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DEAN, 2009
Portland

Quando esco dal carcere non è per niente come me l’aspettavo. È un cielo piatto color carta dove c’è abbastanza luce da far brillare il bagnato sui marciapiedi, ma ce n’è anche così poca che mi sembra di stare ancora dentro. Potrei tranquillamente essere ancora a Spokane, la sensazione è uguale, non si distingue ottobre da marzo e sai solo che ogni giorno la pelle ti diventa un po’ meno scura. Sono sulle scale davanti al carcere della contea e ho di nuovo addosso i vestiti di Noa, quei pantaloni della tuta strettissimi che mi arrivano agli stinchi e hanno l’elastico che mi sega i fianchi e a ogni passo pare che si strappano, e la felpa che mi devo tenere aperta perché non si chiude più la zip. Mi sembra che sto per scoppiare, da tutte le parti.

Sono fuori. Nessuno a scortarmi, nessuno sceriffo, impiegato della contea o altri ad accompagnarmi di qua e di là. Ho una busta di plastica bella spessa con dentro tutta la roba che avevo addosso quando mi hanno messo dentro: il portafoglio, una moneta da un centesimo e due da 25, lo scontrino di un 7-Eleven, la carta di credito, il cellulare. Mi chiedo chi se l’è fumate le canne che m’erano rimaste, sicuro uno di quei cazzo di sbirri con la moglie, o qualcuno così. Adesso, qua fuori, ho davanti una serie di gradini marroncini fatti di sassetti, e sotto, per strada, gente che gira con la valigetta in mano e ragazzini che aspettano l’autobus e dei lavori in corso all’angolo con gli operai che passano sopra l’asfalto bagnato un affare che fa uno stridio fortissimo di metallo.

Ma il cellulare mi è morto e Justice non viene mai a prendere nessuno qui davanti, questo me l’ha sempre detto, parlando di quando sarei uscito. Devo trovare io il modo di comunicare con lui. Sembra quasi un esame. E io li odio gli esami, non ho idea di cosa devo fare. Mi infilo una mano nella tasca dei pantaloni. Sento un pezzetto di carta che mi graffia le dita e quando lo tiro fuori, giuro, pare la risposta di Dio, il foglietto dice Khadeja, con sotto un numero. No, cazzo, penso subito.

Ma fa freddo e dopo un po’ che sto là fermo il no diventa sì. Pessima idea. Ma lo faccio comunque.

Torno dentro, chiedo di usare il telefono e la tipa dall’altro lato del vetro antiproiettile fa schioccare la gomma da masticare e mi guarda con gli occhi morti.

«Mi sa che ’sta domanda te la fanno tutti, eh?» dico.

E lei: «Sì, ognuno di voi che esce da queste porte. Più quelli che entrano dalla strada. E poi le famiglie...». Scuote la testa.

«Belle treccine» dico. «Te le fai da sola?».

Lei fa una risata, una sola: ah!, e una smorfia come a dire: ma dài. «Sì, e che c’ho tre braccia e gli occhi dietro la testa, per riuscire a vedermi i capelli fino a lì?».

«Ah» dico. «Vabbè, ma volevo dire che ti stanno bene, le treccine rosse sulla pelle scura, non te la prendere così».

Lei fa schioccare la gomma e mi guarda di nuovo con gli occhi morti.

«Lo sai però che assomigli un po’ a Oprah?» continuo. «Te lo dicono mai? Hai la stessa aria da tipa tosta, decisa. Quand’è che molli ’sto lavoro e te ne trovi uno meglio?».

Lei scoppia di nuovo in quell’unica risata: ah!, e alza gli occhi al cielo. Si accarezza le treccine. «Uh guarda, alla velocità della luce, proprio». Spinge il telefono vicino al vetro dello sportello. «Dài, avanti, una telefonata fattela» dice. «Due minuti».

