27
KAUI, 2009
Portland

Vai, questo dico. O mi pare di dire. Siamo in piedi, agitatissimi. Prendiamo quello che possiamo – i portafogli e il mio zaino, due degli album di foto più piccoli – e scappiamo. La porta davanti si apre. Si sente una voce ma non ci fermiamo ad ascoltare. Arriviamo nella camera da letto da cui sono entrata forzando la finestra, che è ancora aperta. Salgo sul davanzale ed esco. Cado sul praticello impregnato d’acqua che corre dietro la casa. Ho lo zaino aperto, mi cadono antidolorifici, fazzoletti di carta appallottolati, gomme da masticare e assorbenti. Raccolgo quello che posso, rificco tutto nello zaino insieme agli album di foto.

«Giriamo l’angolo» dico a Dean, e giriamo l’angolo. Solo che nel farlo andiamo praticamente a sbattere contro lo sceriffo. Lui inciampa all’indietro e porta la mano alla pistola, sta gridando: Fermi fermi fermi. Noi partiamo a razzo nella direzione opposta, attraversiamo di corsa il giardino cercando di andarci a infilare nello spazio fra un garage e un’altra casa. La pioggia mi sputa contro le ciglia. Non riesco a levarmela dagli occhi, mi si annebbia la vista. Lo sceriffo dietro di noi urla. Sentiamo ancora il tintinnio di quelle chiavi. Continuiamo a correre, ma ho i muscoli contratti in attesa dei primi spari. A quelli come noi sparano sempre.

Invece riusciamo a infilarci fra il garage e la casa e sbuchiamo dall’altra parte. La felpa di Noa un po’ svolazza e un po’ mi si appiccica addosso, mi va grande e si sta inzuppando. Quando non sentiamo più lo sceriffo mi fermo e guardo indietro. È lontano, sta correndo alla sua macchina. I capelli stanno cominciando a gocciolarmi ovunque. L’alito mi fuma per il freddo.

«Via» dice Dean, e ricominciamo a correre. Solo non capisco che intendeva in due direzioni diverse: mentre io attraverso la strada dopo, lui taglia in diagonale il giardino di un’altra casa, e quando me ne accorgo è già aggrappato a una recinzione e cerca di arrampicarsi per scavalcarla.

La macchina dello sceriffo sbuca veloce in fondo alla strada con un ribollire di lampeggianti. Niente sirene, quindi non sembra per niente un film. È vero, siamo veri. Mi giro e continuo a correre nella mia direzione. C’è un passaggio fra due case e mi ci fiondo dentro. Un ringhiare di cane scoppia alle mie spalle e mi rotola dietro, rimbalza fra i due muri, ma qualunque bestia sia non la vedo, e non mi salta addosso. Non mi fermo. Si sente una sgommata. Un rumore di metallo che scrocchia. È tutto dietro di me. Quello che mi vedo davanti è una distesa di terra oltre le case.

Sbuco lì. È solo uno spiazzo abbandonato. Tanto di quello spazio e di quell’aria che pare che il mondo stia riprendendo fiato. Cataste di legna sotto teli impermeabili azzurri e paletti di legno piantati nella terra fredda, con delle fettucce arancioni che svolazzano. Lascio lo spiazzo e imbocco un’altra strada, corro per un isolato e passo attraverso un altro giardino. Non si sente un rumore. Mi riempio i polmoni di ossigeno. Ho la bretella sinistra dello zaino lenta, me la stringo bene sulla spalla.

Proprio accanto ho dei mobili da giardino. È roba che probabilmente quasi tutti i miei compagni di college a San Diego hanno in casa, moderna, minimale e costosissima, mi spiego? E poi, tipo, ci sono tutte queste lastre di pietra grigia a terra a formare un sentierino che va dalla veranda al vialetto per la macchina. Dove effettivamente c’è una macchina ferma. Senza nessuno dentro.

Sento la sirena dello sceriffo. Adesso è un ululato. La parte di me che vorrebbe scappare viene afferrata dalla parte di me intelligente che dice: La gente vede quello che vuole vedere. Rallenta. Fai finta che questo sia il tuo quartiere. Che questa bella macchinona bianca pulitissima con gli interni di pelle color burro sia tua.

E un attimo dopo lo è. Apro la portiera lato guidatore, mi siedo al volante, inserisco la retromarcia. Assurdo. Uno penserebbe che un furto d’auto sia una cosa pazzesca, tutto un gioco di cacciaviti, parcheggi bui e batticuore a mille, no? Ma è facile come accendere la luce.

