forza di correre e scarpinare e mangiare poco e niente da quando sono iniziate le ricerche. Niente costolette alla coreana e riso bianco. Mi sento leggero, ho ricominciato a muovermi come una mangusta, come se avessi una palla da basket tra le mani.

Ma poi rallento. Questa è la parte del sentiero che non conosco. Ho già setacciato la zona più interna della valle, vicino alle cascate, e ho cercato nei posti dove campeggiavamo da ragazzini e più giù lungo il mare. Ho passato giornate intere a perlustrare quelli che sembravano piccoli sentieri secondari che Noa avrebbe potuto prendere, falciando i cespugli col machete, calpestando erbacce dure e piante secche. Ieri ho trovato un vecchio rifugio cadente, mi sa che lo usavano tipo le guardie forestali. C’erano buchi nei muri e sul soffitto e il pavimento era incurvato. Noa non c’era, e non c’era segno di vita, ma non potevo proseguire oltre e sono dovuto tornare indietro.

Stavolta quando arrivo alla baracca sento qualcosa che mi attrae come una calamita. Entro tipo in trance, quasi come ai bei tempi quando scattavo come una mangusta sul campo da basket. Tutto intorno a me il mondo si ritrae, resta una cosa sola, ma stavolta non è il mio corpo che si muove tra gli avversari, è il mio corpo che si muove tra gli alberi. Le foglie si scansano, la terra non mi tira giù e non prova a farmi lo sgambetto, ma anzi mi sostiene, mi spinge a ogni passo, e giuro l’erba e i rami cominciano ad aprirsi e compare un sentiero tutto nuovo, in mezzo alla terra e agli insetti e al verde.

C’è una radura. L’erba e gli alberi arrivano fino al bordo di un dirupo, prima a quanto pare continuavano, e lì sul ciglio ci sono lastre spaccate di terra e fango e persino una roccia tutta sgretolata, sembra che si è rotta da poco, e una discesa ripida per una decina di metri, e poi uno strapiombo secco di trecento metri sopra le onde schiumose.

E lungo la discesa prima dello strapiombo vedo un bozzo strano, qualcosa che sbuca a testa in giù dalla terra. Mi ci vuole un attimo, ma poi capisco: è una scarpa da trekking. Non posso avvicinarmi lungo il pendio franato, è troppo ripido, di sicuro finirei a picco nell’oceano. Ma di fianco c’è un alberello, abbastanza sottile da agganciarmici con le gambe, tipo cavalcandolo ma a testa in giù. Mi reggo forte e mi slancio all’indietro e sento arrivare un capogiro come una colata di sciroppo. Ma resto aggrappato e riesco a raggiungere la scarpa, intorno la terra è dissestata e le erbacce cadono giù nel dirupo. Afferro la scarpa con una mano e mi tiro su. Mi metto a sedere lontano dal bordo dello strapiombo. Dentro la scarpa ci sono erbacce e fango e sì, ti pareva, una macchia di sangue marrone, vecchio, tutto lungo la caviglia e il tallone.

Mi metto in ginocchio. Ho capito cos’è che ho in mano, è la risposta. Do un’altra occhiata alla discesa. Nel punto in cui ho tirato su la scarpa dal terreno è venuta fuori della stoffa colorata. Poso delicatamente la scarpa a terra, poi mi aggrappo di nuovo all’albero con le gambe e mi slancio a testa in giù per raggiungere la stoffa. Quando arrivo a prenderla, all’inizio non si muove. Allora tiro e scavo e tiro e strappo e interi crostoni di fango vengono via e precipitano nello strapiombo, e sento rumori di schianti e di spruzzi. Un ultimo strattone e ho in mano uno zaino. Rosso e arancione, proprio come quello che mamma e papà hanno descritto ai soccorritori all’inizio delle ricerche. Lo tiro verso di me, e ho tipo delle fitte calde di dolore alle braccia dallo sforzo, e poi mi rimetto di nuovo dritto. A forza di stare a testa in giù mi ronzano le orecchie.

Mi siedo a gambe incrociate e tengo lo zaino sulle cosce. Ha degli strappi qua e là e quando lo apro vedo un pezzetto di carta argentata, tipo la confezione di una barretta energetica, che luccica come una lama di coltello sotto il sole e vola via. Dentro ci sono un po’ di vestiti infangati, pezzi di un fornelletto da campo, un paio di sacche di nylon con cavi e roba del genere, e quando sposto quelle vedo il suo ukulele. È in una custodia morbida, ma quando apro la zip e lo tiro fuori l’ukulele è a posto, pulito e intatto.

Lo poso a terra come fosse un neonato. Accanto alla scarpa da trekking, dove c’è la macchia di sangue color ruggine, mentre alle mie spalle, in fondo allo strapiombo, sento il suono delle onde che si rompono e ruggiscono contro la scogliera.