«Che fai quando stacchi?» dico io mentre prendo la cornetta, ma mi viene quasi da ridere già mentre lo dico, e anche lei si mette a ridere, mi fa: «Sì, perché vestito da carcerato come stai ti porto a mangiare una bella fetta di torta in pasticceria». Indica il telefono e alza due dita. «Due minuti».

Quando Khadeja risponde dico subito: «Sono Dean, non riattaccare».

«Chi?».

«Il fratello di Nainoa».

All’altro capo silenzio.

«Non riattaccare, ho detto».

 

E poi sono di nuovo fuori, in cima alle scale. Mi dico che Khadeja non verrà anche se ha detto che veniva, e invece eccola che accosta con la sua macchinetta bianca, in tailleur pantalone nero e i capelli sciolti, una gran chioma afro, non le treccine davanti con il codino afro dietro come l’ultima volta. Cerco di fare un passo verso di lei ma succede qualcosa.

Devo continuare a tenere con una mano i pantaloni di Noa, perché non mi stanno su, ma non è solo questo. È quasi che non voglio uscire di galera, tipo che mi fa paura. Mi fermo e mi giro e mi vedo davanti il carcere e sono pieno di tristezza, che cosa assurda. Pare che me ne sto andando di casa, o comunque da un posto che ho capito meglio di quasi tutti gli altri, il che vuol dire che in un certo senso è casa, penso io. Adesso ho intorno tutto questo spazio, questo rumore, questa luce e tutto ciò che viene dopo Noa, ad aspettarmi al varco.

Ma butto fuori l’aria e faccio un passo, poi un altro. In fondo alle scale c’è Khadeja. Ha la faccia preoccupata.

«Cammini piano, che hai, dentro ti hanno fatto male?».

Io sbuffo. «È una galera. Secondo te?».

E lei si mette a giocherellare col portachiavi della macchina, lo guarda girare e dondolare. Si interrompe. «Sono qui solo per Nainoa» dice. «Quindi non cominciare con questo atteggiamento».

Subito mi monta dentro la rabbia come un muscolo che si gonfia. «Vedi, che brava fidanzatina» dico, «adesso sei qui per lui, non come quando stava male davvero e aveva bisogno di qualcuno e tu non c’eri. Che culo».

Lei mi squadra. Dalla testa ai piedi e dai piedi alla testa. Poi preme l’acceleratore e la macchina scatta in avanti, facendomi staccare di colpo le mani dalla portiera, e continua ad andare, lasciandomi lì. Io incrocio le braccia e aspetto, della serie: Sì, certo, figurati se se ne va senza di me. Ma quando arriva quasi alla prima traversa mi metto a correre, con quei pantaloni della tuta sbrindellati che mi si strappano e mi si aprono sempre di più, io che me li reggo con una mano sola mentre nell’altra mi sventola e mi ballonzola la busta di plastica con dentro tutti i miei averi, e strillo ehi ehi ehi e vedo che si accendono le luci dei freni.

Quando mi avvicino Khadeja abbassa il finestrino. «Ti accompagno dove devi andare e ti mollo lì, punto».

Piove a sputacchi, a intermittenza, ma mi lascio bagnare. Voglio sentire le gocce sulla pelle. È colpa della galera, vorrei dirle, è da lì che nasce tutta ’sta discussione, non sono io, è colpa dello stare dentro. Ma mi dico che non c’è modo di spiegarle cosa vuol dire stare dentro e farglielo capire, e probabilmente da adesso sarà così anche con tutti gli altri, e quando me ne rendo conto con la pioggia in faccia penso: Ecco, c’è una versione di me che è stata in galera e non la conoscerà nessun altro per tutto il resto della mia vita.

«L’offerta non dura in eterno» dice Khadeja.

Apro la portiera ed entro.