Esco veloce in retromarcia, arrivo sulla strada e parto a tavoletta, alla prima traversa svolto sgommando e mi sento sballottare lo stomaco. Ma poi mi ripeto: Rallenta. Questo è il tuo quartiere e tu stai andando a fare la spesa. Comincio a cercare Dean, giro a qualche altro incrocio, cerco con gli occhi qualcosa che riconosco. Faccio lenti circuiti di ogni isolato. Mi sembra, più o meno, di tornare verso il punto in cui ci siamo divisi. Riparte la sirena dello sceriffo. Non proprio qui, ma più vicina di prima. Continuo a pensare a quando ho visto i lampeggianti della polizia e ho capito che cercavano me, ok? Il cuore mi fa come le luci, gira e sfarfalla.

Poi da dietro una siepe arruffata vedo sbucare Dean. Zoppica a testa bassa, a petto nudo e fradicio sotto la giacca di Noa. Con una mano si tiene su i pantaloni della tuta di Noa, che gli lasciano mezzo scoperto il sedere. Accosto, suono il clacson e abbasso il finestrino del passeggero.

«Ma che stai facendo?» chiede.

Immagino la scena. Io, sua sorella furibonda, mezza morta di fame e di sonno, in preda al panico, che arrivo su un macchinone bianco da ricchi, con l’adesivo di una radio cristiana sul paraurti, profumato di deodorante floreale. «Sali» dico.

Si mette sul sedile del passeggero, arriviamo alla fine dell’isolato. Non sembra reale. Sto guardando un fratello e una sorella che cercano di scappare, che commettono reati, che fanno le scelte sbagliate. Ma non sono io, non c’entro niente io, posso giusto provare a dirgli no.

«L’hai rubata, ’sta macchina?» fa Dean. Io aziono i tergicristalli. Per un attimo ho la visuale completamente libera.

«Stava lì» dico, e scrollo le spalle.

Mi fermo a uno stop.

«Ma stai scherzando?» Dean si guarda intorno. Dice che adesso finiamo dentro sul serio, che la macchina dobbiamo mollarla. Ma io dico di no. Adesso ce ne andiamo da qui, da questo stato e da questo continente e da tutto il resto, tutto quello che è cominciato da prima di quel cazzo di bacio, l’arrampicata, il tunnel delle fogne e ogni metro quadrato di terra su cui io e Van abbiamo messo piede insieme, e gli squali e i telegiornali e le parti delle Hawaii che hanno ammazzato mio fratello.

Continuo a guidare.

«Possiamo prendere un pullman, possiamo fare l’autostop. Possiamo addirittura andare a piedi». Dean si sta strizzando il dorso del naso. «Ma così no».

Mi fermo a un altro incrocio. La via su cui siamo è molto lunga, e alla fine si intravede una strada trafficata, una fila di negozi. Boutique fighette con stoffe impalpabili e manichini in pose disinvolte, ci scommetto. Un bar col caffè a sei dollari. Il viale e i palazzi e il cielo tutti della stessa sfumatura di grigio.

«Tu se vuoi vai» dico. «Tanto so come tornare».

Dean sta zitto. Si mordicchia il labbro e si rigira sul sedile, così possiamo guardarci negli occhi. E i suoi vedo che prendono un’espressione strana, ok? Paura ma poi calma piatta, quasi un senso di rilassamento. Mi si avventa contro, poi buio, qualcosa mi colpisce in pieno petto e c’è lui che mi strattona, batto la testa contro un suo ginocchio, urto e struscio contro varie manopole e maniglie con le costole e il bacino. Ogni pezzo di me sta sbattendo contro qualcosa e mio fratello continua a darmi strattoni e spintoni. Sono piegata in due. Mi sento addosso i suoi piedi e le sue mani, mi sta passando sopra per mettersi alla guida al posto mio. Faccio per appoggiarmi con la schiena alla portiera del passeggero, ma c’è solo aria. L’impatto violento della spalla sull’asfalto. Acqua, luce, lo zaino che vola e mi atterra davanti. Sono fuori dalla macchina, per strada. Quando riesco a rimettermi in piedi Dean è al volante e sta ripartendo con la portiera ancora aperta. E c’è la macchina dello sceriffo che gli viene incontro, con le luci e le sirene. Sterza bruscamente e si mette di traverso sulle due corsie. Dean resta bloccato.

Mentre sto lì mi sfreccia accanto un’altra volante. Il motore strilla. La macchina sta andando a chiudere ogni via di fuga alle spalle di Dean. Quando l’agente vede che l’hanno preso, si accendono le luci dei freni.