30
DEAN, 2009
Penitenziario della contea, Oregon

Sono dentro da quando c’è stata la sentenza, e uno tipo si immagina stupri nei bagni e coltellate tra gang, e invece qua giuro è il silenzio a essere violento. I minuti in galera passano più che altro così:

 

 

 

 

 

 

E in mezzo solo l’azzurro e bianco dei muri e nient’altro. Penitenziario della contea, azzurro e bianco, azzurro e bianco. I due colori di cui è fatto tutto, qua dentro. E sotto l’azzurro e il bianco vedo le scritte che lasciamo noi sui muri mentre stiamo qui a morire, mentre stiamo qui dentro a farci del male, perché è questo che si fa veramente in galera, ci si fa del male, e anche quando ci ridipingono sopra, su quelle parole incise con il manico limato di un cucchiaio rubato alla mensa, noi le riscriviamo di nuovo, tutta la follia che esce dalla testa alla gente a forza di stare rannicchiata ad avvizzire sul materassino del letto, e a volte sono idiozie tipo Yabba dabba doo e a volte è roba seria tipo Dio diede a Noè il segno dell’arcobaleno, non sarà più acqua, ma fuoco la prossima volta.

Non puoi tenerli a bada, il male e il bene, in un modo o nell’altro vengono fuori di nuovo, pure con tutti gli strati di vernice che puoi metterci sopra.

La stanza sono cinque passi dalla porta alle brande e quattro passi da un muro all’altro, e in mezzo c’è il cesso senza copriwater d’acciaio gelido, e il lavandino d’acciaio gelido, e nell’aria gli schiaffi di acciaio gelido dei miei ricordi. Il mio letto è troppo corto, ma almeno è quello di sopra, incassato nella parete, messo in modo che i piedi toccano il muro da un lato e la testa dall’altro, e lì a fianco, poco più in alto, c’è un quadratino di finestra.

Il primo giorno ci portano nei bagni e ci fanno piegare in avanti, con le guardie che dicono tipo: Voglio riuscire a vederti la faccia da dietro, ragazzo, e noi ci giriamo e ci pieghiamo tutti in avanti e allarghiamo le chiappe. Volevano vedere se nascondevamo droga, hanno cercato ovunque, fra le dita dei piedi e delle mani e fra i denti. Finita ’sta cosa ci danno le divise, azzurre con le maniche rosa, sottili e ruvide, e sandali di merda da haole di quelli che portano i vecchi nelle case di riposo. Una volta messa la nuova uniforme arrivo in cella e la trovo vuota e comincio a pensare che magari saranno centottanta giorni tranquilli, ma poi dietro di me fanno entrare Matty. Sarò rimasto da solo neanche due minuti, e poi eccolo lì, a sistemarsi il lenzuolo sul materasso, coi boccoli biondi da ragazzino tutti in disordine, pareva che si era appena alzato dal letto. Aveva le caviglie grasse coperte di cicatrici, e le braccia piene di lentiggini e smagliature, e la schiena tondeggiante di chi una volta era forte a qualcosa, ma ormai se l’è tipo dimenticato. L’hanno scortato fin dentro la cella. Io ero già tutto agitato e pronto a fare a botte ripensando a mille film che avevo visto. Specialmente le scene in prigione.

Cazzo ti guardi, gli dico.

Matty si ferma. Proprio sulla porta. Le guardie con le uniformi verde bottiglia in fila dietro di lui dicono: Muoversi, Muoversi, e a me: Stai calmo se non vuoi finire in isolamento. E Matty si ferma e mi sorride. Ma non un sorriso cattivo. Proprio rilassato, aperto, e mi fa: Fratello, lascia perdere ’ste pose da gangsta rap. Non è che sembri proprio Fifty Cent qua dentro.

E aveva ragione. Mi sono fatto una risata.