 

Il posto dove mi faccio portare è un negozio grandi taglie su MLK Boulevard. Andando non abbiamo detto una parola, solo ascoltato un sacco di musica alla radio, passava una canzone e io facevo: Che bomba ’sta base, oppure: Senti che acuti lei, e Khadeja rispondeva: È un pezzo che si sente da mesi. Ma per me era tutta roba che sentivo per la prima volta, quindi ho smesso di fare commenti. E anche di Portland non è che ho visto molto, le varie strade e i quartieri per me sono nuovi, ma in fondo è una città come un’altra. Palazzi alti di vetro, gente in giacca e cravatta, poi strade in cui balie etiopi coi fianchi larghi portano in giro neonati bianchi sul passeggino, e interi isolati che sembrano distrutti da un bombardamento, vecchi muri di mattoni e finestre sbarrate con le assi, marciapiedi e vicoli pieni di vaschette di takeaway cinese e buste dell’immondizia stracciate, e un sacco di posti – sotto i piloni delle autostrade e lungo le cancellate e nei parchi – dove la gente dorme all’aperto con accanto carrelli della spesa rigonfi e strapieni di vestiti, scatole e pentolini per il latte, come se un negozio di quelli tutto a un dollaro gli avesse vomitato addosso.

Esco dalla macchina. Ha smesso di piovere, quindi Khadeja abbassa il finestrino e io infilo la testa dentro e dico: «Non dovevi, lo so, quindi grazie». Anche se vorrei dirle: Ci hai lasciati lì a casa sua e ci hanno arrestati, cazzo. Lei mi sa che capisce che sto ripensando a quel giorno, e fa: «Quindi l’unico posto dove volevi andare era questo?».

Alzo le mani e apro le braccia, mostrandole i vestiti che porto addosso, della serie che altro posso fare, e in quel momento i pantaloni strappati di Nainoa mi scendono dalla vita e mi calano alle caviglie. Alla vista delle mie cosce nude lei si fa una risata e poi si copre la bocca. «Dove vuoi che vado, messo così» dico. Mi chino a raccogliere i pantaloni, e mentre sono piegato sento il risucchio del finestrino che si chiude e lo scatto delle sicure, e di lì a un attimo Khadeja è in strada accanto a me.

«Ti voglio fare una domanda» dice.

Io mi sento chiudere la gola, penso che mi farà altre domande su com’era dentro, la gente che passava le notti a urlare cose senza senso fino a sgolarsi, i tizi stuprati, costretti a leccare buchi del culo e succhiare cazzi, e certe volte la paura di essere io il prossimo, ma la cosa è che fuori dalla macchina di Khadeja c’è troppo spazio e troppo rumore e troppa roba che mi piomba addosso da ogni parte. Me la sento venire incontro tutta insieme mentre sto lì fermo. Avrei tipo bisogno di ritirarmi dentro una stanzetta, così a spalle coperte vedrei solo quello che mi arriva da davanti. Mi sa che ho la faccia stravolta e non me la riesco a sistemare, perché Khadeja chiude la bocca.

Si massaggia col pollice sopra un occhio. «Senti, non ci mettiamo a parlare qui. Facciamoci un giro in macchina cinque minuti».

Non so se mi va. Ho già in testa un elenco delle prossime cose da fare: comprarmi dei vestiti nuovi, trovare un cellulare del cazzo o una cabina o un qualche altro modo per chiamare Justice, vedere cosa può fare o se conosce qualcuno che mi può dare un posto dove stare.

«Poi ti riporto qua» dice Khadeja.

Mentre sto lì che la guardo mi rendo conto per la prima volta di quanto sono stanco, e di quanto mi sento al sicuro nella sua macchina, quindi risalgo e mi siedo comodo sul sedile e lascio che la macchina mi porti, fra sobbalzi e curve dolci, con le nuvole che scorrono fuori dal finestrino e la città che ci passa accanto e continua a passare, finché non arriviamo a casa di Noa.

