Il mattino come un punteruolo contro il ghiaccio del mio cervello. Mi sveglio come sempre dopo poche ore di sonno con l’idea che devo darmi una mossa. Il divano su cui sto dormendo ’sti giorni è quello di Saad, un tipo che conosco perché viene in palestra ad arrampicare, e nella notte dei tempi l’ho aiutato a fare gli esercizi per qualche corso. Mi infilo dentro casa zitta zitta che è già buio, entrando dalla porta principale con la chiave che mi ha prestato. Il mattino mi suona la sveglia prima che si alzino lui e il coinquilino, così me ne posso andare senza vedere nessuno.
A volte invece che sul divano mi metto per terra. Se voglio qualcosa di duro. A volte è quello che mi merito o la sensazione che voglio provare, le ossa su qualcosa di duro. Mi sento come se fossi in campeggio, come se fossi di nuovo a Indian Creek. Le unghie piene di gesso e della sporcizia delle fessure. Io e Van sotto il nylon della tenda, ecco, rannicchiate una contro l’altra mentre fuori ci sono gli orsi che vanno in giro a fiutare.
Ieri sera mi sono fatta un giro nei bidoni della spazzatura dello studentato e ho rimediato una boccetta di Vicodin ancora mezza piena. Una botta di culo pazzesca, ne ho presi quanti ne consigliavano su Internet. Mi sono fatta un viaggio di ore a bordo di una versione calda e sciropposa di me stessa, mi spiego?
Ora. Appena alzata dal divano. La famiglia di Saad è un milione di anni avanti alla mia. La casa puzza dei loro soldi. I mobili sono lucidi che sembrano imburrati. Le maniglie dei cassetti tutte sottili e cromate. Le porte sono pesanti e restano ferme in qualunque posizione le metti, si aprono e si chiudono come immagino potrebbero fare quelle di un castello. Se qualcuno mi chiedesse cosa significano i soldi, io direi questo: che qualunque cosa fai, ti sembra di avere il mondo solido sotto i piedi.
Guardo dentro il frigo. Come se durante la notte potesse essercisi materializzato qualcosa. Certo. Contiene una caraffa di acqua filtrata che puzza di plastica, una confezione da sei di Pepsi e nove birre, margarina e salsa sriracha, un barattolo appannato di sottaceti e vaschette vuote, ripulite fino all’ultimo. In un angolo, una scatola di bicarbonato di sodio strappata. Negli armadietti le stesse bustine scrocchianti di snack al formaggio e crackers, tutta roba biologica, la cioccolata per la glassa e le chips di verdure. Qua stanno messi quasi peggio di me.
Mi fermo davanti a uno specchio. In fondo ogni tanto vale pure la pena darsi un’occhiata. Eccomi qua: capelli hawaiani arruffati che comincio a raccogliermi in una cipolla appena me li vedo allo specchio, un naso grosso e schiacciato dalla radice alla punta, i muscoli delle braccia e delle gambe più molli. Alzando le braccia mi vedo la pancia e non è piatta. E perfino a San Diego ho perso un po’ del mio colore scuro.
Però sono qui. Tutto sommato. Ok.
Ha cominciato ad andare tutto male dal giorno della festa, Van, lì dove l’ho lasciata. Mi sento sempre stanca anche quando riesco a dormire una notte di fila, ok?, e in qualunque spazio chiuso ho paura di incrociare lei, o quei ragazzi, o qualcun altro che sa tutto. Ho la sensazione che la voce si sia sparsa ovunque e che la gente già mi guardi in maniera diversa, anche chi non mi conosce.
Quasi tutti i giorni riesco ad andare a lezione senza incontrare nessuno che lo sappia di sicuro, è facile svicolare perché frequento soprattutto di mattina. Ma certi giorni finisco comunque per vedere Van o Katarina o Hao e devo nascondermi infilandomi nella prima porta che vedo. Sono come uno scarafaggio, diciamo, zampetto dentro la mia camera dello studentato quando le luci sono spente, zampetto via quando fa giorno, e lo stesso con casa di Saad. Poi mi metto in fondo alla classe, dove vedo tutti davanti a me e non ho nessuno dietro. Vado avanti così forse da tre settimane. Ma il punto è questo: che non so nemmeno chi sa cosa, dato che eravamo tutti sbronzi e fatti.
Però so la cosa più importante, so cosa sono ora. Volevo Van e dato che non ho potuto averla l’ho lasciata alle bestie, a Connor e i suoi amici. Fino a quel momento ero certa che ce l’avrei fatta ad andare avanti – a superare Nainoa, e tutti i modi in cui mamma e papà sono riusciti a non capirmi e perfino a non volermi, mi sarei lasciata alle spalle anche le isole. Adesso invece sto andando solo sempre più giù.
Mi cambio per la prima volta da giorni e sotto le ascelle della maglietta si sono accumulati strati di sporcizia, leggeri e salati. Dentro lo zainetto da arrampicata ho la biancheria pulita, gli assorbenti, il dentifricio, il computer, una fiaschetta con dentro un ultimo goccio di whisky. Niente rasoi né crema, però. All’inizio ci tenevo tanto a radermi tutti quei peli. Come fossi una brava ragazza, ok?