Io e Matty non parliamo molto. Quando siamo in cella ce ne stiamo a letto a leggere, o facciamo le flessioni per terra, col freddo del cemento che sale dalle mani ai muscoli delle braccia, oppure facciamo a turno a cacare nel cesso provando a non guardarci l’uno con l’altro.

Occhio, mi fa Matty una volta, un bel po’ dopo che hanno spento le luci, alzandosi per andare al cesso, stasera per cena c’erano i tacos.

Centottanta giorni meno il tempo già scontato. Questo mi hanno dato. Arrestato il 26 febbraio e sentenza emessa il giorno dopo, così di botto. Pensavo, che ne so, che ti portavano in centrale e poi ti rilasciavano e stabilivano una data per l’udienza, ma a me – tra scasso e furto d’auto e l’erba lasciata in casa di Noa – mi hanno messo dentro subito. Stamattina è il 15 aprile, quindi mi mancano ancora centotrentadue giorni. Mai stato così bravo in matematica oh, guarda come vado con le sottrazioni. Diventi bravo a un sacco di cose qua dentro.

Il 26 febbraio: dopo che ho spinto Kaui fuori dalla macchina e sono andato dritto verso lo sceriffo come se gli dovessi consegnare qualcosa. Lo sceriffo e i rinforzi arrivati dopo, tutti con ’sti giacconi neri stretti e pieni di bozzi, che si avvicinano lentamente lungo i due lati della macchina, le luci rosse e blu dei lampeggianti che mi entrano negli occhi. Il suono gracchiante delle radio e loro che parlano nel bavero del giaccone mentre girano intorno alla macchina, fissandomi. Io tenevo le mani ferme sul volante e provavo a respirare piano. Mi sono venute in mente tutte le storie che ho sentito in vita mia su come fare a non farsi sparare.

Con Kaui non c’era tempo di parlarci. Potevamo rimetterci a correre, magari, mollare lì la macchina e partire di nuovo a piedi per le strade. Ma non lo so, arrivi a un punto che boh, chi cazzo se ne frega, non c’ho più voglia di scappare. Prima io e Kaui stavamo parlando di Noa, degli squali, di cosa sentiva lui e cosa sentivamo noi, e se un po’ di quello che aveva lui ce l’avevamo pure noi. Cioè, magari non era per forza tutto finito solo perché lui non c’era più. Ma poi guardi lei e le cose che fa lei, e se guardi me io cos’è che ho fatto?

La risposta è facile, ho fatto quello che serviva a tutti noi.

Kaui ha visto la scena e mi è dispiaciuto per lei, ma era l’unico modo. Lei sa tutte le cose che ha imparato all’università, sa come si costruiscono le cose. Come si fabbricano le cose. Non era giusto farla diventare quest’altra roba qui, la polizia e il pakalolo e i furti, una che scappa.

Giuro. Io e la polizia. Quella è stata la parte peggiore, l’attesa dopo che mi hanno fermato. Sentivo che potevano farmi quello che volevano e nessuno gliel’avrebbe impedito. Li guardavo mentre controllavano la macchina. Si capiva che lo sceriffo si stava accorgendo che era rubata, aveva scritto un sacco di roba sul bloc-notes e acceso la radio che teneva appesa alla spalla. Avevo ancora addosso i pantaloni della tuta di Noa che a malapena riuscivo a farmi salire oltre il culo per quanto erano stretti. Gli orli mi strizzavano e segavano la pelle.

Lo sceriffo mi ha fatto segno di tirare giù il finestrino. Io ho obbedito.

Lui subito: Tieni le mani sul volante.

E chi le muove, dico io.

Tua sorella dov’è?, fa lui.

Mi stava troppo rompendo le palle, l’ho dovuta sbattere fuori dalla macchina. Non lo so dov’è.

E lui tipo: Quando vi ho lasciati andare pensavo che sarebbe finita bene.

Sì be’, ho detto io, è chiaro che non mi conosci.