Parcheggiamo dall’altro lato della strada, l’erba del giardinetto è ben rasata e la grossa finestra sul davanti ha le tende tirate. Dietro non si vede nessuna luce. Restiamo seduti in macchina a guardare la casa senza dire niente, e sento che mio fratello non c’è più da tutto il peso della roba che si portava addosso e che adesso si sta rovesciando su di me: mamma e papà senza un soldo alle Hawaii, tutti i sacrifici che hanno fatto per mandarci qui, per darci un’opportunità, tutti i debiti che avevamo prima ancora di cominciare. Alzo un pochino il volume della radio, tengo il ritmo con la testa, non esiste che mi metto a piangere davanti a Khadeja, anche se sento un bruciore tutto intorno agli occhi.

Lei vuole sapere come mai Noa se n’è andato, è questa la domanda che mi fa. Io non so da dove cominciare, quindi le racconto tutto quello che so di Noa, butto fuori tutto come un fiume in piena, gli squali, lui com’era a casa, da ragazzino quando era diventato una leggenda, e poi quando eravamo al college e dopo ancora, e per risponderle posso solo dirle dei discorsi che mi ha fatto Noa al telefono o quello che ho capito parlando con Kaui e con mamma dopo. Lui che tutto il tempo doveva capire i suoi poteri, gli dèi e il loro volere, questa roba qua. La strada da prendere. Più ne parlo e più mi rendo conto che probabilmente si sentiva solo da morire. Solo come io non sono stato mai prima di andare in galera.

«Se l’unica cosa che hai te la tolgono» dico – non sto neanche pensando mentre parlo, le parole che mi escono di bocca ce l’ho dentro da sempre –, «se l’unica cosa che sei, la parte che hai sempre considerato la migliore, te la tolgono, da quel giorno in poi...». Scrollo le spalle. «Da quel giorno in poi ti porti sulle spalle tutto il tuo futuro come fosse un cadavere. Proprio sul groppone, in mezzo alle spalle. È difficile che riesci a goderti qualcosa, quando stai così. E sai a Noa quando gli è successo? Dopo l’ambulanza, quando c’è stata quella tipa incinta che non è riuscito a salvare, hai presente?».

Punto un pugno contro il finestrino della macchina, lo premo contro il vetro. Freddo e pulito. Dico: «Deve avergli fatto tutto molto male, proprio nel profondo».

«Te l’ha detto lui?» mi chiede Khadeja.

«No» rispondo io. «Diciamo che io e Noa abbiamo un po’ di cose in comune».

Restiamo un attimo a guardare la casa. Manco dovesse uscire Noa da un momento all’altro.

«Non l’ho neanche conosciuto per tanto tempo» dice Khadeja. «È questo che continuo a ripetermi. E però già ho capito che in un modo o nell’altro mi resterà dentro per tutta la vita».

«Sì, be’» dico, «c’è stato un periodo che lo consideravo uno stronzo». Lei si volta a guardarmi, tutta scioccata. E io: «Perché, con te non lo faceva mai che cominciavi a parlare e lui ti interrompeva per rispiegarti da capo la stessa cosa che stavi dicendo, ma parlando come un libro stampato? Come fosse l’assistente digitale con tutti i dati e i numeri precisi che tu sei troppo stupido per saperli?».

Lei si mette a ridere. «Be’, magari un paio di volte sì».

È bello, fare questo. Mi fa stare meno male. E poi è tutto vero.

«Un paio di volte, un cazzo» dico. «Alle superiori era sempre così». Giocherello con l’alzacristalli elettrico, premendo il pulsante su e giù a colpetti così rapidi che il finestrino non comincia mai a muoversi in nessuna direzione.

«Non voglio offenderti» dice lei, «e so che non faccio parte della tua famiglia e che ogni famiglia ha il suo modo di funzionare, e da fuori non può capirlo nessun altro. Ma mi pare che da lui ci si aspettava sempre tanto. Forse troppo».

E a me viene subito da dire: ma che questa si crede meglio di noi? Ecco, lei e Noa erano proprio fatti l’uno per l’altra. «Hai ragione» dico, «non sai veramente niente della mia famiglia».

«Non ho detto questo, ho detto...».

