Dio, ti prego, fammi dimenticare questo inverno. Prima c’è stato dicembre, una bruttissima fine di semestre. Io e Van che dividevamo la stanza come due sconosciute, comunicando col minor numero di parole possibile, rispondendoci a monosillabi. Cercando di occuparla solo quando l’altra non c’era. Ogni volta che eravamo costrette a stare in quello stesso spazietto mi pareva di soffocare, mi spiego? Facevamo del nostro meglio per scoordinarci, in modo che una tornasse quando l’altra usciva, e restavamo in stanza solo quando si spegnevano le luci e lo spazio condiviso lo cancellava il sonno. Gli esami finali di Calcolo vettoriale e Fisica III e i relativi manuali me li vedevo di fronte come una ghigliottina, tremavo davanti al ceppo macchiato di sangue.
Nel bel mezzo di quell’inferno mi ha chiamato mamma. Era tutto finito. Noa era morto. Dean aveva trovato una frana che finiva in uno strapiombo a picco sul mare, ed era lì che Noa aveva perso la vita. Ci era rimasto il suo zaino, uno scarponcino distrutto e basta. Parlavo al telefono con mamma e parlavo al telefono con papà e parlavo al telefono con Dean. Nessuno aveva nessuna opinione sul mondo. Le telefonate erano piene di silenzi. Direi che ci concentravamo sul respirare. Fai questo respiro, poi fanne un altro. Ogni giorno provavo a dare un senso alle parole e ai simboli degli esercizi, lo studio in teoria era la mia migliore speranza di farmi strada nella vita, mentre tutto intorno a me le cose che pensavo sarebbero sopravvissute si estinguevano. Van non c’era più. Noa non c’era più. E poi non ci sarebbero più stati i corsi. Amen.
Ma alla fine ce l’ho fatta. A superare tutto.
Adesso sono le vacanze invernali. Dean è tornato a Spokane, non sa per quanto. Non avevamo abbastanza soldi perché riuscissi a tornare a casa nel frattempo. Cioè, non ce l’avevamo ma in un certo senso ce li avremmo pure avuti, perché un altro volo con le carte di credito sarei anche riuscita a pagarmelo. Ma erano quasi in rosso a forza di viaggi per andare ad arrampicare e stronzate varie per l’università, e i voli per le Hawaii in inverno costano un occhio della testa, perfino da San Diego. Quindi sono delle vacanze di merda e le comincio elemosinando di nuovo qualche turno da Romanesque, ma ho una botta di culo: il primo giorno che vado a lavorare, e il giorno dopo dovevo lasciare la stanza dello studentato, conosco una cameriera di nome Christie. Come altro lavoro sta alla reception di un ostello. L’ostello aiuta ragazzetti europei in anno sabbatico con la febbre per la California a vedere l’America, non dovrebbe ospitare studentesse senza un soldo che normalmente abitano a cento metri da lì. Ma Christie con un piccolo rialzo sul prezzo mi lascia prendere un letto per il resto delle vacanze, dichiarando che sono solo di passaggio se il proprietario dell’ostello dovesse fare domande. Spesso e volentieri nel bel mezzo di un giorno feriale prendo l’autobus e me ne vado giù in spiaggia. Tremo sotto i baci del sole gelido quando la nebbia si alza dalla sabbia, oppure me ne resto rintanata a scroccare alcol da bruciore di stomaco ai generosi ragazzetti europei dell’ostello, che sono perlopiù biondi e in fissa totale per l’America. Mangio saimin e cereali a prezzi ribassati e menù scontati dei fast food che mi compro in doppia dose per portarli in camera e metterli in frigo. Da un collega che sparecchia i tavoli al Romanesque mi faccio mettere da parte gli avanzi. Guardatemi, mamma e papà, ho imparato per osmosi a vivacchiare di espedienti, dopo tutti quegli anni a casa con voi sempre sull’orlo del baratro.
A Natale li chiamo di nuovo per parlare. Ormai con la mia famiglia è sempre più difficile. Ciascuno di noi ha il suo linguaggio di morte e di lutto, senza possibilità di traduzione. Succede una cosa strana per cui non riesco più a sentire papà con la frequenza di prima: ogni volta che chiamo, mamma ha un motivo per cui lui non può venire al telefono. È strano, ok? Le telefonate si trasformano in una partita a scacchi in cui nessuno sa come vincere e tutti sanno come perdere: parlando di Noa. Quindi per evitarlo ci mettiamo a chiacchierare delle cose più assurde. Il prezzo del latte. Il nuovo percorso su cui mamma sta guidando l’autobus e in che ore e punti c’è traffico. Che tipo di scarpe devo mettermi per non sentirmi le ginocchia piene di cemento alla fine di un turno al Romanesque. Gli spiego che cos’è un ostello.
