C’è un modo di ricordarti di cui non parlo con nessuno, il modo in cui ti ricordo ogni giorno, da sola, così: nascosta in camera da letto, col naso sprofondato negli ultimi vestiti che hai lasciato a casa prima di partire per la valle. La camicia è la mia preferita perché era quella ficcata più in fondo al cassetto e le è rimasto ancora attaccato qualcosa di te, sento forte il tuo odore nel cotone.
Nessuno mi può dire di non farlo. Di non starti vicina in questo modo, sentire il tuo odore e pensare a mio figlio e al buco che mi è rimasto nel cuore, che sembra stia facendo tutto tranne che chiudersi. Spalàncati, vorrei dire a quel buco. Inghiotti il mondo intero, inghiotti anche me.
Ma per quel poco di tempo che passo lì, coi tuoi vestiti, se non avvicino troppo il naso e non tengo gli occhi aperti mi sembra quasi di riaverti accanto, e siamo ancora a Honoka’a prima di quel giro in barca e prima degli schiavi, quando papà lavorava ancora nella piantagione. Quante risate che ci facevamo! Dello sporco, dei voti che prendevate a scuola e delle bollette da pagare non ce ne fregava niente. Non ce ne fregava niente di quello che diceva il telegiornale...
«Che stai facendo?».
È la voce di Kaui. Tu scompari di botto e io mi volto verso tua sorella, con gli occhi aperti. Restiamo tutte e due immobili. Io ho ancora la tua camicia fra le mani, le abbasso.
«Potrei inventarmi una balla» dico, «ma avrai capito benissimo cosa stavo facendo».
Lei apre la bocca, ma poi la richiude e incrocia le braccia.
«Mi stai giudicando» dico. «Non mi giu...».
«No» fa lei.
«Devi essere una madre per capire questo tipo di follia» continuo. «Fino ad allora...».
«Mamma! Non è questo».
«Quando si tratta di tuo figlio...».
«Non mi stai ascoltando» mi interrompe di nuovo.
Le chiedo cosa c’è, allora. Cos’è che ha visto.
«Mamma, non c’è niente di male se ti manca» risponde.
«Non sembrava, quando sei entrata un attimo fa».
«Ma no, niente. Ero solo sorpresa».
«Non ti credo» dico. «Lo vedo come mi guardi». E comincio ad alzare la voce.
«Non è niente» ripete lei. Si gratta un braccio e gira gli occhi altrove.
«Sei entrata e mi hai visto che annusavo i suoi vestiti» dico. «E poi mi hai guardata in un modo strano».
«Non lo faresti mai se fossi io» dice lei. «Tutto qui».
«Cioè...».
«Cioè, se fossi io quella che non c’è più» conclude. «Se fossi morta io».
«Secondo te?».
«Secondo me non lo faresti» dice.
Sento uno squillo di tristezza, mi rimbomba dentro all’improvviso. Le chiedo se lo pensa veramente, e lei dice certo che sì, che l’ha sempre pensato fin da quando era piccola, alla Kahena, di essere invisibile.
«Ma no, Kaui» dico. «Non è così. Certo che ci mancheresti».
Lei continua a non guardarmi, punta gli occhi sul pavimento o sul muro. Un braccio piegato sul petto per afferrarsi la spalla. Alla mia risposta fa un mm-hm sottovoce.
«Non pensi mai» dice, «che magari Noa non era quello che credevi tu?».
Ho ancora in mano la tua camicia. Mi ricordo ancora tutto di te, gli squali, Capodanno, i vicini, il cimitero, la sensazione che in quei momenti ci fosse qualcosa di spirituale. Una specie di luminosità che non ho più sentito, da quando non ci sei.
Alzo le spalle. «Lui era speciale» dico. «Tu non lo pensi?».
Non risponde. Fa qualche respiro senza dire nulla, poi esce dalla porta.
Tua sorella. C’è così tanto di lei che ancora non capisco. Mi giudica continuamente. Glielo leggo negli occhi quando torna a casa dalla fattoria, dopo che ho passato ore con tuo padre, col suo borbottio nelle orecchie, e mi ritrovo sempre più spesso a guardare quella piccola tv, un modo qualunque per far passare le ore prima di poter andare a pulire gli uffici degli stimati professionisti. Lei mi vede così e capisco che mi considera una donna pigra, fisicamente, emotivamente e mentalmente.
Forse ha ragione. Nei miei momenti migliori no, ma questo non è uno dei miei momenti migliori.
Nell’altra stanza la sento che parla con parole semplici a suo padre, dicendo che il bagno è pronto, e che può aiutarlo lei a fare tutto.