 

Qui in cella il lavandino ha un bordo sporgente. Ho letto da qualche parte che, quando si allenano, i lottatori di Muay Thai si rotolano e sbattono un bastone sugli stinchi, per danneggiare i nervi e rinforzare l’osso, così alla fine non sentono più dolore. Dopo non c’è più niente che gli può far male. Perciò ogni volta che faccio i tre passi e mezzo dalla porta al lavandino, do una botta con lo stinco contro il bordo. Una bottarella secca. Per danneggiare i nervi. Tre passi e mezzo, botta. Tre passi e mezzo, botta. Le prime volte che do un calcio così al lavandino sento il riverbero fino ai denti, il dolore esplode come una cannonata di coriandoli, mi pare di vedermi tutte le vene rosse in testa, di sentire mille aghi sulle ossa. Ma dopo un po’ che lo rifaccio (tre passi e mezzo, botta, tre passi e mezzo, botta) il dolore diminuisce.

«Oh, ehi» mi dice Matty dalla sua branda. «Rocky». La voce calma, regolare. Potrebbe fare lo speaker radiofonico. «Che ne dici se la pianti con ’sto allenamento fino a domattina? È notte fonda se non te ne sei accorto».

«Pensavo che dormivi» dico io. Sono ancora rivolto verso la porta, con la sua finestrella e le luci basse di fuori che si infilano nella cella. C’è ancora quel freddo che mi sale dalla pianta dei piedi, ma lo stinco mi scotta, un milione di piccole fitte che pompano allo stesso ritmo del cuore.

«Stavo provando a farmi una sega» dice lui, come se fosse una faccenda che deve sbrigare. «Ma non è facile quando c’è accanto uno che prende a calci il lavandino».

Nel buio sorrido. Sono ancora di spalle a Matty e alle brande, ma sorrido lo stesso. «Ok» dico. «Ricomincia pure, stallone». Almeno si copre ancora col lenzuolo. Torno indietro e risalgo sulla mia branda, quella di sopra, e subito comincia questa specie di leggero cigolio continuo, che scuote e fa tremare la struttura del letto. Cristo santo Matty, sul serio?, ma non c’è altro da fare se non aspettare che finisce, perciò me ne resto lì a guardare il muro, e penso che se lo guardo abbastanza a lungo magari riesco a leggere qualche scritta, anche a luce spenta.

 

«Immagino che non potrai raccontarmi com’è davvero lì dentro» mi dice mamma al telefono. Mi rimangono dodici minuti, perché ho parlato prima con Kaui.

«Ci si annoia mamma, giuro» dico io. «Non succede niente. Ce ne stiamo solo seduti, tutto il tempo».

«Avete la tv?».

«Sì, quanta ne vuoi. Però è strano» mi viene quasi da ridere, «prima, quando lavoravo al magazzino e in quei posti lì, a volte passavo tutto il weekend a guardare la tv. Ora invece la odio».

«Ma non vi fanno lavorare? Ho letto da qualche parte che i detenuti sono praticamente manodopera gratis ai lavori forzati».

«Sì, c’è pure quello. Ma c’è tutto un sistema per farsi mettere nelle squadre che vanno fuori, quelle che lavorano nel bosco e roba del genere. Prima devi startene per un po’ zitto e buono, perché prendono solo chi sta dentro da qualche tempo e ha la buona condotta. Ormai il mio turno sarà quasi arrivato, credo. Però le guardie sono degli stronzi su ’sta cosa, cioè tipo è la prima cosa che ti tolgono, se possono».

«Ah».

«Sì, infatti non sono così sicuro che lo voglio fare. Non lo so».

«Capisco». Fa un piccolo colpo di tosse. Tipo per passare il tempo. Sento dei rumori in sottofondo, qualcuno che appallottola una busta di carta, e mi viene da pensare ai supermercati e a tutto lo spazio e la luce che hanno sempre, e a com’era prima, al J. Yamamoto.

«Non gli devi lasciare niente con cui ricattarti» dico io. «Finché sei qui dentro. Capisci? Una volta che ti possono ricattare è finita, sei fottuto».

