Per via dell’arresto. Per via della seconda volante gelida, con mio fratello seduto dietro. Perché non sono potuta entrare nella stazione di polizia, mi sono dovuta nascondere per sbirciare di tanto in tanto le pareti bianche e il colpo regolare del timbro dell’impiegato sulla carta, un caso chiuso dietro l’altro. Per via dell’ultima volta che ho parlato con Dean, di persona dopo la sua chiamata in giudizio, quando non aveva detto una parola su di me – prima di dover tornare giù a sud: eravamo seduti al tavolino su quelle sedie che ti pugnalano la schiena, cosa ci potevamo dire? Perché gli occhi ci si sono inumiditi di passato, e abbiamo capito che non ci saremmo rivisti fino al suo rilascio, e forse neanche allora. Per via di un’altra sberla della povertà, impossibile pagare la cauzione, e vedere ancora una volta, ancora una volta quante cose la nostra famiglia non riesce a fare. Perché ho dovuto guardare le guardie che lo riportavano in cella da dietro le spesse porte bianche e blu, cariche di serrature e di grate. Perché ho camminato per il centro di Portland lucido di pioggia. Perché quella notte, col freddo che mi mordeva dappertutto, l’unico punto asciutto era l’entrata di un parcheggio, perché lo zaino che conteneva gli ultimi resti fisici della vita di Nainoa è diventato il mio cuscino, perché era un dormiveglia continuo. Per quelle fitte di dolore lungo tutto un fianco: il bacino, le costole, la spalla. Perché di nuovo a tuffarmi nei cassonetti, stavolta in cerca di roba da mangiare, non di pasticche buttate via da un ragazzino, ok? Perché poi c’è stato il centro di accoglienza, le file di letti a castello che svaporavano puzza nel centro di accoglienza per i senzatetto, gente che borbottava negli angolini bui, il coltello da caccia rubato da un armadietto, con il manico rivestito di nastro adesivo, che tenevo stretto sotto il cuscino. Perché le file la mattina: un bagno di piastrelle sporche, pappa d’avena annacquata, un televisorino con l’immagine che saltava, cartoni animati. Perché il topo anneriva il gatto con la dinamite, picchiava il gatto in testa con la mazza, gli faceva saltare i denti a pallettoni, e per ciascuno il tintinnio di una nota di pianoforte. Per quella telefonata in cui mia madre mi ha detto che aveva fallito con Dean, che aveva fallito con tutti noi se era così che eravamo ridotti, perché mi ha detto che dovevo rimettermi a studiare – «Ormai sei rimasta l’unica» ha detto, «ci resti solo tu». «Ma io non ce la faccio a tornare lì» ho detto io. «Mamma, voglio solo tornare a casa. Mi puoi riportare a casa? Voglio solo tornare a casa». Perché lei ha trovato i soldi da qualche parte, in qualche modo, con una sua forma di magia, per tutto questo sono tornata alle Hawaii.
Visto dal cielo, l’oceano blu come la fiamma del gas batte onda dopo onda contro i lastroni di lava neri e scabri sulla costa di Kona, fra spiaggette di sabbia bianco zucchero scodellate qua e là e palme da cocco. Il sole è dorato, ovunque e bollente, si sente anche da dentro l’aereo. Ci abbassiamo sempre più verso terra. Sotto di noi c’è un’esplosione d’acqua e una megattera si libera dal mare, in verticale, e si rigira fra gli spruzzi, due pinne dorsali blu-grigie e il muso sorridente. Molluschi incrostati e grumi di pelle segnata. Si torce e si allunga come se quel salto non dovesse finire mai, come se potesse volare dritta in cielo, senza fermarsi. E invece l’acqua le schizza via di dosso e si dissipa in una nebbiolina e la balena ricade in mare, sollevando un muro imponente di schiuma.
Un formicolio lungo tutte le braccia e le gambe, pelle d’oca: ci siamo. Queste sono le Hawaii.