Quando mi infilo la maglietta pulita da sopra la testa succede qualcosa. Non sono io quella allo specchio, non sono più in quel bagno. Sento di stare in piedi in mezzo a un altopiano erboso, tutto pendii verdi, riccioli di vento e certe donne vecchissime che ballano l’hula. Portiamo tutte una gonna pa’u di kapa ruvido. Sento che il tessuto mi graffia attorno alla vita, e il resto del corpo ce l’ho nudo. Ho un lei po’o che mi punge la fronte. I capelli folti e lunghi chilometri, mi arrivano al sedere. La pelle impolverata e incrostata di sale e piena di muscoli e cartilagine. Le antenate, l’hula: sono anni che non mi sentivo così. Siamo in mezzo a un campo, io e due file di donne, e il pahu batte come il pugno di Pele in un terremoto. Danziamo e cantiamo. Il cielo è una ciotola rovesciata di calore ardente, più bianco che azzurro.
Poi mi squilla il telefono e torno alla Kaui di adesso. È Dean. Pigio subito i pulsanti per far partire la segreteria. Nel farlo mi accorgo che è già varie volte che chiama. Ma non me ne frega niente. Non sto più sentendo nessuno. Né mamma né papà né Dean né Van né nessuno.
Dean però mi richiama, che palle. Capisco che non ha intenzione di piantarla. Prendo la chiamata.
«La signorina finalmente risponde» mi dice.
«Sì, esatto» faccio io.
«Ti prende un accidente se rispondi al telefono? E se stavamo andando a fuoco tutti quanti?».
«Perché, al momento stai andando a fuoco?» chiedo.
«Sì che sto andando a fuoco, cazzo» dice lui.
«Dean».
«Che c’è?».
«Non ho tempo di darti retta ogni volta che ti viene duro. Se mi chiami così tante volte è perché vuoi qualcosa».
«Ma perché ci dev’essere per forza qualcosa che voglio?» chiede Dean. «Cazzo, sei uguale a mamma. Magari mi va solo di parlare».
«Be’, Dean, allora parliamo» faccio io. «Chiacchieriamo. Fraternizziamo. Un bel botta e risposta».
Lui resta un attimo in silenzio. «Ma sei ubriaca o che? E perché parli sottovoce?».
«Se proprio lo vuoi sapere sono strafatta» dico. «E parlo piano perché sono entrata di nascosto a casa di qualcuno. Sei fiero di me?».
Lui scoppia a ridere. «Porca puttana».
Metto il telefono in viva voce così posso finire di sistemarmi i capelli, uso quei quattro rimasugli di cosmetici per darmi un’aria un minimo più dignitosa. «Allora, che c’è, ti serve qualcosa, giusto?».
«Come mai non chiami più mamma e papà?» mi chiede.
Guardo a terra, dove sono le mie scarpe. La pozza della mia maglietta impestata di sudore, la boccetta arancione di antidolorifici che sbuca dallo zainetto. «Qui ho un sacco di roba a cui stare dietro».
«Certo».
«Non hai proprio idea» dico.
«Sì, be’» dice Dean. «Anche a Portland c’è un sacco di roba a cui stare dietro».
«A Portland?».
Prima che possa fargli altre domande, Dean comincia a parlare. Dice che stanno portando via le cose di Noa. Dice che Noa non aveva pagato l’affitto e che al posto suo dovrebbero pagare mamma e papà.
«E puoi immaginare cosa significa» mi fa.
«Non è che puoi svuotare la casa di qualcuno perché non ha pagato l’affitto» dico io. «Ci dev’essere un ordine del tribunale, qualcosa del genere. Oggi come oggi è impossibile che ti sfrattano».
«Hanno chiamato mamma». Dean lo dice come fosse una scrollata di spalle.
Ma la procedura legale, dico io. I diritti degli inquilini, dico io. Una ragionevole possibilità di saldare gli arretrati, dico.
«Ma sentila, di colpo è l’avvocato di famiglia» dice Dean.
«Maratone di Law & Order ventiquattro sette» dico io.
«Vabbè, adesso piantala» fa lui. «Smettila di fare il pagliaccio, perché questa è una cosa seria».
«Ok ok» dico io. «Stai calmino. Hai sentito un avvocato?».
«Kaui, non ho tempo per litigare» dice Dean. «Devo risolvere ’sto casino. Mamma ha chiamato me».
Il tono con cui dice quell’ultima frase. Mamma ha chiamato me. Della serie: lascia fare a me, mi spiego? Della serie: finalmente è il mio turno di fare il figlio modello. Ma sotto c’è anche un’accusa, lo so. Perché sono tornata al college mentre lui è rimasto a dare colpi di machete da solo nella valle. Guardo la stanza che ho intorno: rasoi da maschi incrostati di schiuma da barba e sangue; il numero estivo di una qualche rivista nel portagiornali accanto al water, un tappetino fradicio appallottolato in un angolo. Me li vedo tutti distesi davanti, ok? Oggi e i giorni che verranno dopo. Io che passo di divano in divano, scappando da Van, Katarina e Hao. Che vivo del contenuto del mio zaino dall’inizio del semestre. Che mi riduco a un’esistenza da topo per via di quello che ho fatto, o non ho fatto.
«L’indirizzo di Noa è sempre lo stesso?» chiedo.
«Lo stesso che ha sempre avuto a Portland» dice Dean. «Perché?».
Riattacco. Rificco nello zainetto tutti i miei averi sparsi sul pavimento e mi allaccio le scarpe. Uscendo lascio la chiave di Saad nella cassetta della posta.