«Dài che fra poco torni a casa» dice mamma. Che è la cosa che dice ogni volta quando non sa cosa dire.

«Papà come sta?» le chiedo. «Kaui dice che sta... non lo so. Dice che ci sono dei problemi».

«Tuo padre» dice mamma.

«Eh, lui» dico io. «Chi altro?».

«Sta bene».

«Mamma».

«Tiriamo avanti» dice lei. «È la stessa cosa per noi qua fuori e per te là dentro, Dean».

«La stessa cosa per voi?» dico io. «Col cazzo che è la stessa cosa».

«Ma no» dice lei. «Non intendevo in quel senso. Volevo dire... neanche tu mi stai raccontando tutto, di quello che succede lì».

«Forse non proprio tutto» dico io. Sorrido persino, mentre lo dico.

«Eh, quindi tutti e due nascondiamo qualcosa. È questo che stavo dicendo».

«Ok» rispondo io. «Ok, hai ragione».

«Se l’avessi saputo che finivi così, Dean» dice lei, ricominciando con la solita storia.

«Mamma».

«Mi sarei comportata diversamente quando eri ancora a scuola».

Va avanti per un po’, il solito discorso, sempre lo stesso, ogni volta che ci sentiamo al telefono da qua dentro, perciò smetto di ascoltare. Mi rimangono otto minuti. Una parte di me vorrebbe dirle di stare tranquilla, ma una parte di me no. Quanto fa schifo ’sta cosa? Che tipo un po’ vorrei dirle che sì, forse doveva comportarsi diversamente ai tempi del liceo, che forse non doveva essere così sicura sulla storia di Noa e dell’aumakua. E che forse doveva essere un po’ più sicura di tutti noi.

«Non possiamo farci niente ormai» le dico. «Ormai è andata».

Lei dice qualcosa a Kaui allontanandosi dal telefono, e poi si sente tipo questo suono robotico strano del cellulare che mezzo perde il segnale. Quando torna la linea dico: «Ehi mamma».

«Sì?».

«Mi sa che è meglio se mi lasciate da solo qui dentro».

«Dean».

«Ogni volta che parliamo c’è tutta questa roba di fuori che entra qui dentro con me» dico io. «E in questo momento non me lo posso permettere. Rende tutto più difficile, capito? E poi pare che qui te lo sentono addosso l’odore di quando ti manca qualcuno di fuori, di quando stai male».

«Non è una buona idea» dice lei, «stare là dentro senza di noi».

«Nah» dico io. «È l’idea migliore che ho mai avuto».

«Dean».

Ma ormai mica può sgridarmi.

«Lasciami fare a modo mio» dico. «Tanto non hai alternative».

E la questione è chiusa.

 

Invece, ecco una cosa di fuori che mi arriva: c’è un cortile, no?, con la rete metallica e un campo di cemento, una pista da atletica intorno, e due sputi d’erba ingiallita dall’estate in mezzo tra i due. È un campo da basket – sì, cazzo – e il carcere sarà pure una merda, ma i tabelloni sono solidi e pure i ferri, e ci sono persino le retine. Fin dal primo giorno che esco in cortile per l’ora d’aria mi metto ad ascoltare il suono che fa la palla quando bacia la retina. I palloni sono nuovi e belli gonfi, ma passano almeno sessanta giorni prima che mi decido a entrare in campo. Ci sono due guardie ferme in piedi ai lati, vicino ai canestri.

C’è gente con addosso dei pantaloncini o dei jeans strappati, con la fascia in testa tipo gangster, fanno quasi ridere certe pose da ghetto. Sono stato un bel po’ a guardare queste pippe inciamparsi addosso, prendersi a gomitate e sentirsi Michael Jordan, e non c’è proprio paragone, sono molto più forte io.