Mi vengono a prendere davanti all’aeroporto, mamma e papà su un pick-up che non riconosco, un Tacoma bianco altissimo con una rastrelliera dietro e le gomme tutte bitorzolute. Sono seduta su un pezzo di pietra lavica all’ombra di un albero, vicino a uno dei negozietti che vendono i lei. Profumo di frangipani e orchidee. Rosa, viola e gialli. Mamma salta giù dal gippone, fa il giro e arriva davanti a me, mi squadra dalla testa ai piedi. Come dovesse controllare se sono merce difettata, mi spiego? Non so a che conclusione arriva, non glielo chiedo. Alla fine mi abbraccia, e mi tiene stretta più a lungo di quanto mi aspettavo. E anch’io la abbraccio più a lungo di quanto mi aspettavo. Quando mi stacco papà è ancora seduto sul gippone.
Mamma raccoglie il mio zaino dal marciapiede. «Non ti sei portata niente» dice.
«Che ha papà?» le chiedo io.
«È...». Mamma si interrompe. Tutte e due lo fissiamo. Lui non sta veramente guardando verso di noi. Ha gli occhi persi verso il cielo opaco di ceneri vulcaniche. «Lo vedi» dice mamma. «Non lo so».
Quando mi avvicino al finestrino per salire dietro, papà mi vede. Per un attimo sembra riconoscermi, poi si annebbia. Non sorride, non dice ciao e non scende dalla macchina. Sta muovendo le labbra dolcemente, un mormorio infinito.
«Mamma, cazzo» le faccio. «Perché non me l’hai detto?».
Lei stira le labbra, le schiaccia forte una sull’altra. «Perché, pensi che avresti potuto fare qualcosa?».
«Magari sì» dico. «E tu, cos’hai fatto? Hai fatto qualcosa?».
Lei molla lo zaino per terra lì dove si è fermata, a tre metri dal gippone. «Tu sali dietro» dice, e fa il giro per andarsi a mettere al volante.
Il pick-up parte a razzo dall’aeroporto e si dirige verso Hualālai, il vulcano in lontananza tutto verde e marrone fino alla cima nascosta dalle nuvole. Poi svoltiamo verso nordovest e la strada segue la costa, con il tavolato di antiche colate nere di lava tutto intorno. L’oceano si inarca contro la spiaggia. I fianchi delle colline sono coperti dai rami spinosi degli alberi di kiawe, e dopo un bel pezzo di strada le colline diventano la spianata deserta di Waikoloa coi ciuffi d’erba qua e là, ok? E per tutto il tempo papà non smette mai di muovere le labbra, sussurrando o in silenzio, e tiene gli occhi fissi verso l’isola. Ha la pelle intorno agli occhi striata di una specie di nervosismo stanco.
«Adesso sta così tutto il tempo?» chiedo.
«Di tanto in tanto ha dei momenti di lucidità».
«L’hai portato da un dottore?».
«Buona idea» dice mamma. «Sono adulta da un pezzo e ho cresciuto tre figli, ma non ci avevo pensato. Un dottore» fa. «Aspetta che me lo segno».
«Volevo solo...».
«Kaui, non gli hanno saputo fare niente» dice. «Solo esami. La loro idea era quella. Provare questo o quel farmaco per qualche mese, dicendogli di tornare in continuazione a fare esami. Dopo che mi è arrivata da pagare la parcella della prima visita non ci sono più tornata».
Passiamo per Waimea dove fanno dieci gradi di meno, con la nebbia e la pioggia che batte di traverso per il vento, mi spiego? Tipo, gente che si regge il cappello e si china per ripararsi dalle raffiche appena scende dalla macchina.
«E chi bada a lui mentre tu lavori?».
«Faccio i turni di notte» dice. «Quando vado, ogni tanto Kimo passa a dargli un’occhiata».
«Cioè lo lasci da solo?».
Lei mi lancia un’occhiataccia. Poi torna a fissare la strada. Ok, i tergicristalli sbattono e cigolano. «In genere dorme tranquillo tutta la notte» dice. «È l’unico modo. Altrimenti non entrano soldi».
Quando dice così, mi rivedo al centro di accoglienza. Dopo che avevano preso Dean, ok? Io al telefono dell’atrio spoglio, coi cartelli scritti a mano e un odore acido e sudato di muffa sotto il puzzo della varechina. Voglio solo tornare a casa. E mamma non ha battuto ciglio quando si è trattato di pagare il biglietto. Adesso è chiaro che in testa dev’essersi fatta un milione di calcoli. Un ragionamento infinito su quanto le sarebbe costato.