E avanti così, ma io continuo a chiamarli. E a Natale è la stessa cosa.
«Downtown Pizza buonasera, cosa desidera?» dice una voce.
«Papà».
«Papà non ne abbiamo, ma ci è rimasta un po’ di pizza col tacchino. Specialità di oggi, per Natale».
«Pensavo che fossero le Hawaii» faccio io. «Ce lo potete aggiungere un po’ di ananas?».
«Ananas!» dice papà. «Quello schifo dovrebbe essere vietato per legge».
«Come le battute stupide di certi papà» dico io. Ma sorrido.
Dopo che dico così c’è una pausa, e poi la voce di papà diventa più leggera di un sospiro, o quasi. Fruscia via velocissima e non capisco cosa dice.
«Come, papà?».
La sua voce sta ancora parlando. Ma l’aria fra i due capi del filo è cambiata. Lo sento, come quando scendendo da una grande altezza ti si tappano le orecchie. All’altro capo non c’è più lui.
«Papà...».
«Ehi, amore». Adesso è la voce di mamma.
«Mamma, che succede?».
«Niente».
«Cioè, che ha papà?».
«Papà, ehm, niente, è arrivata una persona che gli voleva parlare».
Sento un groppo di nausea che mi si stringe dentro. So che sta mentendo. «Mamma» dico.
«E le vacanze come vanno?» mi chiede. «Tutto bene lì?».
Ha già fatto così altre volte e oggi non mi pare il caso di ingigantirla troppo, diciamo. Lascio correre. «Sì» rispondo. «Più o meno. Sono contenta di aver finito un altro turno senza ancora aver sputato nel piatto a nessuno».
Lei ride. «Fidati, ti capisco» dice. «Ma devi staccarti da te stessa. Quando vai al lavoro, devi immaginare che è Kaui quella che appendi nell’armadietto dello spogliatoio, non solo lo zaino, i vestiti di ricambio. Sei tu, e resti chiusa lì dentro fino alla fine del turno».
«Sì, so come sopravvivere» dico.
«Bene» fa mamma. «Io ci ho messo tanto a impararlo. Tantissimo».
«Sì, be’» dico io, «ma tanto sarà così solo qualche altra settimana, poi ricominciano i corsi».
«Beata te» mi dice.
E Cristo santo mi viene da pensare. Ricominciamo con questa storia.
«Mamma, possiamo evitare, almeno a Natale?» dico. «Non... non c’è un cane qui. Sono solo io».
«Hai ragione» dice lei. «Purtroppo la vita non diventa mai più facile, Kaui».
«Lo so» dico io.
C’è una pausa. Mi rendo conto che il nostro ritmo abituale prevedrebbe che lei mi chieda di Noa. Ogni volta prima di questa era così, ma adesso non c’è più niente da chiedere. Ormai sappiamo entrambe tutto quello che c’è da sapere di lui.
La telefonata finisce. Nel giro di poco, nella mia testa tutto si maciulla sotto il peso di un’altra serie di giorni a San Diego. L’ostello, il doppio turno al Romanesque. L’ostello. Mattine nebbiose di merda e servizio ai tavoli. L’ostello. Tutto il mio tempo consiste nel sopravvivere a queste due cose: ai turni e alla distesa di silenzio e solitudine che mi aspetta dopo.
Sul continente tutta la pagliacciata del Natale e dopo-Natale va e viene in un’unica grossa ondata di voglio voglio voglio, e di colpo è il 31. Faccio l’ultimo turno al Romanesque e torno a casa con l’ultimo autobus, ok? Sul tragitto continuiamo a incrociare gente: abiti da cocktail neri spiegazzati, cravatte slacciate che svolazzano. Tutti a cercare il posto dove bersi l’ultimo bicchiere via via che gli altri locali chiudono. Arrapati, piegati dalle risate o euforici. Lucine colorate, fuochi d’artificio e i 100 Momenti dell’Anno in tv quando torno all’ostello. Mi chiedo: ma che sto facendo? Sono stati Van o Noa a ridurmi così, o sono stata io da sola? Non tanto tempo fa mi sembrava di aver spaccato il guscio della vita e averci trovato dentro un nocciolo luminoso di felicità. Ma in un attimo pare che si sia sbriciolato.
Dio, ti prego fammi dimenticare questo inverno. Ti prego fammi dimenticare questo inverno. Ti prego fammi dimenticare questo inverno. E il tempo passa. Bene, ok. Arriva il nuovo semestre. Torna Van.