 

«Sei tornato?» mi chiede zio Kimo la mattina dopo, vedendomi uscire dalla stanza di casa sua dove dormo.

Non riesco a dire niente, non mi esce la voce. Scuoto la testa.

«Ehi» dice zio Kimo. Mi guarda serio. «Ehi, Dean, che è successo, me lo dici?».

Tremo. Non riesco a smettere, ho addosso tipo quella scarica elettrica che senti alla fine di una bella sessione in palestra, come mi sentivo dopo una partita finita al doppio overtime, una scossa di luce ed energia, pronto a saltare. Ma stavolta è un’energia diversa, ha qualcosa di triste dentro, so che è una cosa che può andare e venire quando vuole e devastarmi, allungo la mano per appoggiarmi al bancone della cucina e faccio per dire: Mi sa che ho capito cos’è successo a Noa, ma le parole non mi escono.

Perché non riesco a smettere di tremare?

Ritorno in stanza e prendo la scarpa da trekking, lo zaino e l’ukulele e li metto sul tavolo. Delle scaglie di fango si staccano e cadono a terra.

«Ok» dice zio, con un respiro profondo. «Ok».

Forse per un po’ restiamo lì in silenzio, con lui che tipo riflette, poi dice: «Dobbiamo radunare un po’ di gente, dobbiamo recuperare il corpo. Anche i tuoi genitori».

«No».

«No?».

«Non c’è più nessun corpo da recuperare. C’è solo il punto dove c’è stata una frana, e finisce a strapiombo sulla scogliera. Non c’è nient’altro».

«Che vuol dire niente?» chiede zio Kimo, «Ci dev’essere qualcosa. Sei sceso giù? Fino in fondo alla frana?».

«Non c’è niente» dico io. «Oltre il punto dov’erano rimasti incastrati la scarpa e lo zaino».

«Ma devi...».

Gli dico che io non faccio niente, proprio più niente. Non devo fare più un cazzo di niente. Tutto questo tempo sono stato sempre qua. Prima e dopo, quando tutti gli altri sono tornati alle loro vite, io sono sceso nella valle quasi tutti i giorni, sprofondando nel fango tra la merda e i millepiedi e risalendo su, facendomi avanti e indietro la lunga strada di asfalto lucido che porta fuori da Waipi’o dove continuavo a vedere i guardrail piegati o spezzati, gli scheletri neri sfondati delle macchine precipitate nella foresta, ubriachi usciti di strada e morti volando giù come stelle cadenti, con i resti che marcivano tra gli alberi, e laggiù c’ero soltanto io ancora a cercare. E tutto per niente.

Quando gli squali ci hanno riportato Noa quella volta, io sono stato il primo a raggiungerlo sulla barca. Non ne parlo spesso. C’era un silenzio assurdo quando gli squali si sono avvicinati, quelli dell’equipaggio erano affacciati al parapetto a guardare lo squalo più grosso che col muso spingeva Noa verso il fianco della barca, senza mordere, senza agitarsi, soltanto riportandolo più vicino a noi che poteva. Poi il capitano e i marinai hanno tirato su mio fratello con le funi e le ciambelle, e gli squali si sono allontanati, sagome scure e sempre più scure fino a scomparire nel blu profondo. Io ero proprio lì. Papà e qualcuno dell’equipaggio hanno fatto passare Noa al di qua del parapetto e io ho abbracciato forte forte mio fratello, mentre mamma è sbucata all’improvviso e ci si è praticamente buttata addosso. Ci siamo ritrovati stretti insieme, tutti e tre, con l’odore della senape, delle patatine e delle bibite alla frutta che ci eravamo presi per pranzo, i cuori che ci battevano uno contro l’altro, le braccia e le gambe schiacciate insieme, io e mamma e Noa, che non si capiva più dove finiva uno e iniziava l’altro.

In teoria ero il fratello maggiore, ma da quel giorno Noa ha tipo cominciato a crescere sempre più veloce, che alla fine sembravo io il più piccolo. E adesso eccomi, con in mano l’ultimo pezzo di stoffa che ha toccato il suo sangue. Zio Kimo se ne sta lì in piedi, mi guarda con gli occhi pieni di lacrime che tremano e luccicano.

«Devi chiamare mamma e papà» dice.

«Sì, ora li chiamo» dico io, e lui mi guarda e non ci crede, perché zio è uno sveglio.

«Lasciami fare a modo mio» gli dico. «Sono stato io a trovarlo, non tu».

«Lo so» dice lui.

«No, non lo sai» dico io.

Zio Kimo comincia a dire qualcosa, poi si ferma. Mi lascia lì ed esce sul lanai, poi scende in cortile, con le mani sulla testa come uno che prova a riprendere fiato dopo una lunga corsa. Io vado al tavolino, dove zio ha ancora un telefono fisso, e stringo in pugno la cornetta per non so quanto tempo.