«Lo sapevo che questo cazzo di gigante prima o poi passava dalle nostre parti» dice Roscoe. Non ci conosciamo bene. Ha i baffi folti da messicano e fa parte di una delle gang che ci sono qua dentro.

Tengo la testa bassa, non incrocio lo sguardo con nessuno. Con la gente, dentro, funziona come coi cani.

«Tanto Brian ha il ginocchio andato» dice uno degli haole dell’altra squadra.

«Col cazzo che è andato» dice Brian.

«Salti meno di un ippopotamo incinto» dice l’altro.

«Senti che paroloni all’improvviso» dice ancora Roscoe. Fa un cenno con il mento al tizio che stava parlando prima. «Sei stato in biblioteca a studiare, sei pronto per il diploma, eh, Toni Tone?».

«Esatto» dice il tizio, Toni o come cazzo si chiama. «Ho studiato pure come romperti il culo».

E vanno avanti così per un po’, a fare battute su chi si è messo a studiare cosa, e a come fanno a imparare qualcosa se non riescono neanche a battere una squadra così, e tipo guarda il punteggio sul tabellone, tutte cazzate del genere.

«Perché non ti prendi una pausa, Brian» dico io.

«Dopo che mi succhi il cazzo» dice lui.

«Datti una calmata, Weston» dice una delle guardie. «Se non vuoi perdere il diritto all’ora d’aria».

Si sentono degli oooh in campo, e ci mettiamo tutti un po’ più dritti, come soldatini davanti al sergente istruttore. Facciamo sempre gli spiritosi, certo, finché non cominciano a parlare le guardie.

Brian esce dal campo, con le mani incrociate davanti ai pantaloni come un bravo scolaretto. Qualcuno mi passa la palla.

Mi basta toccarla. È passato un sacco di tempo dall’ultima volta, lo sento. A Spokane, dopo che mi hanno tagliato fuori dalla squadra, per tutti quei mesi non ho più toccato una palla, non mi sono mai più messo in divisa con gli altri. Ho pensato: è finita, mi sono ritirato dal basket, e poi quando ho cominciato a lasciarmi andare – le birre nel parcheggio, l’erba e le notti sveglio, tutte quelle ore a guardare la tv sul divano, senza mai andare a correre – non lo volevo scoprire che effetto mi poteva fare, essere così lento e pesante in campo.

Ma adesso ho una palla da basket in mano, cazzo. E appena la tocco subito mi sento in ritmo. Come se avessi tutti i muscoli pronti a saltare, ogni parte di me. Come un leone. Un re, ancora una volta, io che attraverso l’oceano. Ma stavolta mi chiedo se sono davvero in grado di ascoltare, se sono in grado di raggiungere l’altra sponda.

«Non inizi tu l’azione e non porti tu la palla» mi dice Toni. Toni, questo haole con i peli sul petto da gorilla e la faccia di uno che vuole sembrare un ragazzino preciso. «Tu giochi da centro, gigante. Passala a me, faccio io il playmaker».

Io sorrido. «Perché non ti metti là invece» dico, facendo un gesto verso il lato del campo. «E la fai portare a me».

«Dammi la palla» dice lui.

«Su, spostati, ragazzo» gli dico, e ci sono degli altri nella squadra, dei neri, che mi sa che se ne accorgono e sorridono, perché anche loro si mettono a dirgli lo stesso: Spostati, lascialo fare, vediamo come se la cava. Tanto comunque a passare sei una sega, gli dice uno.

Allora comincio.