La prima sera che passiamo di nuovo in camera insieme c’è silenzio, stiamo tutte e due con le cuffie e il computer aperto davanti. È una replica della fine dell’altr’anno, mi spiego? Siamo sedute di spalle, ciascuna alla propria scrivania accanto alla finestra, ciascuna a fare finta che l’altra non ci sia. Il profumo di una sua candela accesa, denso e speziato. All’improvviso sento che mi batte una mano sulla spalla, cercando di richiamare la mia attenzione. Mi domando cosa vuole, se posso sperare. Sembra che fra noi si stia ammorbidendo qualcosa, e intanto il cuore mi fa Ok, ok, ok. Poi mi sfilo le cuffie e mi giro.
Lei mi guarda fisso negli occhi: ha le ciglia lunghe ed elastiche. Sembra che stia dormendo di più, non ha il viso stropicciato. Cazzo, mi sta già uccidendo. Mi giro completamente di lato sulla sedia.
«Che c’è?» chiedo.
«È morto?» chiede lei.
La velocità con cui rispondo sorprende anche me. «Sì» dico. «È morto».
Le parole restano lì a mezz’aria.
«Ho capito» dice lei. Poi punta un dito verso le cuffie che ha intorno al collo. Ne esce un suono che fa pensare a degli uccellini nella melassa. «L’hai mai sentita questa? Scommetto che ti piace». Faccio di no con la testa e lei si toglie le cuffie dal collo. Me le mette sulle orecchie.
Drivin’ Me Wild di Common. L’ho già sentita. Ma non glielo dico, lascio battere il rullante e la voce acuta e levigata di Lily scorre contro i versi di Common. Comincio a fare su e giù con la testa, ad allungarmi un po’ di lato in modo da entrare nell’atmosfera di Van, diciamo. Chiudo gli occhi: non mi servono. C’è il suo odore e ci sono le cuffie che mi avvolgono la testa di musica. Tutto qui. Quando finisce, dico: «Bella».
«Ho tutto l’album» dice lei. «Quello prima te lo ricordi?».
«Sì».
Torniamo agli esercizi, rumore di penne sui quaderni, di tasti di computer e pagine sfogliate. Nessuna delle due si rimette le cuffie. Quando ho finito mi alzo e vado al mini-frigo che sta sotto il mio letto a soppalco. Prendo il latte che mi sono fregata a mensa, lo verso sopra gli ultimi resti dei miei cereali low cost e mi siedo a gambe incrociate in mezzo al tappeto.
Mentre sto sgranocchiando la prima cucchiaiata di cereali Van si alza dalla scrivania e viene a sedersi vicino a me. Indica con la testa la ciotola. Gliela passo. Ne mangia una cucchiaiata e poi me la ridà, le nostre dita si sfiorano mentre ce la scambiamo. Io prendo un’altra cucchiaiata, sgranocchio, ingoio e le ripasso la ciotola. Lei la stringe fra le mani, ne mangia un altro boccone, me la ripassa. Il cucchiaio tintinna contro la ceramica. Lo immergo di nuovo nella ciotola e me lo porto alle labbra. Sulle quali ancora sento Van. Il suo calore. Il suo sapore. Mando giù tutto, il latte, i cereali e lei. Sembra che stiamo pregando.
«Ok?» dice lei.
«Ok» rispondo io.
Non ho mai sentito fino in fondo la morte di Noa. Non come pensavo sarebbe successo, in maniera pesante e drammatica. Fino a questo momento. Mi piomba addosso come fosse un’onda arrivata alla sua massima altezza e io la spiaggia. Cristo santo, Noa non c’è più. Non c’è totalmente più. Niente più telefonate con la sua superintelligenza che mi faceva incazzare. Nessun legame vivente con quelli che eravamo ai tempi dell’hanabata, quando ridacchiavamo e leggevamo insieme sul divano. Non esiste più l’idea che potremmo tornare a quello, o a qualcosa di simile in futuro, qualcosa di più grande e più ricco. Niente più fiammate di orgoglio per papà e mamma – che se non ero io a provocare quantomeno riuscivano a scaldarmi. Niente più, niente, niente. Un giorno avrei fatto anch’io la stessa fine. E tutte le persone a cui volevo bene. Niente.
L’impatto mi intontisce. La ciotola quasi mi cade, Van si allunga ad afferrarla e le nostre mani si toccano. Forti e salde.
«Oddio» dico, ma non so se Van mi ha sentita. Non voglio che sposti le mani.
E lei non le sposta.