«L’ho sentito quello che hai detto» faccio io. Sto lì lì per esplodere, c’è una parte di me che subito vuole spaccare della roba, farsi una grossa litigata. Il solito Dean, ha detto mamma. Ma stavolta no. Mi do una regolata.

«Una volta lo pensavo pure io» dico. «Che erano mamma e papà a mettere troppa pressione addosso a Noa, che è stato questo che l’ha ammazzato. Poi per un po’ mi sono detto che quello che metteva più pressione addosso a Noa era lui stesso, e che probabilmente sull’ambulanza aveva fatto casino perché si era caricato troppo. Ma ora» scuoto la testa, «boh, magari sono state tutte queste cose insieme. Probabilmente sarà stato un po’ di tutto. Magari gli ha solo detto male».

«Mi dispiace» dice lei.

Mugugno per farle capire che l’ho sentita, ma non aggiungo altro. Passa una macchina con dentro una signora haole coi capelli pettinati all’insù come un vaso costoso e un cagnolino che le abbaia in grembo. Il fiocco che ha al collo il cane è dello stesso rosa shocking orrendo della giacca della signora. Quando ci supera chiedo a Khadeja se l’ha vista. Lei ridacchia.

«Mi sa tanto che non abita da queste parti» dice. Per un attimo la strada rimane vuota, poi arriva un tipo che forse è un idraulico o qualcosa del genere, parcheggia ed entra con le chiavi nell’appartamento accanto a quello di Noa.

«Per un sacco di tempo ce l’avrei voluto avere anch’io quello che aveva Noa» dico. «Non si capiva mai alla fine che cosa poteva diventare. Si stava trasformando tipo in un supereroe. E questo piacerebbe a tutti, no?».

Lei non risponde. Io continuo. «Ma adesso non c’è più» dico. «E noialtri stiamo ancora qua a soffrire. Quindi dobbiamo trovare un modo per andare avanti a vivere».

Lei mi chiede cosa intendo, cos’ho in mente di fare. Io non le racconto cosa faccio da quando mi hanno messo dentro, e che tutti i soldi che ho guadagnato sono volati alle Hawaii, dritti sul conto di mamma e papà. E quello era solo finché stavo dentro. Adesso che sono fuori, e che posso mettermi a lavorare con Justice per davvero? «Mi serve un telefono» dico.

«Puoi usare il mio». Lo tira fuori dalla borsetta e me lo passa. Io lo guardo per un bel pezzo. Una volta che questo telefono qui chiama quello lì, sicuro ne resta traccia da qualche parte. «Meglio di no» dico.

«Ah» fa lei, e se lo riprende. Guarda l’ora. Si schiarisce la gola. «Adesso devo andare a prendere Rika».

«Sì» dico. «E io è meglio che vado».

 

Mi riporta al negozio grandi taglie, ci accosta davanti.

«Restiamo in contatto?» le chiedo.

«In contatto per cosa?» dice lei.

«Se ti volessi aiutare in qualche modo. Mandarti dei soldi per pagare il college a Rika, cose così. Come avrebbe voluto Noa».

Lei ci pensa su, fissando la strada davanti a noi. Poi dice che il numero ce l’ho, se la cerco la trovo. Non dice altro e io non insisto.

«Ok» le faccio. «Direi che quello basta».

Mentre sto lì seduto, ci rifletto. Mi dico che la carta di credito è impossibile che funziona ancora. Non so bene che fare adesso, so solo che non posso più restare dentro questa macchina.

Scendo, chiudo la portiera. Appena fa lo scatto, di colpo il cielo si apre e manco a farlo apposta comincia a piovere a secchiate. Io alzo le mani, guardo le nuvole.

Khadeja abbassa appena il finestrino.

«Sempre ’sta cazzo di pioggia» le dico. «Ma quando smette?».

«Certe volte sembra che non debba mai finire» dice lei, e ingrana la marcia. «Ma poi di colpo arriva l’estate. Aspetta e vedrai che effetto fa».