Forse da qualche parte sarei lento, certo, ma non su questo campo, non ora. Sono liquido, ecco come sono. Giochiamo un’altra ventina di minuti e in campo sono ovunque, pare che non ho mai saltato un giorno di allenamenti, che lo so solo io come ci si sente. Prendo la palla e taglio in mezzo a due difensori, resisto ai loro tentativi penosi di fare fallo, schiaccio a canestro così forte che per poco la palla non mi rimbalza in faccia quando batte a terra, e resto appeso al ferro. Mando dei palloni perfetti sotto canestro ai miei compagni neri, e pure a Toni, la faccio passare in mezzo alle gambe di quei poveri sfigati, mi concedo pure un cambio di mano in velocità. Qui dentro la gente è lenta, troppe droghe, troppo alcol, troppi pesi in palestra e troppa poca corsa, e adesso li sto stracciando. La metto al tabellone tirando in sospensione e cadendo all’indietro. Ritrovo il mio tiro da tre e li punisco ogni volta che voglio. Automatico. Ok, vabbè, qualcuno lo sbaglio, magari più di qualcuno, e dopo non molto sento un calore e un dolore alle ginocchia e alla schiena, per la prima volta mi sento un vecchio, ma chi se ne frega, non è niente. Sono qui. Sono adesso.

Quando lascio il campo tutti sanno chi sono.

 

Da quel momento i giorni passano un po’ più in fretta. Alla mensa, durante i turni di lavoro, gli altri mi fanno cenni con la testa, mi lasciano spazio, e visto che io parlo poco e non faccio cazzate, e non sto lì a battermi il petto come un moke o a fare il figo, verso di me c’è rispetto. Lo sento crescere, continuo e silenzioso, e a volte sembra quasi mancanza di rispetto, quando qualcuno si mette a straparlare, a dire qualche cazzata su quello che è successo in campo, ma anche lì lo so che lo dicono solo perché ora sono io quello da battere. Anche certe guardie fanno così. Ce ne sono un paio che sono di turno in cortile più spesso degli altri, tipo l’agente Trujillo, che annuisce e sussurra qualcosa al suo amico quando faccio un cambio di direzione e metto un tiro cadendo indietro. Lo vedo che fa sì con la testa, tipo.

E mi sa che è così che mi viene un’altra idea. Più tardi, quando sono di nuovo in cella a fare quei soliti tre passi e mezzo, con tutti i ricordi che mi assillano come un obake, e mi rimetto ad allenare gli stinchi contro il lavandino. Tre passi e mezzo, vai. Tre passi e mezzo e fai cantare le ossa sull’acciaio.

Matty mi dice: «Quello che ti ci vorrebbe è un po’ di OC. Potresti prendere a calci il lavandino tutta la notte e non sentiresti niente».

Mi fermo. «Sto già arrivando al punto che non sento più niente. O tipo il mio cervello sa che sta per arrivare il dolore e lo blocca». Però il dolore alla mascella lo sento, a forza di digrignare i denti, quello sì. Ma a Matty non glielo dico.

«Eh ma con l’OC è tutta un’altra cosa» dice Matty. «L’hai mai provato?».

«Ma intendi la serie tv coi ragazzetti haole? Quella che sono tutti ricchi a Hollywood?».

Matty ride. Tipo scoppia proprio a ridere quando dico ’sta cosa.

«L’Oxycontin, amico mio» dice Matty. «Darei il coglione sinistro per averne un po’ qui dentro. Una botta sola, giuro. Appiattirebbe tutto quanto fino a una striscia di silenzio, e io ci potrei dormire sopra. Mi manca più di mia madre».

«E sul serio non te lo puoi procurare qua dentro?» dico io. «Hai chiesto in giro?».

«Prima cosa che ho fatto appena ho incrociato qualcuno».

«Ai bei tempi, tipo al liceo, te l’avrei procurato in un attimo» dico io. «E neanche so cos’è. Ma te l’avrei saputo procurare comunque».

Lui sbuffa. «Ecco, questo sogna di essere Babbo Natale».

«Te l’avrei trovato» dico io. «Giuro».

E di colpo eccola lì, l’idea ha già preso forma. Trujillo che mi fa segno con la testa dopo la partita. Matty che ha un bisogno disperato di droga. L’idea mi arriva proprio da sola.