La sensazione si placa. Il lutto diventa solo un’altra parte di me. Non c’è tempo per farmene travolgere. Sono tornata a chiudermi nello studio, risalgo dal baratro dello scorso semestre, sono la prima del mio corso in termodinamica, e riesco a infilarci qualche ora di arrampicata al coperto con Hao, Katarina e Van. Arriva un weekend, qualche settimana dopo, in cui andiamo tutti e quattro a farci un giro in bici di notte. L’umidità ci si attacca alle guance e alle sopracciglia. La superficie della strada fa tremare i manubri. Ridacchiamo, urliamo e pedaliamo a tutta velocità come se ci avessero appena levato il guinzaglio. E in un certo senso è così: una bustina di coca rimediata da Van, qualche birra a casa di Katarina prima di uscire e poi l’idea di andare in bici alla festa di cui abbiamo sentito parlare. Dentro la festa ciondoliamo per ore, un pompare denso di bassi e voci arrugginite che ridacchiano negli angoli affollati di una casa, ore che passo al di fuori del mio corpo.
La casa è piena di sconosciuti ma anche di gente che conosciamo. Almeno di faccia. Ma anche se le facce le conosciamo, le persone a cui stanno attaccate sono – non so – a queste feste sembra che le persone si assomiglino quasi tutte, nella voglia disperata dell’atteggiamento giusto, dei vestiti giusti, della foto giusta. Questa idea di serata perfetta che hanno e che non riescono mai a vivere davvero, per cui continuano a provarci, mi spiego? Senza sosta.
Urtiamo contro tutti gli invitati e troviamo i nostri posti, dentro la casa e fuori. Balliamo e ci diamo bottarelle coi gomiti e coi fianchi e beviamo la roba che ci siamo portati nello zaino e usciamo rotolando uno sull’altro dalla porta di dietro.
C’era una mezza idea di tornare tutti insieme a casa di Katarina, a vedere come devastarci con altre birre, magari guardare dei film. Ma loro se ne sono andati senza di noi appena hanno trovato qualcuno in grado di guidare. Ecco, adesso siamo di nuovo io e Van, con la testa che gira per l’alcol. L’atteggiamento che ha avuto dopo la serata del vino, la cosa del bagno – quando ha detto che non provava per me quello che io provo per lei – sembra che sia stato un errore, e sembra che quello che sta succedendo adesso siamo noi veramente. Sì, mi pare che ne sto uscendo, almeno un pochino. Dalla tempesta che mi si è abbattuta addosso con la morte di mio fratello.
Prendo Van per mano. Sono sorpresa quando me la stringe anche lei.
«Hai la mano calda» farfuglia, nell’ubriachezza. E non so bene chi delle due comincia a muoversi o se lo facciamo tutte e due, ma rientriamo alla festa, insieme.
Una volta dentro, gli odori: menta e cicche di sigaretta. Lime appena tagliati e birra coperta di condensa. I corridoi sono affollati e la gente forse ci guarda come se sapesse quello che siamo, cosa significa davvero il fatto che ci teniamo per mano, ma a me non me ne frega niente, ok? Siamo di nuovo a ballare, una fra le braccia dell’altra. Poi in cucina, dove un sacchetto aperto di nachos è chino in una pozza bagnata sul bancone di formica. Recuperiamo due bicchieri da dietro il lavello e ci facciamo uno shottino di vodka ciascuna. Io neanche sento il sapore – c’è stata anche della coca, prima. Sul ripiano del lavandino del bagno. Stiamo ballando di nuovo, con una coscia fra le gambe dell’altra. Poi saliamo delle scale scricchiolanti che ci fanno pendere contro le pareti, contro la ringhiera. Tre o quattro persone scendono mentre noi saliamo ma riusciamo a passare. In un corridoio troviamo una camera da letto vuota, le lenzuola e il copriletto mezzi rovesciati via dal materasso. Un’eloquente chiazza umida nel mezzo.
Restiamo ferme lì a guardare la stanza, ci giriamo verso tutte le pareti. Sembra un belvedere, un punto panoramico.
«Oddio quest’ultimo shottino» dice Van. «Non sento niente. Non mi sento niente». Ridacchia. Si tocca con la punta delle dita le guance, le labbra, e quando se le tocca le labbra si piegano e vedo le linee, le curve, e quanto sono rosa. Rido e le pianto un dito nelle guance anche io. Nella penombra ecco la mia mano scura contro la sua pelle più chiara. Poi mi avvicino e le lecco le labbra. Sono spaccate e salate, sono curve, puzzano. Ma lei apre la bocca, appena appena, e mi accetta. Le nostre bocche si bagnano a vicenda. Io ne trattengo il sapore e mi dico: È questo che ti ricorderai.