Scendiamo dalla cima di Waimea, eucalipti e alberi ancora più alti, e io abbasso il finestrino giusto per respirare l’aria di Hamakua. Il fruscio dei campi di canna da zucchero. Quando arriviamo a casa di zio Kimo vedo un enorme prato erboso recintato, i cornicioni di legno ridipinti di fresco e delle portefinestre pulite che affacciano sulla proprietà, sui pendii che finiscono nelle scogliere della costa nordorientale.
In fondo a quel pezzo di terra c’è una casa più piccola, con un piccolo lanai che dà su quello stesso oceano. Senza le rifiniture eleganti della casa principale. Ma almeno, diciamo, non è in lenta putrefazione come quella in cui abitavamo a Kalihi. Mamma imbocca la strada che porta all’entrata sul retro della casetta.
Mi accorgo che mi guarda. In attesa della mia reazione. «Che c’è?» dico.
«Ho dovuto vendere il computer per tornare qui» dice. Mette il motore in folle. «Quindi vedi di non fare storie».
«Non volevo fare storie» dico.
«Accompagnalo dentro, e prenditi lo zaino. Io vado a restituire la macchina a zio Kimo».
Quando entro nella casetta insieme a papà resto quasi scioccata. Più che altro per quanto è spoglia. Alle pareti non c’è nulla. Gli armadietti non sono verniciati, le pareti sono a malapena imbiancate. In un angolo una poltrona papasan di canne scolorite, un paio di divanetti di vimini scompagnati. Un tavolo da pranzo traballante che sembra fatto di un qualche truciolato di finto legno. Cristo santo, mi viene da dire. Ma è sempre stato così?
Si sente distintamente lo scroscio di un fiotto di liquido che cade sul pavimento. Ecco, mi giro e vedo papà con una strisciata calda di piscio lungo i pantaloni.
«No, dài, non la...» dico. Ma non può non farla. E quindi la fa. Quando mamma rientra ho appena cominciato a togliergli le ciabatte di gomma.
«Dammi un asciugamano» dico.
«No» fa lei. «Spoglialo».
«Io?» dico.
«A te già ti ha schizzata. Ce l’hai sui jeans e sui piedi».
Ha ragione. E però.
«Noi abbiamo passato anni a pulirti il culo» dice. «Questo non è niente».
«Non esiste proprio» dico io.
Lei fa due passi decisi verso di me. Con quel movimento mi ricorda che cosa è stata, una campionessa statale di basket, con le cosce e la schiena che questo comporta, mi spiego? Ma non è che mi sta minacciando. Vuole solo avvicinarsi quanto basta perché senta bene il peso delle sue parole.
«Kaui» mi dice, «la vita qua è così. Il che significa che anche la tua vita è così, finché stai qua. Non rompere i coglioni e aiutami».
Comincio con la camicia. Scopro che papà è in grado di aiutarmi, è un meccanismo che il suo corpo conosce. Si sfila da solo le braccia dalle maniche. Tolta la camicia gli vedo la schiena e il petto. Le spalle. Punteggiati di piccole punture di zanzara e vecchie cicatrici, graffi ormai lisci e violacei su quel tronco d’albero scuro che è il suo corpo. Dopo avergli tolto i pantaloni vedo i punti in cui i peli si sono diradati. Sui muscoli dei polpacci. Sulla parte alta delle cosce, per l’attrito con i jeans e i bermuda.
«Dài, finisco io» dice mamma. «Lo porto sotto la doccia. Non è che devi imparare tutto in un giorno».
Sono riconoscente e non faccio obiezioni. La guardo mentre lo accompagna in bagno. Papà riesce perlopiù a muoversi da solo, ma non fa più di quello. Tipo, pilota il corpo e tutto il resto lo lascia fare a noi. Penso a quello che era una volta, un uomo che insieme a un altro paio di persone riusciva a sollevare un pianoforte. Il football, tanti anni fa. E poi le canne abbattute a colpi di machete, per fare spazio e pulizia nel vecchio giardino. Le camicie che gli tiravano sul petto quando finiva di spostare pietre e strappare le erbacce. Quando smanettava su quei catorci che erano le nostre macchine per spremergli un altro anno di vita. Rivedo tutto questo e non so se ce la faccio, a restare qui.