Comincio a fare il numero di mamma. Attacco.

Comincio a fare il numero di papà. Attacco.

Comincio di nuovo a fare il numero di mamma. Arrivo all’ultima cifra, ma mi fermo e attacco.

Zio Kimo è rientrato e mi guarda dall’altro lato del salotto.

«Non risponde nessuno, zio» dico. Mi alzo dal tavolino, prendo le scarpe e vado alla porta.

«Dove vai?» mi chiede.

«Esco» dico io.

Lui incrocia le braccia.

«Magari li richiamo quando torno» dico. «Stanno sempre svegli fino a tardi».

«La mia macchina però te la puoi scordare» dice zio Kimo. «Dopo pranzo devo tornare in ufficio».

Saluto con la mano. «Fantastico, grazie dell’aiuto zio» dico. Esco dalla porta, scendo per il vialetto, risalgo la collina e mi metto sulla superstrada con il pollice alzato. Cammino verso Hilo, e dopo più o meno un quarto d’ora una macchina accosta poco avanti a me. Il tizio al volante è un vecchio hapa giapponese, vestito tipo da giardiniere, e mi chiede dove vado.

«Via da qui, va bene tutto» dico io.

«Ce l’avrai una meta» dice lui.

No, non ce l’ho più. Sto quasi per dirglielo, ma poi mi fermo. «Allora Hilo» dico io. «Grazie».

 

A Hilo passeggio per Bayfront e guardo il mare e i frangiflutti. L’acqua è tutta grigia e intorbidita, come a Waipi’o dopo una tempesta, anche se qui siamo su una lunga baia arrotondata, con navi da carico e da crociera da un lato, dove c’è il porto, e ancora più in là Coconut Island e gli hotel. Guardo gli alberi sopra di me, con le fronde appuntite che ondeggiano lente. Lungo tutta la via centrale di Bayfront ci sono questi negozietti vecchio stile, con le insegne scritte a mano e roba del genere. Entro nel primo bar che trovo.

Il bar è abbastanza grande, e comunque è semivuoto. Mi siedo al bancone e ordino una birra, va giù veloce e fredda in un paio di lunghi sorsi.

Ne ordino un’altra e il barista mi fa: «Ehi vacci piano, hawaiano».

«Sì sì, come no» dico io. «Senti, non devo neanche guidare, facciamo che mi lasci in pace».

«Cerca solo di non esagerare».

«Non ti preoccupare» gli faccio. «Non esagero. Sarò come il figlio che non hai mai avuto».

«Ho tre figli e li ho dovuti cacciare di casa tutti e tre» dice il barista. «Vedi tu».

Mi metto a ridere. «Be’, io non ti deluderò».

«Questo l’hanno detto anche loro».

Alzo una mano, della serie: Basta, e il barista torna a lucidare la parte cromata del bancone. Poi ci rifletto, un baretto di merda come questo, scommetto che il rivestimento del bancone è di plastica, la cromatura è finta. Sto quasi per dirlo, ma non sono così stupido. Sicuro i suoi figli gliel’avranno detto davvero.

Dopo qualche altra birra un paio di tizi entrano nel bar e si vanno a sedere in fondo al bancone, lontano da me. Saranno operai, mi dico, hanno addosso delle maglie giallo fosforescente e quando uno dei due solleva il braccio per ordinare da bere gli si vede la linea netta dell’abbronzatura sulla spalla. Continuo a bere e loro continuano a lamentarsi delle mogli, o di quanto è difficile pescare qualcosa di decente quando sei troppo vicino a riva. Dopo un po’ stanno ancora lì a dire: C’è sempre qualcosa che non le va bene e che devo cambiare, la camicia o il taglio di capelli o il fatto che guardo il football la domenica.

Uno dei due mi lancia un’occhiata. Poi ricominciano a parlare tra loro.

Mi alzo e mi avvicino ai loro sgabelli, piazzo una mano sulla spalla del tizio. Ha le orecchie piccole e le guance gonfie con una barbetta incolta stile Okinawa.

«Ehi mahu» gli dico. «Che cazzo avevi da guardare in quel modo?».

Lui si scrolla via la mia mano dalla spalla.

«Allora, mi hai sentito?» gli chiedo.

«Vai a casa» mi dice. Non sposta neanche lo sguardo dal suo bicchiere o dal suo amico.

«Oh» dico io. «Però da come mi fissavi pareva che volevi il numero di telefono, tipo. Che c’è, cercate qualche frocio che vi faccia compagnia?».

Il tizio accanto a me sospira, come un cane che prova a dormire sul pavimento. «Sei già ubriaco» mi dice. «Vai a casa».

Poi si gira verso il barista: «Ehi, Jerry, mi sa che lui ha bevuto abbastanza».