«Mmm» fa lei.
Ho la testa pesante. Carica di tutta la roba che ci ho buttato dentro. Mi appoggio su Van, che è in equilibrio altrettanto instabile, e lei si appoggia al muro. Sento tutti i punti in cui siamo unite, uguali, la nostra densità.
Per un attimo accompagna il mio movimento ma poi si irrigidisce, si fa indietro. «No no» dice.
Io mi stacco. «Cosa?».
«Mi fa schifo, Kaui» dice. Ha gli occhi a mezz’asta ma dentro ci vedo qualcosa, qualcosa di duro e cattivo. Mi dico che non lo riconosco. «Te l’ho detto». Ride. Alza una mano e me la spinge in faccia. «Dài, mi fa schifo».
Dentro di me precipita tutto da una scogliera. Non mi muovo, ecco. Cerco di farmi venire in mente qualcosa da dire. Van si sposta verso il letto come se per manovrare il corpo le ci volesse uno sforzo di concentrazione enorme. Si accascia a pancia in su.
«Van» dico io.
Indietreggio verso la porta e sbatto il gomito contro la maniglia. L’urto mi riverbera con un ronzio metallico lungo i nervi del braccio. A tentoni apro la porta ed esco in corridoio, sotto le luci accese da mal di testa. Già sento la vampata di vergogna che mi sale agli occhi.
«Ehi» dice la voce di un ragazzo mentre comincio a chiudere la porta. Da dietro la mia spalla si allunga un braccio robusto e pallido, che blocca la porta per tenerla aperta. Mi giro. È Connor, il tipo con cui stava Van alla festa del vino. Dietro di lui ci sono altri due tizi, appoggiati al muro. Non si degnano neanche di guardarmi in faccia.
«Giù di sotto sembravate belle cariche» dice. «Avete ancora voglia?». Mi posa una mano sul fianco come per direzionarmi. Puzza di birra acida e sigarette al mentolo.
Mi schiarisco la gola e gli sbatto via la mano con uno schiaffo. Gli altri due si staccano dal muro. Uno ha una mano nella tasca del pantaloni, si sta dando un’aggiustata.
«Levatevi dal cazzo» dico. «Tutti quanti». Lo dico forte e chiaro. E lo ridico. Così che lo sentano tutti. Specialmente Van. Dentro la camera, svenuta sul letto. C’è un momento in cui nessuno fa nulla, né io né i ragazzi. Mi passano davanti come i vagoni di un treno che non deve fare fermate per chilometri e chilometri. Quando mi superano corro giù per le scale, scendendo i gradini due alla volta, senza cadere. Senza rallentare.
C’è il pulsare frastornante delle sostanze che ho nelle vene e il nodo di dolore che mi strizza lo stomaco appena penso a me e Van. La stavo praticamente supplicando. E da lei cosa mi è venuto, quella cattiveria spietata – comincio a chiedermi se non ci siano state altre serate fra lei, Katarina e Hao, senza di me, in cui sono stata il bersaglio delle battute a tavola.
È solo venti, cinquanta o un milione di traverse dopo che l’aria fredda mi apre uno spiraglio di lucidità nel cervello e capisco. Oh Cristo, lei lì dentro era sola. Mezza svenuta. E quelli erano tre.
Mi muovo svelta, il marciapiede traballa e sbanda a ogni passo di corsa. Non ho idea di cosa stiano facendo le mie gambe e il bordo di qualcosa mi si impiglia all’altezza dei piedi. Cado nell’erba bagnata e mi sento scrocchiare un ginocchio. Mi rialzo e reggendomi a una recinzione cerco di proseguire più veloce, senza perdere l’equilibrio. Qualche traversa dopo inciampo di nuovo e cado sul marciapiede. Cerco di rialzarmi ma vado a sbattere contro un paio di bidoni della raccolta differenziata, e tutti e tre ci rovesciamo con uno schianto di vetri e una scivolata di cartoni. Mi rialzo e riprendo a correre. La strada mi si spalanca davanti a perdita d’occhio. Ma riesco ad arrivare alla porta sul retro della casa della festa. Quando rientro c’è gente che ride, che fa versi di sorpresa, di incredulità. Corpi e parole, ma io mi apro un varco a manate fra la gente e ce la faccio: su per le scale, poi la porta, ma la porta è aperta e dentro non c’è nessuno. Van è scomparsa. I ragazzi pure.
Esco di nuovo fuori e torno in strada, dove dietro di me non c’è nessuno che voglio riconoscere e davanti a me qualche luce gialla che esce dalle altre case della via. Il marciapiede buio e vuoto scivola liscio nella notte.