 

Perciò la volta dopo che siamo in cortile e tocca all’agente Trujillo sospendere la partita alla fine dell’ora d’aria, sono io quello che gli va a riportare la palla. Ho tirato dieci su dodici dal campo, e verso la fine me ne sono uscito con una schiacciata all’indietro che tutti gli altri hanno fatto tipo ooooooh. L’agente Trujillo sta lì e dice: «È ora di ridarmi la palla, Flores».

Uniforme beige, baffi e pizzetto, pare che ogni pelo sta al posto esatto dove lo vuole lui, comprese le sopracciglia e i capelli a spazzola da marine. Mi serve solo un briciolo di cordialità. Un tempo ero capace di tirarla fuori da chiunque.

«È veramente un lavoro duro il vostro, lo sa?» gli dico.

«La palla» mi fa Trujillo.

«Cioè scommetto che i turni sono lunghi, e in più ci siamo noi qua che vi rendiamo la vita difficile tutto il tempo» gli dico. «E sicuro avrò visto neanche la metà della roba assurda che succede, gente che caga e piscia per terra e roba così, e poi le risse, tipo. Ho sentito che Crazy Eddie prova a attaccarvi l’epatite C sputandovi addosso».

«Non ti puoi neanche immaginare» dice Trujillo.

«Io sono delle Hawaii» gli faccio.

«La palla» dice lui, allungando la mano.

«Sono delle Hawaii».

«Non farmelo ripetere» dice Trujillo.

«Cioè, tipo, lei quand’è l’ultima volta che è andato in vacanza? Perché io me ne intendo di vacanze, so quanto costano eccetera».

«Flores» dice Trujillo con l’aria di uno che è stanco morto e io sono l’ultima cosa che lo separa dal letto, ma allo stesso tempo non è arrabbiato, e mi ascolta, il che vuol dire che sono stato bravo. Ok, non ho mai vinto un trofeo a Spokane. Niente grande vittoria, dopo tutti quegli anni. Dopo tutte quelle ore di palu e sudore e dolore. Io e mamma e Noa e quella litigata in cucina, e tutte le litigate che ci siamo fatti dopo, in silenzio. Io che prendo l’aereo e vado a gelarmi il culo laggiù, e tutto per il basket. Tutto per una vittoria. E alla fine rimanere senza niente in mano. Per un sacco di tempo qui dentro mi sono sentito in colpa – perdonami mamma, perdonami papà, perdonami Noa. È questo che mi sono ripetuto in testa tutti i giorni fino a oggi, e ora non mi restano più scuse da offrire. Ho qualcos’altro da vincere.

Ci credi nel destino?, mi ha chiesto Noa al telefono quella volta. A quello che siamo destinati a diventare, se è scritto fin dall’inizio.

E forse quello che sentiva lui nelle isole era lo stesso che sentivo io in campo, e io potevo essere come lui.

È troppo tardi ora, Noa. Ma posso ancora diventare quello di cui abbiamo bisogno. Prima c’era il basket, ora c’è questo. Tutte e due le cose servono a portare soldi.

«Senti» faccio a Trujillo. «E se ti dico che posso aiutarti a fare quella vacanza?».

 

Da lì in poi è stato facile. Mi spiego. Quando ero alle Hawaii conoscevo gente che faceva certe cose, rimediava roba, così, senza problemi. È per questo che al liceo potevo procurarmi quello che volevo, quei tizi già lo sapevano allora che il mondo è pieno di cose che uno può avere se ha la forza di andarsele a prendere. E ne conosco ancora di gente così. È lì che è iniziato tutto. E poi si arriva a Trujillo.

E da un giorno all’altro ecco che Trujillo e credo un altro paio di guardie fanno entrare la roba, e non serve chissà quale ricarico sul prezzo per far funzionare tutto, hanno persino un ripostiglio nella guardiola dove tenerne un po’ nascosta, perché non è che possono proprio entrare in ufficio con degli scatoloni pieni di mutande usate delle tipe dei detenuti e cocaina, come niente fosse. Nessuno sa del ripostiglio in guardiola a parte me, Trujillo e i suoi. Ma voglio dire, non è che questo è un carcere federale di massima sicurezza, con la gente tatuata in faccia che fa giuramenti a vita all’MS-13 o roba del genere, è un posto per coglioni come me, gente che ha fatto qualche scelta stupida, tipo, o gente che non riesce a tenere la testa a posto.