«Le vostre mogli sembrano delle vere stronze» dico io. «Se me le lasciate dieci minuti, ve le metto a posto io. Ve le sistemo per bene proprio».

I tizi si mettono a ridere, e mi sa che anche il barista sta ridendo, poi mi fa: «Senti, paga il conto e vatti a fare una pisciata fuori da qualche parte, va’».

Prendo una manciata di banconote dalle tasche. Lo so che sono tutte da un dollaro e sicuro non bastano, perciò le lancio tutte insieme oltre il bancone, dico ai due tizi di andare a farsi fottere da un mulo ed esco fuori nell’aria del pomeriggio.

C’è qualcosa che non va. Non so bene dove sono. Il sole è come un’emicrania e le gambe non danno retta a quello che gli dico. Vedo il padiglione bianco circolare davanti alla fermata dell’autobus in lontananza. Provo a girarmi in quella direzione, cerco di trovare un obiettivo a metà strada dove dirigere le gambe. C’è il semaforo all’incrocio, raggiungo quello e mi aggrappo al palo di metallo aspettando che venga il verde. Sento tipo che se mollo la presa potrei cadere giù dal pianeta Terra.

Al semaforo scatta il verde, ma qualcuno mi prende la spalla e mi fa girare dall’altra parte. È l’operaio moke di prima al bar. Mi molla un destro sul mento e vedo un’esplosione bianca negli occhi e casco a sedere sul marciapiede, ma non finisco del tutto a terra. Resto lì seduto, come se mi stessi riposando, con il moke in piedi davanti a me.

«Ora non fai più tanto il duro, eh?» mi dice.

«Sono ancora...» comincio a dire, ma poi penso a che serve parlare?, e mi rialzo e gli do un pugno sulla gola. Lui fa quel suono tipo huuuuh che quando uno molla un cazzotto spera sempre di sentire. Il moke barcolla all’indietro e gli tremano le gambe, ma anche lui resta in piedi.

Tutto questo mi fa sentire bene. Voglio vedere ogni cosa distrutta.

Così quando il moke si avvicina di nuovo abbasso le mani e aspetto il suo pugno. Il pugno arriva, e c’è uno scrocchio nero e di nuovo ho le scintille in testa, e mi inclino e vado giù con le scapole che sbattono sul marciapiede. Apro gli occhi e sono a terra, e vedo il cielo e l’erba e mozziconi di sigarette e buste di plastica e gli scarponi del moke, che avanzano. Sento il rumore del traffico dalla strada dietro di noi. Mi dà altri due pugni. Ogni volta sento tipo la testa che mi si spacca in due lì sull’asfalto, e subito dopo tutto un pulsare martellante. Ho delle macchie rosse che mi ballano davanti agli occhi.

Qualcuno caccia un urlo e sento il raschio delle gomme di una frenata brusca. Altre voci che parlano tra di loro finché il moke strilla a qualcuno in strada: «Risali in macchina». Mi sa che sono dietro di me. «Sto solo parlando con mio cugino» dice il moke. «È caduto».

Io guardo il cielo, dove la distesa grigia qua e là si apre nel blu, ma ecco che sopra di me arriva un’ombra. È il moke, in piedi, che si china a parlarmi in faccia. «Non fai più tanto il simpatico, eh?» mi dice, con l’alito carico di birra.

«Grazie» dico io. Comincio a notare il dolore, in certi punti mi sento la fronte spessa mezzo metro, si staranno formando dei bozzi. Ho la lingua come una balena morta spiaggiata. «È stato perfetto» gli dico.

«Tu sei malato, cazzo» dice lui. Poi sparisce e c’è di nuovo solo il cielo.

Chiudo gli occhi. Qualcuno viene a chiedermi se mi serve aiuto, e c’è un’altra voce – una donna – che dice: «Siamo a Bayfront, davanti alla fermata dell’autobus. Sì. Una rissa credo. Sta perdendo molto sangue».

La voce di prima mi chiede di nuovo se mi serve aiuto. Tengo gli occhi chiusi e ascolto in silenzio.

 

Arriva un’ambulanza, ma non mi portano da nessuna parte, ho solo tagli e lividi e vari parti gonfie, ma sono cosciente. Mi chiudono tutte le ferite aperte lì sul marciapiede, mi danno un ghiaccio gel del cazzo da premere sugli ematomi e alla fine, incredibile, faccio in tempo a prendere l’autobus successivo. Quando salgo il guidatore non fa una piega, anche se vede che ho la faccia tutta distrutta. Ci sono un sacco di posti liberi, mi siedo dal lato del tramonto e mi butto sul poggiatesta cadente. Sento la puzza del posacenere, sento scricchiolare la finta pelle del vecchio sedile ogni volta che mi muovo. Le luci interne si spengono e andiamo via da Hilo.