La sera ceniamo con cose semplici. Riso e Spam col furikake. Un pezzo di papaya fresca che mangiamo a cucchiaiate. Parliamo – nel senso, so che mia madre muove la bocca e la muovo anch’io – ma non sono lì con lei. Sono a cinquemila chilometri di distanza. Qualche ora prima ho mandato un messaggio a Van: ehi.
La risposta ci ha messo un sacco ad arrivare. Sono passati dei tizi della segreteria studenti, hanno detto che devono cominciare a rispedirti la roba a casa.
Sì, ho scritto. Resto qua per un po’.
È dura, lì dai tuoi?, ha chiesto.
È dura dappertutto, ho detto io.
Sono passati minuti. Sullo schermo lampeggiava un simboletto da cui si capiva che stava scrivendo qualcosa. Poi ha smesso. Poi ha ricominciato, stava scrivendo. Ma ha smesso.
Quanto ti ricordi di quella festa?, ho chiesto.
Di nuovo scriveva e si interrompeva. Ricominciava e si interrompeva.
Mi hai mollata lì, ha risposto.
Poi sono tornata, ho detto.
Solo dopo Katarina e Hao, ha scritto lei. Quel testa di cazzo di Connor mi stava praticamente montando sopra. Io non mi ricordo quasi niente ma mi ricordo chi c’era quando ho avuto bisogno.
Ho stretto il telefono così forte che mi hanno fatto male le spalle. Ero sbronza, oltretutto. Stavo per scrivere qualcosa, ma mi sono fermata. Poi ho scritto: Scusa, ma ho cancellato. Ho scritto: Ti ricordi quando mi hai detto che ti faccio schifo, eri seria?, ma ho cancellato tutto.
E a quel punto ho spento il telefono.
La sera mamma va al lavoro. A pulire uffici a Waimea e Waikoloa. Io dormo su uno dei divanetti del soggiorno, oppure per terra, stesa su qualche asciugamano per rendere meno scomodo il legno, e una sera sto per addormentarmi quando sento un colpo, delle porte che si chiudono, il fruscio e lo sbatacchiare di quella con la zanzariera. Mi alzo a sedere, accendo le luci e vedo papà che si avvia in giardino. Ok, allora mi infilo al volo qualche vestito ed esco sul lanai, per seguirlo. Ma non va lontano. È fermo lì, a gambe incrociate. Appena fuori dai rettangoli di luce che le finestre della casa disegnano sull’erba nel buio. Se ne sta seduto come un monaco nel buio più totale, mi spiego? Io non parlo; lui non sta andando da nessuna parte, non sta facendo male a nessuno. Lo vedo che si china in avanti e preme l’orecchio a terra. Rimane fermo così per tanto di quel tempo che alla fine scendo dal lanai e lo raggiungo sul prato, parlandogli, dicendo: «Papà, alzati, dài, che stai facendo? Qua fuori fa freddo». Ma lui resta seduto a terra, non mi dà retta. Io lì che dico: «Papà, torniamo dentro. Ti prendo un bicchiere d’acqua». Ma lui non si alza facilmente. Resta chino in quella posizione di supplica. Ad ascoltare. Con gli occhi socchiusi, le labbra aperte appena appena. Alla fine smetto di strattonarlo, smetto di parlare. Mi chino sull’erba anch’io, con l’orecchio a terra, di fronte a lui.
Non sento niente.
E papà che borbotta: «Ascolta, ascolta, ascolta».
«Va bene, papà» gli faccio io. «Ok». E gli tocco una spalla.
Lui mi guarda malissimo, mi scansa il braccio. Torna a sedersi completamente dritto.
«Ascolta» dice. «Ascolta, ascolta, ascolta. Non è solo una danza».
Da quando sono tornata è la prima volta che lo sento parlare con una voce normale. Non sono preparata.
«Non è solo una danza» ripete.
L’hula. Mi si stanno gelando le braccia e le gambe. «Che cosa, non è solo una danza?».
«Come sono fatti quando ti vengono a prendere?» dice. «Devi ascoltare. Come me».
«Ascoltare cosa, papà?» gli chiedo.
Ma qualcosa è cambiato, ok? Gli si affloscia tutta la faccia come se si fosse fatto sette birre, ma ovviamente non ha bevuto nulla.
«Papà» dico. «Ehi, resta con me».
Ma lui non ce la fa.