Per la maggior parte, almeno. Ma poi un giorno Rashad mi si siede accanto a mensa.

«Abbiamo deciso che era meglio dirtelo chiaro e tondo» mi fa. «I Wild Eights stanno dicendo che devi chiudere bottega».

«I Wild Eights» faccio io.

Rashad ride. «Esatto».

«Cioè quei due ciccioni che stanno sempre vicino alla pista d’atletica all’ora d’aria? E poi quell’altro tizio con le orecchie a sventola...».

«Ci sono sempre un po’ dei loro qui nel carcere della contea. In genere sono nuovi arrivati, perché è tutta gente di poco conto, che entra ed esce. Ma comunque...».

«E io perché dovrei crederti?».

È da un po’ che Rashad si fa arrivare lo sciroppo per la tosse tramite me e Trujillo, un altro cliente soddisfatto, c’è un dosaggio particolare che lo fa stare fatto come un divo del rap. Perciò un minimo gli credo.

«Ascolta» dice lui. «Conosco un tizio».

«Sì, lo conoscono tutti» dico io. «Tutti conoscono un tizio che...».

«Ascolta» dice Rashad. «Si chiama Justice. È, tipo, uno serio. Vestiti buoni, unghie pulite, roba così».

«E?».

«Qui dentro lui non ci viene» dice Rashad. «Ma ha dei ragazzi che puoi chiamare, gente che sa come parlare con quelli tipo gli Eights. Prima che la faccenda diventi seria». Si gratta la nuca. «Cioè, in verità è già seria, solo che tu ancora non lo sai».

«Quindi ora questa cosa è diventata, tipo, Patto di Sangue, così, all’improvviso».

«Io intanto te l’ho detto» fa Rashad. «Certo è difficile che qua si arriva a quel livello, tipo ad affilare i cucchiai per sgozzarci la gente o fare gli agguati nelle docce. Non è quello lo stile di Justice. E poi la gente qui pensa solo a uscire, che ti credi? Mica siamo nel braccio della morte».

«E allora» dico io, «perché mi stai facendo tutto ’sto discorso?».

«Perché quelle teste di cazzo dei Wild Eights pensano solo ad aiutare i loro» dice lui. «Non condividono un cazzo. Non come te».

Tiro un sospiro fra i denti, dài, sento che le cose stanno cambiando. «Io non sono un criminale» dico.

Rashad ride, con quel naso a punta e i denti allegri. Potrebbe fare il modello se non fosse chiuso qua dentro. «Ma certo, figurati» dice. «Neanche io. E neanche Kevin.

«Anzi, Kevin, tu com’è che sei dentro?» dice Rashad alzando la voce.

«Non avevano uno straccio di prova» risponde Kevin. Potrebbe suonare in un gruppo metal, ’sto ragazzo haole con la barba lunga e a punta e gli occhi spiritati. «Quel negro non aveva prove che lo stavo strangolando».

«Ti voglio bene anch’io» strilla Rashad. Si gira di nuovo verso di me. «Vedi? Non ci sono criminali qua dentro. Solo perfetti gentiluomini».

Resto seduto lì tipo per una vita.

«Allora, la vuoi fare questa chiamata?» chiede Rashad.

È un altro di quei momenti, no? Come in macchina, con Kaui. Dove c’è un lato delle cose e ce n’è un altro, e tu puoi andarti a mettere al volante o no.

«Alla gente servivano delle cose» dico io. «E io gliel’ho procurate. Doveva essere solo questo».

«Sì be’» Rashad alza le mani, poi le lascia ricadere sul tavolo, «adesso è qualcosa di più grosso. A te la scelta».